Il potere, l’autorità e la liturgia. Contributo al dibattito Nardello/Neri
Molto interessante appare la discussione tra M. Nardello e M. Neri (cfr. qui) sulla relazione tra autorità, potere e ministero ordinato. Una luce particolare sul tema può venire dalla considerazione della liturgia, che, essendo “culmen et fons” di tutta la azione della Chiesa, è in grado di offrire elementi importanti di valutazione. Provo qui a delineare un campo di riflessione.
L’epoca “tardo-moderna” definisce la questione del potere in modo nuovo. Nello stesso momento in cui questo fenomeno si realizza, dopo le grandi rivoluzioni scientifiche, industriali e politiche, vediamo sorgere anche il Movimento Liturgico. Potremmo dire che la liturgia, in senso tardo moderno, nasce da un nuovo sguardo sulla relazione tra rito, fede e potere. C’è un cambiamento nel modo di intendere il potere in parallelo al cambiamento nel modo di intendere il rito. Potere e rito sono due termini che negli ultimi 200 anni hanno cambiato significato. Anche nel linguaggio teologico.
Studiando la relazione tra liturgia e potere, possiamo scoprire che la teologia cattolica, se rilegge con serenità la propria tradizione, può uscire da quegli irrigidimenti che non derivano dalla tradizione liturgica e sacramentale, ma dalla invadenza di modelli apologetici giuridici e amministrativi (in particolare dopo i due CJC) che hanno provato a rimodellare la esperienza rituale con un modello univoco di “potere”: allo stesso modo con cui abbiamo pensato il “papa” come il punto in cui viene assorbito l’intero potere ecclesiale, così abbiamo pensato, con lo stesso modello di potere, l’azione rituale, la celebrazione e ogni singolo sacramento. Anche quelli che più strutturalmente chiedono una “distinzione dei poteri” sono stati pensati con un modello di “potere unico”. Il modello della “societas inaequalis” diventa una ossessione dai primi anni del XX secolo.
Una teologia della liturgia e dei sacramenti, che miri a ricostruire in pienezza la esperienza di “potere del rito” e di “potere sul rito”, può ritrovare una via per restituire alla azione rituale quella forza di “sorgente” che chiede, allo stesso tempo, di riconoscere il suo potere su di noi, ma anche il nostro potere su di lei. C’è una “fragilità” e insieme una “vivacità” nella azione rituale. E’ fragile perché sta pur sempre in nostro potere e chiede “manualità fine”, ma è vivace, perché è una sorgente inesauribile di relazione con il mistero del corpo di Cristo compiuto nel Signore e da compiersi nella Chiesa: dice e fa cose nuove.
Perciò, programmaticamente, vorrei mettere in fila 7 proposizioni con cui pensare potere e autorità in rapporto alla azione rituale:
1. La relazione tra liturgia e potere si può comprendere sulla base del mutamento di significato di entrambe le parole (“liturgia” e “potere”), nel corso del mondo tardo moderno. Una rilettura (non solo politica) del potere e una rilettura (non solo religiosa) del rito aiutano a comprendere meglio la loro relazione complessa. Auctoritas, potestas e officium non sono sovrapponibili.
2. La lettura della liturgia come potere non è soltanto una deriva laicista e pericolosa, ma anche una deriva prodotta dal pensiero teologico e dalla istituzione ecclesiale. La storia moderna e tardo moderna (molto meno quella antica e medievale) tendono a risolvere il sacramento e la liturgia sul piano del potere, letto in modo sempre più semplificato e astratto.
3. In particolare la contrapposizione del “potere sacro” (in campo teologico) alla “divisione dei poteri” (in campo politico-liberale) ha rischiato, e continua a rischiare, di perdere quella “distinzione dei poteri” che è patrimonio cristiano e cattolico irrinunciabile. La tradizione ecclesiale premoderna ha coltivato un tesoro di distinzioni che nell’epoca moderna si sono offuscate, sotto la pressione dei grandi cambiamenti culturali, sociali e politici. Non solo per colpa altrui!
