La differenza di due “soltanto” dimenticati. Nuovi occhiali per depolarizzare la tradizione.
Dopo il mio post di ieri (qui), un lettore attento mi ha segnalato che se ne poteva trarre una “polarizzazione” che lui non trovava nel Concilio di Trento. Credo che la osservazione sia pertinente e che richieda una dovuta precisazione.
Due luoghi classici della tradizione tridentina sono il canone sull’ ex opere operato e il canone sulla presenza reale. Tanto la efficacia dei sacramenti in genere quanto la efficacia della eucaristia vengono tradotte nella forma giuridica del canone di condanna, mediante una differenza, per esprimere la quale si usa in entrambi i casi o l’avverbio “tantummodo” o l’aggettivo “sola”, espressioni non marginali, che nella recezione del testo tendono ad essere rimosse, obliterate e dimenticate. Esaminiamo anzitutto le due proposizioni, nel loro tenore letterale, per capire come abbiano prodotto sviluppi che in parte contraddicono il testo conciliare originario, per poi comprendere in che modo la polarizzazione moderna sia stata favorita da questa recezione unilaterale dei testi tridentini.
1. Due testi dimenticati nel loro tenore originario
E’ facile che i 2 canoni tridentini che ho appena citato vengano citati in modo distorto. Leggiamoli nel loro testo originario:
Si quis dixerit, per ipsa novae Legis sacramenta ex opere operato non conferri gratiam, sed solam fidem divinae promissionis ad gratiam consequendam sufficere: anathema sit.
Si quis negaverit, in sanctissimae Eucharistiae sacramento contineri vere, realiter et substantialiter, corpus et sanguinem una cum anima et divinitate Domini nostri Jesu Christi ac proinde totum Christum; sed dixerit, tantummodo esse in eo ut in signo vel figura, aut virtute: anathema sit.
Se li consideriamo nel loro tenore letterale essi scomunicano chi dice che:
a) il dono di grazia avviene per sola fede nella promessa divina e non ex opere operato
b) la vera presenza non è reale e sostanziale, ma è solo come in un segno, figura o virtù
Ciò che è scomunicato è la posizione di chi esclude il ruolo dell’ex opere operato e della dimensione sostanziale della eucaristia.
Se leggiamo con attenzione il testo del canone non siamo autorizzati a trarne una polarizzazione netta, come quella che però si è sviluppata nella “recezione” dei due canoni, fino a portare il cattolicesimo ad identificarsi in una lettura dei sacramenti in generale tutta sbilanciata sull’ex opere operato (riducendo la fede quasi ad accidente) e una lettura della eucaristia tutta incentrata sulla dimensione sostanziale (senza attenzione alle forme rituali accidentali). Ciò che il canone condanna non è la fede, il segno, la figura o la virtù, ma la pretesa che fede, segno, figura o virtù siano autosufficienti.
2. Le conseguenze di una lettura distratta e interessata
Che cosa è accaduto, nella lunga recezione dei secoli dopo la metà del 500? Non il dettato tridentino, ma il tridentinismo di 600, 700 e 800 ha prodotto un effetto polarizzante obiettivo. Una lettura dei canoni tridentini che dimentichi il “soltanto” che caratterizza le definizioni (sola fide, e tantummodo in signo…) dimentica la logica originaria del testo e introduce una polarizzazione nuova: ossia quella tra “ente”e “segno”, quella tra “sostanza” e “figura”. Questo fenomeno risulta obiettivamente favorito anche da una ulteriore interferenza. Se a partire dalla metà del ‘500 le Congregazioni romane iniziano ad svolgere un lavoro centrale di orientamento e di controllo per tutta la chiesa, nella loro organizzazione pesa piuttosto forte la competenza del Santo Ufficio sul contenuto dogmatico, mentre la Congregazione dei riti si occupa della disciplina e della risposta umana al dono di grazia. La scissione, nei sacramenti, tra santificazione e culto, ribadita dalle competenze romane, risulta una condizione assai pesante nello sviluppo di una polarizzazione tra le forme del sacramento e le forme della fede. Una lettura pesantemente apologetica dei canoni tridentini ha obliterato la finezza con cui la condanna delle proposizioni era formulata in modo assai restrittivo. Non è irrilevante la fede per i sacramenti in genere, non è irrilevante il segno, la figura e la virtù per la realtà sostanziale della eucaristia. La riduzione del sacramento a “efficacia ex opere operato” e della eucaristia a “transustanziazione” non sono il frutto di una lettura fedele dei canoni tridentini. Proprio perché sono letture riduttive di canoni, che volevano impedire precisamente forme di prassi e di teoria ritenute capaci di introdurre una grave riduzione della tradizione, hanno di fatto introdotto una polarizzazione più accentuata e più lacerante, tanto per la dottrina quanto per la esperienza.
