Il sogno della foresta amazzonica e l’insonnia della foresta curiale. Papa Francesco tra profezia e vigilanza in “Querida Amazonia”


 

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Il testo della Esortazione Apostolica “Querida Amazonia” (= QA), pubblicato oggi 12 febbraio 2020, si caratterizza per un primo tratto originale. Ossia la sua “posizione” rispetto al testo conclusivo del Sinodo straordinario, ossia Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale (= ANC). In effetti, la scelta di promuovere direttamente il testo conclusivo del Sinodo, nella sua articolazione, come “documento di riferimento” – così come si afferma esplicitamente ai nn. 2-3 di QA – crea una sorta di rimando esplicito – quasi un combinato disposto – della Esortazione rispetto al Sinodo nella sua integralità. Addirittura, la scelta forte di non citare mai il testo conclusivo, ma di assumerlo come autorevole nella sua interezza, viene così espressa: “non intendo né sostituirlo, né ripeterlo” (QA 2).

Mi pare che questa premessa sia decisiva per leggere correttamente il testo e come tale lo qualifica decisamente, in analogia con quanto Francesco ha fatto in Amoris Laetitia. In modo ancora più esplicito di quanto avvenuto 4 anni fa, in questo caso una “riserva di autorità” è lasciata al testo sinodale. Francesco, di suo, traduce i nodi di quel testo in 4 sogni: un sogno sociale, un sogno culturale, un sogno ecologico e un sogno ecclesiale. La Amazzonia ci fa sognare. E fa sognare anche Roma. Ma Roma soffre anche di insonnia. E anche il papa che “dorme bene”, e che sa riconfigurare il sogno ecclesiale in modo tanto efficace, talvolta può trovarsi a soffrire di insonnia, quasi a rimanere con gli occhi sbarrati. Proviamo a vedere come e perché.

Il grande sogno possibile

Un grande sogno che è destinato a realizzarsi. Questa mi pare la bella notizia che QA ci presenta con la forza di una prosa spesso alta, ispirata, forte. Non vorrei che si sottovalutasse la chiave “onirica” con cui il testo è stato scritto. Non è solo retorica. O, meglio, è alta retorica magisteriale. Fare della “tradizione ecclesiale” un luogo di elaborazione di sogni, ossia di rappresentazione dei desideri dell’uomo e delle donne e dei disegni misteriosi del Dio di Gesù Cristo, questo mi pare un bell’esercizio del magistero, di cui la Chiesa ha urgente bisogno. Così, la rilettura di ANC che Francesco propone in QA si struttura come “articolazione di 4 sogni”. Tali sogni investono quattro livelli della vita dell’Amazzonia, di cui la Chiesa può e deve prendersi cura. Tale prospettiva viene formulata, con stile potente, in QA 6-7:

“La predicazione deve incarnarsi, la spiritualità deve incarnarsi, le strutture della Chiesa devono incarnarsi. Per questo mi permetto umilmente, in questa breve Esortazione, di formulare quattro grandi sogni che l’Amazzonia mi ispira.

7. Sogno un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa.

Sogno un’Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana.

Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste.

Sogno comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici”.

Ognuno di questi “sogni” struttura un capitolo del testo, di cui schizzo in breve il contenuto:

a) Un sogno sociale (8-27)

La promozione della giustizia sociale di una “vita buona” in Amazzonia è compito primario, in cui “cura del creato” e “attenzione agli ultimi” si intrecciano profondamente. Una Chiesa capace di indignarsi e di far sentire coralmente la propria voce profetica assume uno stile di ascolto e di dialogo, in cui gli ultimi possano diventare protagonisti e la vita buona sia davvero accessibile a tutti.

b) Un sogno culturale (28-40)

La Amazzonia è un “tesoro di culture” che devono essere valorizzate. Questa parte del testo è intrecciata di poesie. Leggiamone una, al n. 31

«Del fiume fa’ il tuo sangue […].

Poi piantati,

germoglia e cresci

che la tua radice

si aggrappi alla terra

perpetuamente

e alla fine

sii canoa,

scialuppa, zattera,

suolo, giara,

stalla e uomo».

 

La custodia delle radici, l’incontro interculturale, la cura per il dialogo e per le identità diventa uno stile di relazione nel quale la Chiesa può scoprire e rileggere ancor meglio il mistero che la costituisce. Questo impone di assumere la prospettiva “dei diritti dei popoli e delle culture”, in rapporto delicatissimo con le condizioni dell’ambiente in cui tali culture si sono sviluppate e possono essere salvaguardate.

c) Un sogno ecologico (41-60)

Anche il registro del “sogno ecologico” è profezia e poesia. Ecco uno dei testi proposto al n.47

 

«Quelli che credevano che il fiume fosse una corda per giocare si sbagliavano.

