in dialogo con Matias Augé



Disorientati dall’orientamento.
Su alcuni aspetti paradossali del dibattito recente

Nel suo blog (http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/) Matias Augé è intervenuto oggi con un breve scritto sul tema “L’orientamento nella celebrazione eucaristica” nel quale si trovano alcune importanti affermazioni, che meritano di essere adeguatamente valorizzate.
E’ giusto dire, in premessa, che intorno alla questione dell’orientamento della preghiera liturgica si è condotta una battaglia ideologica non pienamente giustificata. Ed è vero, pure, che l’orientamento all’abside o quello “versus popolum” della celebrazione rappresentano due grandi tradizioni, che hanno entrambe le loro ragioni e che non possono essere oggetto, semplicemente, di una reciproca scomunica o denigrazione. Ma quando, a partire dalla naturale dialettica tra due letture diverse della posizione del popolo e di chi presiede rispetto all’altare, si tenta di descrivere una posizione (quella dei “circumstantes”) in modo riduttivo, unilaterale e ingiusto, mentre si propone una soluzione (mediante l’orientamento alla croce) che scavalca la tradizione, imponendo come soluzione un criterio estrinseco, allora si finisce per avvalorare un effetto “disorientante” della discussione sull’orientamento.
In effetti, non si fa un grande servizio alla ricostruzione storica della vicenda quando si riduce il mutamento di orientamento, introdotto autorevolmente dalla Riforma liturgica, all’idea che “sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente”, visto che il nuovo modello di orientamento si interpreta come preghiera dei battezzati “circumstantes”, che non stanno “faccia a faccia”, ma “tutti intorno” al Signore, altare e vittima. Entrambi i modelli classici, dunque, si “rivolgono” al Signore: uno propone l’orientamento al Signore che ritorna, l’altro al “corpo sacramentale del Signore”. In tal modo entrambi propongono – suo modo – una continuità. Mentre l’unica discontinuità certa, almeno sul piano liturgico, è la soluzione che viene proposta di orientare lo sguardo alla croce.
Per questo mi chiedo perché mai l’unica discontinuità dovrebbe assicurare la continuità, mentre uno degli stili classici della celebrazione deve essere descritto in modo così riduttivo e sgarbato? E’ curioso che ci si permetta di definire il “versus populum” come un “banale guardarsi in faccia”, mentre il “versus orientem” indicherebbe “un popolo in cammino verso il suo Signore”. La contromossa, non meno infelice, sta nel definire il “versus populum” come “radunati intorno al Signore”, mentre il “versus orientem” è “dare le spalle al popolo”. La prima cosa da imparare dovrebbe essere quella di rispettare i diversi livelli di possibile descrizione delle azioni che la tradizione ci consegna. E tuttavia ha ragione Augé nel segnalare che il “versus orientem” è oggetto di lettura teologica molto recente, mentre è certo che si è sviluppato parallelamente ad una forte clericalizzazione del culto e della Chiesa, che oggi non dovremmo considerare se non come un incubo da scacciare.
D’altra parte, Augé ricorda che sul tema dell’orientamento non si trovano se non affermazioni indirette della tradizione. Questo fatto è da un lato sorprendente, ma dall’altro contribuisce a ridimensionare e a relativizzare la nostra prospettiva. Vorrei arrivare a dire che il semplice porre la questione dell’”orientamento” in quanto tale segnala un deficit, una mancanza, una lacuna. In effetti nella celebrazione dell’eucaristia – e più in generale in ogni atto di culto – il centro della attenzione non può essere la risposta alla domanda “da che parte debbo guardare?”, ma piuttosto “dove accade l’azione? come partecipo a tale azione?”. Poiché, come spesso si ripete a ragione, la teologia non sta tanto nel saper dare buone risposte, quanto nel saper fare buone domande, qui vorrei sostenere che quella circa l’orientamento è una domanda mal posta, che rischia di contraddire la grande aspirazione con cui il Movimento Liturgico ha risvegliato l’attenzione della Chiesa alla centralità di quella “actio sacra” che non richiede un orientamento astratto, ma una partecipazione concreta. Potremmo dire così: alla domanda (minore) circa l’orientamento si può rispondere solo dopo aver affrontato la domanda (maggiore) circa la partecipazione. E se l’orientamento, reso autonomo, dovesse contraddire la partecipazione, non sarebbe un segno di devozione, ma di disorientamento. E, parafrasando quanto diceva Simone Weil degli “sradicati” che “sradicano”, così dovremmo dire anche noi del disorientamento: che avrebbe un effetto gravemente disorientante per tutta la compagine ecclesiale.

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