Il senso del futuro
In crisi globale, il neoliberismo torna all’austerità, ignaro che «malgrado la promessa di stabilizzare l’economia mondiale il progetto di austerità degli anni Venti fu sotto questo profilo un fallimento spettacolare: il calo della domanda aggregata – un effetto che i promotori dell’austerità volevano introdurre – è considerato da molti una causa della Grande Depressione iniziata nel 1929, che si risolse davvero soltanto con lo stimolo economico di un’altra guerra mondiale» [Clara E. Mattei, Operazione austerità, Einaudi 2022, p. 278]. Anche la pandemia Covid è un promemoria. «Darà un maggior contributo al benessere umano un investimento nella produzione di oggetti che per essere venduti debbono essere lanciati dalla pubblicità o un investimento nei servizi sanitari? – la risposta, mi pare, è fin troppo ovvia. La replica migliore che l’ideologia del laissez faire ci offre è di non porre la domanda» [Joan Robinson, Ideologie e scienza economica, tr.it. Sansoni 1966, p. 203]. Ma quella sull’Intelligenza Artificiale non si può eludere.
Professore di economia politica all’Università di Torino, Pietro Terna risponde che «l’occupazione scenderà, resterà costante o aumenterà, ma non moltissimo, come effetto delle spinte di automazione e IA, da un lato, e della produzione, dall’altro. Fondamentali l’effetto degli orari di lavoro e del decentramento anche con la grande novità del telelavoro nei settori più innovativi, ma anche amministrativi. Gli effetti sulla prosperità, termine desueto, ma evocativo, possono essere di massimo contrasto nel mondo. Il grande rischio è che crescano ancora le disuguaglianze, invece di diminuire, e che l’attenzione verso l’ambiente subisca tendenze molto contrastanti» [«Punture di spillo. Posti di lavoro: ne elimina più il profitto che l’IA», La Porta di Vetro, 25/01/2024, online].
Professore di economia degli intermediari finanziari, Università Cattolica di Milano, Paolo Gualtieri avverte che «le grandi imprese sono molto favorite rispetto alle piccole perché dispongono di una base dati e informazioni più ampia e hanno maggiori capacità d’investimento nelle nuove tecnologie», a spese di consumatori, piccole e medie imprese e lavoratori autonomi [«Intelligenza artificiale e gruppi sociali», Il Sole 24Ore, 25/02/24, p. 1]. Austerità e IA concentrano la ricchezza in poche mani con il risultato, come scrisse John Maynard Keynes nella Grande Crisi del 1929, che «il capitale dà un reddito non perché è produttivo, ma perché è scarso. Ancora peggio, la nozione che il risparmio è una delle cause della disoccupazione tagliò alla radice la giustificazione dell’inuguaglianza del reddito come fonte dell’accumulazione. Ciò che rendeva così difficile da accettare la Teoria Generale non era il suo contenuto intellettuale, che in un clima di serenità avrebbe potuto facilmente essere padroneggiato, bensì le sue implicazioni rivoluzionarie». «Col rendere impossibile il sussistere della fiducia in un’automatica riconciliazione di interessi in conflitto in un insieme armonioso, la Teoria Generale riportò in superficie il problema di scelta e di giudizio che i neoclassici avevano tentato di offuscare. L’ideologia che predicava la fine delle ideologie era finita. L’Economica tornò ad essere Economia Politica» [J. Robinson, cit., pp. 123-4]. Economia di scelta e di giudizio.
Di scelta e giudizio come la democrazia liberale in cui «il riconoscimento della sovranità del popolo va di pari passo con l’intangibilità di una serie di libertà individuali (pensiero, religione, stampa, impresa economica)» [Treccani, online]. Invece, «la scala “globale” in cui operano le scelte degli investitori, quando la si mette a confronto con i limiti rigidamente “locali” imposti alle scelte della ”offerta di lavoro”, determina l’asimmetria – che a sua volta mette in luce il dominio dei primi sulla seconda. Mobilità e assenza di mobilità sono i due poli contrapposti della società tardo-moderna o post-moderna. Il vertice della nuova gerarchia è in una condizione di extra-territorialità, i livelli inferiori sono in diverso grado vincolati allo spazio» [Zygmunt Baumann, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, tr.it. Laterza 1999, pp. 155-6]».