3. Le nuove prospettive aperte da Movimento Liturgico e Riforma Liturgica
Solo con il ML e poi con la RL abbiamo iniziato a recuperare la esigenza di correlare ex opere operato con ex opere operantis e di leggere la sostanza reale della eucaristia come relazione al segno, al simbolo, alla figura, al rito e alla virtù. Ma questo, dopo secoli di polarizzazione, oggi non è facile né da pensare né da vivere. Nonostante la Riforma liturgica, continuiamo a vivere in modo scisso presenza e figura, efficacia e culto. Le cose sono poste davanti ai nostri occhi, anche se non le vediamo. E investono il modo di battezzare, il modo di cresimare, il modo di presiedere o di partecipare all’eucaristia, il modo di confessare, di ungere i malati, il modo di ordinare e di celebrare le nozze. Tutto l’ambito del “sacramento” è spesso ancora coperto da una spessa coltre di “pregiudizi tridentini”, che erroneamente attribuiamo al Concilio di Trento, ma che spesso vengono da una recezione unilaterale del loro dettato. Una contrapposizione strutturale tra contenuto dogmatico e forma rituale, tra santificazione e culto, tra sostanza e accidenti è il frutto di una recezione non equilibrato della tradizione. La costruzione di un modello diverso, iniziata con il ML e formalizzata da SC e dalla Riforma Liturgica, deve avere la pretesa di una nuova sintesi dogmatica. Il cui compito consiste nel superare le false polarizzazioni, ossia nel depolarizzare la esperienza e la dottrina ecclesiale sui sacramenti e sull’eucaristia. La lettura attenta delle pietre miliari del passato ci aiuta a comprendere come molte delle polarizzazioni non sono nei testi originali (di Agostino, di Tommaso d’Aquino o del Concilio di Trento), ma negli occhiali tardo moderni con cui noi li leggiamo. Per questo motivo oggi dobbiamo costruire occhiali più acuti e più adeguati, capaci di fare sintesi dove vedevamo solo antitesi.
Caro Andrea, vorrei ricordare che il dibattito tridentino si è arricchito della lettura critica dei testi dei Novatores; i tre avverbi cui esso approda hanno il compito di dare una risposta differenziata rispettivamente a Lutero che non negava la presenza vera e reale ma la modalità sostanziale (perché ricondotta ad Aristotile); a Calvino che non negava il valore veritativo della presenza del Risorto nell’eucaristia ma dava priorità alla virtus dello Spirito Santo, che la realizza tra Cristo e il credente, quindi detta presenza non si compie in re (realiter); a Zwinglio che propendeva per una accezione metaforico/figurativa del discorso di Gesù e quindi negava il valore di tutti e tre gli avverbi per spostare tutto nell’intimità della fides. Per il resto, ottime le considerazioni sui rischi, non ancora superati, di avere sostanzializzato il rito in un aspetto puntiforme, per avere lasciato spazio, rischiando di separarli tra il corpo visibile e reale della Chiesa e il corpo eucaristico (in mysterio) del Risorto e soprattutto deponziato l’invito di Gesù: “Fate questo …”. Questo: che cosa? La sua autodonazione che costituisce il contenuto portante della sua vita totalmente donata e memorialmente celebrata come fonte della vita della Chiesa; la quale deve fare altrettanto nel momento e per il fatto che intende celebrare la memoria vivente del Risorto. Buona domenica e riposo estivo … al fresco, non in carcere, ma liberi tutti!
