La perfezione dei giorni e la lode nel tempo: su “Perfect Days” di Wim Wenders


Guardare in alto, la mattina, uscendo di casa. Respirare a pieni polmoni all’inizio di una giornata di lavoro. Ammirare con letizia il giorno che comincia. Questo si ripete sempre. La ripetizione è il segreto di tutta la prima parte del film. Hirayama, un 50enne giapponese, la mattina si sveglia al suono della scopa con cui l’anziana vicina spazza la strada. Ripiega minuzionamente materasso e coperte del suo letto, si lava i denti, spruzza con gioia acqua nebulizzata sulle sue piccole piante, che guarda compiaciuto, indossa la tuta da lavoro, recupera telefono, macchina fotografica, chiavi spiccioli e poi apre la porta. Uno sguardo al cielo, con occhio emozionato e pieno di stupore, poi da una macchinetta di fronte a casa compra una lattina di caffé freddo e dopo un breve controllo al furgone, accende il motore e si avvia verso il centro della città. Lo attendono decine di toilettes pubbliche, da pulire con una meticolosa cura e un’incredibile precisione. Il lavoro si protrae fino al primo pomeriggio, con pacata sicurezza. Il ritorno a casa, poi in bicicletta la visita al bagno pubblico per un lavacro ristoratore, la cena presso un locale vicino alla metropolitana, il ritorno a casa, per la lettura, un poco assonnata, di uno dei libri tascabili di cui è piena la piccola libreria della camera. Di tanto in tanto, nella pausa per uno spuntino, le fotografie agli alberi e alle luci, al gioco di luci tra gli alberi. E la domenica, con esatta precisione, il ritiro delle fotografie del rullino analogico della settimana prima, la consegna del rullino per la stampa e la ricarica della macchina con il nuovo rullino. Le fotografie, severamente selezionate, riempiono scatole di una collezione decennale.

La regolarità della settimana e delle settimane, sembra di una collezione di “giorni perfetti”, segnati da un distacco quasi anaffettivo. Se non fosse per gli incanti del cielo, delle piante, degli incontri umani intorno alle toilettes da ripulire, che parlano di meraviglia e di stupore.

Lo sguardo sereno di Hirayama si altera appena solo quando entra in campo l’amore. Prima l’amore di amicizia, poi l’amore di famiglia, poi l’amore di passione. Il suo collaboratore gli chiede un passaggio, per lui e la sua fidanzata. Non sa dire di no. Poi gli chiede soldi. Non sa dire di no. Poi gli chiede anche di vendere per lui le sue cassette musicali. Non può farlo. Ma dovrà farlo lui stesso, per pagare la benzina con cui tornare a casa, molto tardi, senza poter fare il bagno e saltando la cena, sostituita da emergenze casalinghe. L’amore di amicizia lo ha fatto sbandare dal tempo esatto. Così accade quando la nipote, scappata di casa, lo aspetta la sera, al suo ritorno dal lavoro. Con lei tutto cambia, riemerge il conflitto con la madre, sua sorella, e il giudizio che essa da di suo fratello “pulitore di gabinetti”. La gentile padrona del ristorante in cui pranza la domenica, sorpresa ad abbracciare un uomo, induce Hirayama a fuggire. Ma più tardi, sulla riva del fiume, Hirayama beve birra con l’ex marito, che ha scoperto di essere malato terminale, e quasi le offre la ex-moglie in protezione.

Queste aperture del “sistema di protezione” di una vita sempre uguale sono guardate nella luce di un ritmo lento, misurato, cauto. E il gran finale, in cui Hirayama, sulle note di una canzone famosa, accompagnato dal ritmo incalzante dei tromboni, guarda la città, mentre è alla guida e lascia trasparire la gioia e il dolore, la memoria e la attesa dal suo volto quasi incantato, segna la possibilità di una trasfigurazione, di una gioia più profonda, custodita dalla vita più elementare, che non si scherma dall’amore, ma che lo accosta con pudore, con dolcezza e con speranza. Una perfezione che si prende cura delle imperfezioni di cui siamo intrecciati. Esse emergono proprio sulle soglie critiche che sono le forme elementari della comunione: il sonno, il pasto e la pulizia. Il talamo, la tavola e la toilette. Con una certa preminenza della terza, che occupa il lavoro quotidiano del protagonista, ma con una presenza consistente sia del mangiare, sia del dormire, i “giorni della perfezione” sono i punti di equilibrio tra questi tre poli della necessità programmabile e la irruzione delle forme dell’amore imprevedibile: di amici, di parenti e di amanti, riconosciuti nella misura di una cura comunque smisurata.

Nella lunga filmografia di Wenders questo film non fatica a stare vicino a “Falso Movimento” o a “Nel corso del tempo”. Ma vi è una contaminazione tra cinema giapponese (la camera spesso guarda il mondo da appena un metro di altezza) e certe immagini di Rohmer o di Kieslowski, che riappaiono nella loro essenzialità morale. Una meditazione profonda, elegante, con uno sguardo limpido, tutto concentrato nella letizia meravigliata che esplode negli ultimi minuti, colorati e suonati sul volto espressivo di Hirayama, dall’occhio sensibile e sereno della cinecamera guidata dal miglior Wim Wenders.

Share