Alla scarsità di livelli inferiori rispetto alla ricchezza di risorse naturali da porre a profitto si può rimediare come la Russia di Putin, ma il risultato è ancora guerra. Altrove i conservatorismi nazionali provvedono «impadronendosi delle istituzioni, inclusi tribunali, università e stampa indipendente». «Una volta indebolite, potrebbe essere difficile ripristinarle. Così è in Polonia». «È la politica del risentimento: se la politica porta risultati negativi, i leader daranno la colpa a globalisti e immigrati e affermeranno che ciò dimostra solo quanto c’è di sbagliato nel mondo. Nonostante tutte le loro contraddizioni, i conservatorismi nazionali sono riusciti a unirsi nell’ostilità verso i nemici comuni, i migranti (specie musulmani), i globalisti e i loro presunti complici. A nove mesi dalle elezioni americane, Trump sta già indebolendo la NATO» [«The growing peril of national conservatism», The Economist, 17/02/24, online]. Ancora una volta, orizzonti di guerra. «Sono state proprio simili tentazioni a distruggere le democrazie in passato». «E potrebbero farlo nuovamente. Come si è mostrato sempre in queste pagine, quando dei leader forti giungono al potere, rimuovendo i vincoli costituzionali, sono in grado di compiere delle azioni che spesso possono rivelarsi disastrose» [Ian Kershaw, L’uomo forte. Personalità e potere nell’Europa contemporanea, tr.it. Laterza 2022, p. 465].
E la Cina? «“Vuol essere l’Amazon dei Paesi, riassume Damien Ma, cofondatore del gruppo di riflessione americano MarcoPolo, citato da Bloomberg. Come il distributore americano che vende di tutto, “la Cina vuol essere il paese che produce tutto”. Il riequilibrio dell’economia cinese verso un modello meno orientato a investimenti e esportazioni a profitto dei consumi interni è rimasto allo stato di bozza» [Stephane Lauer, «Chine: la grande fuite en avant», Le Monde, 23/01/2024, online].
Liberisti, autocrati, populisti concepiscono solo risultati a breve, non hanno il senso del futuro.
Il senso del futuro [tr.it. Edizioni di Comunità, 1981], di Jacob Bronowski, fu pubblicato nel 1977. «Credo che questi due atteggiamenti siano egualmente dannosi: la meraviglia quanto la paura. Hanno infatti questo in comune: vogliono entrambi convincere il profano della sua totale impotenza». «Oggi per la maggior parte della gente è evidentemente la paura che prevale. Hanno paura del futuro e, se chiedi perché, ti citano ovviamente la bomba atomica. Ma la bomba atomica è solo il capro espiatorio delle nostre paure. Non è che temiamo il futuro a causa di una bomba: temiamo il futuro perché non abbiamo fede nel futuro. Non crediamo più, come individui e come nazioni, nella nostra capacità di controllare il nostro futuro. E questa sfiducia non è scaturita all’improvviso dall’invenzione di un’arma. La bomba atomica ci ha soltanto duramente presentato, come questione di vita o di morte, ciò che andava da tempo formandosi: la nostra incapacità, il nostro rifiuto, di affrontare, come individui e come nazioni, il problema del ruolo della scienza nel nostro mondo» [p. 11].
Inclusa la scienza economica.
Nato in Polonia nel 1908 e morto in USA nel 1974, Bronowski studiò in Germania e a Cambridge dove fu professore di matematica nell’University College di Hull, poi direttore di unità inglesi di valutazione dei bombardamenti nella seconda guerra mondiale, quindi capo della sezione progetti Unesco e direttore dell’Istituto centrale delle ricerche dell’Ente britannico per il carbone, passando nel 1964 a dirigere il Council for Biology in Human Affairs dell’Istituto Salk di San Diego. Chierico Vagante nel Secolo Breve, Jacob Bronowski parla a noi qui e ora. «È sintomatico che incombano simultaneamente su di noi, per esempio, la minaccia della sovrappopolazione e quella della morte radioattiva». «Siamo minacciati dalla sovrappopolazione perché ci rifiutiamo di renderci conto onestamente – cioè attivamente – della necessità di controllare la riproduzione umana. E siamo minacciati dalle bombe atomiche perché ci rifiutiamo di renderci conto della necessità di una nuova epoca di fiducia reciproca tra le nazioni. Per qualche curiosa ragione riteniamo che esuli dalla moralità guardare la realtà in faccia; e riteniamo anche che sia possibile essere buoni senza essere saggi». «Due sono gli elementi costitutivi della moralità. Il primo il senso dell’importanza degli altri; il senso di solidarietà, di carità, di tenerezza; il senso dell’amore umano. L’altro è una chiara valutazione di ciò che è in gioco: una fredda consapevolezza, senza ombra di trucco, di ciò che accadrà con precisione a se stessi e agli altri, se ci si assumerà il ruolo dell’eroe o quello del codardo. È questa la moralità più alta: associare l’amore umano a una valutazione lucida, scientifica» [pp. 225-7, passim].
Nella Germania e Europa distrutte del 1948, ne era già convinto lo storico Ludwig Dehio, direttore dell’archivio di stato a Marburg: «Non un inceppamento della nostra fantasia, ma il suo allargamento dovrebbe fruttarci lo sguardo comparativo rivolto al passato; un affinamento del senso della nostra inderogabile responsabilità personale, non un ottundimento causato dal fantasma d’un determinismo regolato da leggi che ci esonererebbe dalla responsabilità» [Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, tr.it. Il Mulino, 1988, pp. 248-9].
