La benedizione e l’autorità. A Palermo papa Francesco delude i piccolo-borghesi


Francesco

La visita a Palermo e Piazza Armerina di papa Francesco ha suscitato qualche apprensione a causa di una “benedizione libera” che il papa ha riservato ai giovani, alla fine dell’incontro con loro. Li ha salutati improvvisando parole di benedizione, con autorità.

Come già era accaduto in altri casi – per la lavanda dei piedi in carcere o per gli incontri ecumenici – il “tradizionalista” (o almeno quello che crede di essere tale) lamenta la libertà del papa rispetto alla rubrica. E facilmente cade nella trappola di pensare che il papa sia troppo incline ad “abusi” liturgici. Perché non “recitare la solenne benedizione papale” e ricorrere a parole improvvisate sul momento? Tanto più che il papa le ha giustificate con la “identità non solo cattolica” dell’uditorio? Un papa che così appare – a costoro – rinunciare alla identità cattolica per compiacere il mondo!

In realtà papa Francesco sa bene che cosa è la tradizione, diversamente dai suoi critici piccolo-borghesi, che pretendono di ridurre il papa ad un “controllore dell’ordine pubblico ecclesiale”. Per Francesco “confermare nella fede” non è anzitutto “ripetere un repertorio sacro”, ma “dar voce alla inquietudine di ogni cuore”. Questa è la più antica funzione del pastore, che noi rischiamo di confondere con un “controllore di abusi”. Questa deformazione ci viene dagli ultimi secoli, che, per contrapposizione, rischiano di interpretare il papa con un “modello napoleonico”. Il “capo” deve dare il buon esempio: e il buon esempio è, per i piccolo-borghesi, non permettersi alcuna libertà.

Ma Francesco sa che il papa, come ogni vescovo e ogni padre, deve essere capace di “benedire” liberamente. Proprio la benedizione, che è il livello più elementare di relazione con Dio, quello che “non chiede niente a nessuno”, deve restare un linguaggio libero e sciolto. Posso benedire una barca, posso benedire una stalla, posso benedire uomini e donne, giovani e anziani, santi e peccatori. Senza chiedere niente. Non ci vogliono certificati, carte di identità, registri firmati, stati di grazia: nulla. La benedizione è “parola prima e ultima”, senza condizioni. Trattare la benedizione come se fosse una “messa” – ossia trattare il gesto più esterno come se fosse l’atto più intimo – significa aver perso la libertà interiore con cui la Chiesa sa di avere un centro e una periferia, un linguaggio da iniziati e uno da appassionati e tanti registri diversi, con regole diverse e interlocutori diversi.

Chi critica Francesco, perché si permette di “inventare una benedizione”, è talmente sordo e cieco rispetto alla tradizione, da pensare che “benedire” equivalga a leggere su un testo una formula di benedizione. Abbiamo un repertorio alto e solenne e guai se non ne attingiamo riccamente. Ma esso resta grande solo se ci dà la ispirazione per “benedire” in ogni lingua e in ogni registro. Francesco lo ha fatto tante volte. Già la sera della elezione ha improvvisato con autorità. Ma come dimenticare quando, seduto di fronte a Shimon Peres, in Israele, ha improvvisato un “nuova beatitudine” per rendere grazie della accoglienza ricevuta?

Questa libertà di Francesco è vera autorità. La avevamo dimenticata, preoccupati da una urgenza di “controllo”. Essa è fedele alla antica coscienza ecclesiale, che sa, ormai da molti decenni, che “celebrare” non è anzitutto “ripetere un repertorio e osservare norme”. Lo dice con chiarezza anche “Sacramentum Caritatis” (ai nn. 38 e 40), la Esortazione apostolica sulla eucaristia, che sa come “ars celebrandi”, l’arte del celebrare, debba passare dalla scrupolosa osservanza di tutte le rubriche (tipica del ritus servandus) alla attivazione di tutti i linguaggi che caratterizzano la actuosa participatio. Francesco, con il gesto benedicente che ha chiuso l’incontro con i giovani, ha indicato una importante via di attuazione della Riforma liturgica.

Bisogna rassegnarsi: Francesco non è un papa piccolo-borghese. Non deve quindi stupire che scandalizzi i commentatori che vorrebbero come papa lo stereotipo prevedibile di pontefice rassicurante per borghesi piccoli piccoli. Che non vogliono essere “confermati nella fede”, ma solo rassicurati “in ciò che loro pensano si debba credere”. E su  questo Francesco non li rassicura affatto.

 

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