Il fiume è una vena sottile sulla faccia della terra. […]

Il fiume è una fune a cui si aggrappano animali e alberi.

Se tirano troppo forte, il fiume potrebbe esplodere.

Potrebbe esplodere e lavarci la faccia con l’acqua e con il sangue»

L’approccio alla “custodia della casa comune” si nutre di una tradizione spirituale e relazionale che deve recuperare uno sguardo contemplativo e estatico nei confronti della natura e del creato. Fa proprio il grido dei popoli per il degrado dell’ambiente e lo rilancia profeticamente, impegnando in esso la Chiesa tutta.

d) Un sogno ecclesiale (61-110)

L’ultimo livello del sogno è quello più direttamente destinato alle comunità cristiane. Ed è anche il più complesso. E’ un sogno che, potremmo dire, in parte scaturisce “da un sonno agitato”. In effetti questo quarto sogno si divide in due parti. La prima (61-84) è dedicata al tema della inculturazione, mentre la seconda (85-110) si occupa di ministerialità, di eucaristia, di ecumenismo. Nella prima si riesce ancora a sognare in senso proprio. Nella seconda la veglia talora si impone inesorabilmente, e rende difficile il sogno. Nella prima parte, in effetti, sul tema della inculturazione, leggiamo parole forti, profetiche, di grande coraggio. Il lavoro di inculturazione può così riconoscere che “È possibile recepire in qualche modo un simbolo indigeno senza necessariamente qualificarlo come idolatrico. Un mito carico di senso spirituale può essere valorizzato e non sempre considerato un errore pagano” (QA 79). E ancora: “Questo ci consente di raccogliere nella liturgia molti elementi propri dell’esperienza degli indigeni nel loro intimo contatto con la natura e stimolare espressioni native in canti, danze, riti, gesti e simboli. Già il Concilio Vaticano II aveva richiesto questo sforzo di inculturazione della liturgia nei popoli indigeni,[119] ma sono trascorsi più di cinquant’anni e abbiamo fatto pochi progressi in questa direzione” (QA 82). Questo slancio, profetico e poetico, arriva fino ad una soglia, che nel testo è il n. 85, con il quale inizia la sezione dal titolo “Inculturazione della ministerialità”. In quel punto troviamo l’ultimo lampo di quello slancio che ha attraversato i 3/4 del testo. Vi si legge:

L’inculturazione deve anche svilupparsi e riflettersi in un modo incarnato di attuare l’organizzazione ecclesiale e la ministerialità. Se si incultura la spiritualità, se si incultura la santità, se si incultura il Vangelo stesso, come fare a meno di pensare a una inculturazione del modo in cui si strutturano e si vivono i ministeri ecclesiali? La pastorale della Chiesa ha in Amazzonia una presenza precaria, dovuta in parte all’immensa estensione territoriale con molti luoghi di difficile accesso, alla grande diversità culturale, ai gravi problemi sociali, come pure alla scelta di alcuni popoli di isolarsi. Questo non può lasciarci indifferenti ed esige dalla Chiesa una risposta specifica e coraggiosa” (QA 85).

Ma qui “al pensier mancò la possa”: la poesia cede il posto alla mera descrizione normativa, e la profezia fa spazio ad una vigilanza preoccupata. Nel concreto il discorso sulle comunità “prive di eucaristia” non riesce a immaginare se non risposte mediate dal linguaggio elaborato nell’Europa del 500. Non si riesce a sognare. Il punto più lontano dal tono e dalla libertà del sogno è la mancanza di immaginazione con cui si parla della donna (99-105): come a dire: de mulieribus ne somnium quidem!

Il piccolo sogno impossibile

Il registro verbale, come ho cercato di far vedere, mostra la differenza tra il modo di riflettere sui primi tre “sogni” e il linguaggio più rigido che compare nel modo di pensare la struttura ministeriale e sacramentale della Chiesa. Nessuna poesia, poche immagini, poco slancio. Qui il testo mostra apertamente la fatica di concepire un sogno in questo ambito. Anzi, sembra quasi restare segnato da un tratto di insonnia, da una impossibilità di uscire dalle rappresentazioni più classiche e più abituali, che si impongono in una “veglia da cui non si può scappare”. Dov’è la inquietudine, dove la incompletezza, dove la immaginazione? Sembra di poter riconoscere, anche in Amazzonia, solo il prete in nigris, frutto del Seminario tridentino, destinato a “fare l’eucaristia” e ad “assolvere dal peccato”. Un “Curato d’Ars” col biglietto per Manaus. Mera fattualità del passato acquisito: un abitante della foresta curiale, un estraneo alla foresta amazzonica. Così, in questo passaggio finale del testo, la foresta curiale sembra prevalere sulla foresta amazzonica, che appare ridotta a variabile secondaria, quasi irrilevante.