Nel 1979 John Hicks, professore di economia a Oxford, constatò che, «quando l’economia si spinge al di là della ‘statica’, essa diviene meno scienza e più storia» [Causality in economics, 1979, tr.it. Analisi causale e teoria economica, il Mulino 1981, p. 13]. Economia politica. Nel 1982 Karl Dietrich Bracher, professore di storia a Bonn, tracciò un bilancio: «La svolta dell’Europa, una comprensione più reale della libertà politica, della dignità umana e dei valori morali della democrazia erano tutti aspetti positivi della catastrofe, che anche al di là delle differenze nazionali permettevano una sorta di consenso di fondo del mondo libero, nel quale in maniera sorprendentemente rapida furono pienamente inseriti i vinti, i tedeschi e i giapponesi – e anche questo era un aspetto completamente diverso rispetto a quanto era accaduto nel primo dopoguerra». «Mai nella storia erano emersi in maniera così impressionante i rapporti reciproci tra pensiero economico-sociale e pensiero politico» [Il Novecento. Secolo delle ideologie, tr.it. Laterza 2023, p. 268, ed.or. 1982].
A fine secolo Bracher scrive «Epilogo 1999. Il secolo delle ideologie: fine o permanenza?». «La speranza che ci viene dalla nostra esperienza del secolo che volge al termine è quindi soprattutto una speranza critica nei confronti della ideologia. Nel momento in cui nessuno crede più alla pretesa totalitaria di possedere la verità, funzionano sempre meno anche gli strumenti di coercizione». Ma «l’esperienza unita alla speranza che con il riflusso della fede ideologica monolitica e con la nascita di un sistema pluripartitico siamo giunti alla fine del dominio totalitario ideologicamente legittimato, ci porta naturalmente anche a chiederci, alla fine: sì, ma per quanto tempo?» «Con quali prospettive di prevenire una ricaduta, di imparare dalla storia, dopo tanti fallimenti dovuti alla sistematica falsificazione dei fatti, a false interpretazioni e false illazioni? Per dirla con la celebre frase di Jacob Burkhardt: “l’esperienza deve farci non tanto avveduti (per la prossima volta) quanto saggi (per sempre)» [cit., p. 402-3]. Voluta da politici avveduti, l’UE avrebbe ora bisogno di cittadini saggi.
Saggi magari no, ma come i tifosi del Napoli, dopo «anni passati a tifare, a gridare, a cercare quel mare che non si vedeva mai, adesso il mare, quasi all’intrasatta, sta qua, davanti a noi. E davanti a questo mare non sappiamo che dire» [Andrej Longo, La forma dei sogni, Sellerio 2023, p. 295]. L’UE sta qua e davanti a questa UE parla lo scrittore austriaco Robert Manasse: «Non possiamo certo cambiare il passato, ma possiamo ancora costruire l’avvenire. Dobbiamo realizzare l’ambizione che abbiamo ereditato: il superamento del nazionalismo; e per darci un futuro abbiamo bisogno di ciò di cui dobbiamo finalmente discutere: una democrazia europea postnazionale» [Robert Manasse, «Il est grand temps de discuter de la démocratie européenne», Le Monde, 4-5/2/24, online].
I populisti vogliono eliminare, anziché rafforzare, le fondamenta politiche e giuridiche di libertà, di uguaglianza e di democrazia, architravi dell’UE [Radio3 Mondo, Transazioni pericolose, 19/02/23, online]. Invece, tutta la storia europea del secolo scorso ci dice che «le scelte politiche ben ponderate e accuratamente elaborate hanno maggiori probabilità di successo rispetto alle decisioni dittatoriali. Meno vincoli incontra il leader, più è probabile che vengano prese delle decisioni avventate e persino catastrofiche» [Kershaw, cit., p. 466]. Per averne conferma, basta guardarci intorno.
A decidere saremo noi elettori europei il prossimo giugno nel rinnovo di Parlamento, Commissione e degli altri organi politici UE. L’albero ha la forza delle sue radici. Guardando al futuro prossimo, lo ha ricordato il convegno della Banca Popolare di Sondrio su “Linee guida per un nuovo progresso”, il 23 febbraio 2024. «Sarà necessario saper guardare e utilizzare tutte le fonti finanziarie disponibili, dalla grande Banca europea per gli investimenti alla rete delle Banche di Credito Cooperativo soprattutto per le imprese minori, al capitale di rischio nelle sue varie forme e configurazioni». Economia politica, di scelta e giudizio, fondamentale come la democrazia che sola la rende possibile, non a caso nell’Europa madre delle rivoluzioni: scientifica, industriale e tecnologica, politica ed ora globale, anche per ragioni ambientali sulla terra che ci ospita.