4. Il rito, se pensato come sacramento, (come potere del rito o effetto di grazia e forma rituale) non vive solo del potere di Dio in Cristo e nel suo ministro, ma del potere della libertà del cristiano che entra nelle logiche di iniziazione, guarigione e servizio. Non c’è solo grazia operante, ma anche grazia cooperante. La salvaguardia della tradizione, anche sul potere, non deve accettare la “polarizzazione”, ma deve essere capace di “depolarizzare”. Una liturgia che “depolarizza” aiuta a raccordare potere del rito e potere sul rito. Senza mitizzare il primo e senza vergognarsi del secondo.
5. Il rito, se pensato come culto-liturgia, (come potere sul rito o causa di grazia e partecipazione attiva) non dipende solo dal “celebrante”, ma da un atto presieduto da uno solo, compiuto da altri ministri e celebrato da tutti i battezzati. Il “potere sul rito” non è solo una questione di Dicasteri: questa riduzione amministrativistica è una delle difficoltà epistemologiche (perché fondate su una cattiva teologia sistematica) con cui dobbiamo lottare oggi, per accedere alla esperienza plenaria.
6. Occorre riconoscere come necessaria non solo una sacramentaria e una liturgia che si alimenti della storia. Occorre una sacramentaria e una liturgia che assumano il compito sistematico. Soltanto così un pensiero sul rapporto costitutivo tra autorità e liturgia non cadrà nella trappola, oggi particolamente pericolosa, di ridursi a “teologia di autorità”. Una teologia sulla autorità (di questo si tratta) deve smontare le forme classiche della “distinzione del potere” e rimontarle in modo significativo in un mondo che pensa solo in termini di “divisione dei poteri” versus “potere assoluto”. Nella Chiesa il potere non può essere diviso, certo, perché non sta nel popolo, ma nel suo Signore, ma deve essere distinto, perché è complesso e deve sempre comprendere anche il popolo.
7. Un esempio finale: la chiesa sinodale che cosa è? Spesso abbiamo sentito: il sinodo non è un parlamento. Ma, come un parlamento, è un luogo in cui si parla con parresia. Dietro vi è la questione: ma il potere è diviso o unico? Dovremmo rispondere: il potere è distinto, perché ci sia ancora autorità. Il primo luogo da cui imparare questo dovrebbe essere proprio la liturgia. Dove il Signore è unico e in questo non c’è eguaglianza, ma tutti sono fratelli e per questo non c’è nessun suddito. Uno solo, invisibile, ha l’autorità, alcuni hanno potestà tradotte in uffici, ma tutti partecipano dei tria munera Christi. La forma istituzionale del sinodo è una delle tradizionali forme di “distinzione dei poteri” che noi pensiamo con categorie inadeguate: o come paternalismo assolutistico addolcito o come divisione di poteri in conflitto. Quale forma oggi possa assumere una tale esperienza istituzionale di “distinzione di poteri” dipende molto da come pensiamo e viviamo “autorevolmente” le nostre celebrazioni, su cui “non abbiamo potere” e “abbiamo potere”. Ognuna di queste posizioni, se assolutizzate, perde il fenomeno che chiamiamo “azione liturgica” come continuazione dell’opera della redenzione: in questa azione non solo Dio è soggetto e gli uomini oggetto, non anche gli uomini sono soggetti e Dio oggetto. Corpo di Cristo è, in effetti, tanto l’uno quanto gli altri, tanto corpo vero quanto corpo mistico.
La comprensione teologica dell’azione rituale diventa perciò un campo di esperienza e di espressione di una teoria del potere: essa può così liberarsi da quelle rappresentazioni moderne e tardo moderne che la cultura e la teologia hanno saputo darne, senza dover essere più costretta a restare 200 anni indietro per non tradire la propria identità.