Ma qui, io credo, vi sono ragioni più profonde. Perché è la mancanza di desiderio che non fa sognare. E il desiderio non si può creare “ex officio”. Quando manca il desiderio, allora diventa facile leggere tutte le novità solo “in negativo”. Senza desiderio di altro, ci si tiene quel che c’è. Se le comunità desiderano l’eucaristia non è perché neghino di dover essere presiedute, ma perché pensano che la presidenza possa essere concepita e sognata con schemi diversi dal Concilio Lateranense IV o dal Concilio di Trento. Se le donne vogliono accedere al ministero ordinato, non è per seguire le mode, o per inseguire il potere, ma perché sognano che venga riconosciuta obiettivamente quella bella autorità che già hanno ampiamente dimostrata. Senza che per questo si possa pensare che “accedere all’ordine sacro” sia sinonimo – chissà perché solo per loro – di “cedimento al clericalismo”. Quando un uso nuovo del sacramento viene subito identificato con l’abuso è perché il desiderio non è coltivato, il sogno è diventato impossibile e lo Spirito non riesce più a prendere la parola.

In una foresta, quella della Amazzonia, è consentito sognare. In un’altra foresta, la Curia romana, sembra essere vietato. Un uomo che ha l’arte del sonno, come Francesco, può sognare anche a Roma. Ma qualche volta il suo sonno è turbato. La onestà del pastore e dell’uomo sa bene questa cosa e la dice così: “Voglio presentare ufficialmente quel Documento (ANC), che ci offre le conclusioni del Sinodo e a cui hanno collaborato tante persone che conoscono meglio di me e della Curia romana la problematica dell’Amazzonia, perché ci vivono, ci soffrono e la amano con passione. Ho preferito non citare tale Documento in questa Esortazione, perché invito a leggerlo integralmente” (QA 3).

Per sognare su questi temi istituzionali, sulla base di quanto esposto profeticamente e poeticamente nei primi 3 sogni e mezzo, occorre riferirsi necessariamente a quanti vivono, soffrono e amano con passione in Amazzonia. Loro sanno sognare anche su questi argomenti. Perché il loro desiderio è vivo, sa discernere la Parola e così sa alimentare il sogno. Con tutta la poesia e la profezia necessaria.

Brevi conclusioni

Tra le due foreste il cammino di Francesco è dunque decisamente orientato, ma cauto. Resta limpida, nel suo testo, la indicazione che il “sogno ecclesiale” ha bisogno di estendersi alla integralità della esperienza. La forza del desiderio, illuminato dalla Parola, si fa sogno e si esprime con una forza mai udita nei primi 85 numeri. Ma ad ogni generazione è dato di sognare, e di rielaborare, solo una parte di ciò che vive. Così il grande sogno della società, della cultura e della ecologia, quando varca la soglia istituzionale, rischia di spegnersi. E sembra sperimentare, al posto del sogno, una insonnia agitata e una incertezza preoccupata.

Forse ad un figlio del Concilio, e figlio di prima generazione, come è Francesco, non si può chiedere di più. Anche se parziale, il sogno profetico dei primi 3 capitoli e mezzo sa riscattare la insonnia vigilante che nelle ultime pagine affatica il testo. La sintesi sul “sogno sociale”, sul “sogno culturale”, sul “sogno ecologico”, ma anche quella sul “sogno ecclesiale di inculturazione”, rimane un testo prezioso, con molte aperture di grande valore, che potranno produrre frutti grandi e preziosi. La scarsa “capacità onirica” per ciò che riguarda la struttura ministeriale della istituzione è segno di una resistenza obiettiva, direi corporea prima che mentale. Il corpo non sogna perché manca del desiderio. Perciò il testo di QA sul prete e sulla donna sembra non avere un desiderio, che voglia esprimersi in un sogno, e sembra che Dio stesso, a questo riguardo, non abbia più niente da dire e non debba mandare sogni agli uomini. Ma il testo finale di ANC, che non è sostituito, ma valorizzato nella sua integralità da parte di QA, ci permette, o meglio ci impone, di sognare ancora, anche a proposito di questi temi. E non è affatto detto che i sogni, con la forza del desiderio da riaccendere e con il mistero della Parola di Dio da ascoltare e da discernere, non siano proprio ciò di cui abbiamo più bisogno, anche oggi, soprattutto oggi.

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