Gentile Prof. Grillo,
ho letto con attenzione il Suo intervento sulla “polarizzazione” dei canoni tridentini e vorrei proporre un punto di vista diverso, da figlio della Chiesa che cerca di essere fedele alla Tradizione viva, non a letture “polarizzate” moderne.
Il Concilio di Trento, come Lei stesso riporta, ha usato con precisione le parole “sola” e “tantummodo” per delimitare errori reali che minacciavano la fede cattolica, non per aprire a una visione “relazionale” dei sacramenti contrapposta a quella “ontologica” della sostanza. La Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, ha definito dogmaticamente che i sacramenti operano ex opere operato, non perché la fede sia un accidente, ma perché l’azione salvifica di Cristo non dipende dall’arbitrio o dall’intensità soggettiva della fede del ministro o del fedele. Questo garantisce la certezza della grazia, fondamento stesso della vita sacramentale cattolica contro derive protestanti.
Parimenti, la presenza reale non è “un polo” da bilanciare con segno e figura: è un dogma definito, che il Concilio di Trento, in continuità con Agostino, Tommaso e la fede di sempre, ha inteso custodire contro chi riduceva l’Eucaristia a simbolo. La liturgia, il rito, i segni hanno la loro importanza, ma non costituiscono la “realtà” della presenza di Cristo: sono il suo involucro visibile. La sostanza non è una categoria filosofica arbitraria, è la realtà ontologica di Cristo stesso presente con il suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Separare la dottrina della transustanziazione da questa ontologia per ricondurla a “relazione” e “simbolo” apre la strada alle confusioni che il Concilio voleva evitare.
La Sua tesi, secondo cui i secoli post-tridentini avrebbero deformato i canoni creando una polarizzazione inesistente, rischia di leggere con occhiali moderni testi che invece hanno protetto la fede cattolica in modo preciso. Non è la Tradizione ad avere introdotto una “scissione” tra sostanza e segno, tra grazia e culto, ma sono certe teologie contemporanee a voler ridurre la realtà sacramentale a fenomeno antropologico o linguistico. La Tradizione, da Trento al Catechismo di san Pio X, fino a San Giovanni Paolo II, insegna che la liturgia è santa non per la nostra esperienza soggettiva, ma perché è l’azione stessa di Cristo Capo e della sua Chiesa.
Depolarizzare non significa annacquare la verità dogmatica né porre in discussione ciò che la Chiesa ha definito infallibilmente. Gli “occhiali nuovi” di cui oggi c’è bisogno non sono quelli che reinterpretano il dogma alla luce di categorie moderne, ma quelli che ci permettono di riscoprire con gratitudine la chiarezza e la forza di ciò che la Chiesa ha sempre creduto, insegnato e celebrato.
Con rispetto.
Caro Marco,
la questione è più complessa di come tu la poni. Nel senso per cui la modernità è anzitutto quella ecclesiale. C’è una Chiesa moderna che ha polarizzato ciò che la tradizione offriva in modo meno drastico. Non c’è solo la riduzione antropologica, c’è anche una riduzione teologica che irrigidisce le categorie tradizionali. Per questo non si tratta di annacquare, ma di capire nella sua verità. Gli occhiali nuovi sono precisamente al servizio della tradizione, non sono una “nostra deviazione”, ma la correzione di deviazioni che la tradizione aveva, lentamente, introdotto. Per questo si parla di una tradizione malata, che chiede una tradizione sana. Su questo verte il mio discorso, non sull’annacquamento delle cose, ma sulla reale comprensione delle formule classiche.
Aggiungo che anche questo è un modo di essere figlio fedele: esaminare bene la eredità ricevuta e discernere che cosa conservare e che cosa non ha più autorità. Così ha fatto a suo tempo il Concilio di Trento, così il Vaticano II e così facciamo anche noi. Da figli fedeli.