Gli equivoci del tradizionalismo liturgico e la lezione del Vaticano II
La ripetizione di formule ad effetto, come “usus antiquior” o “forma straordinaria”, per nominare il “rito tridentino”, caratterizza la comunicazione con cui, diversi gruppi che pretendono di essere cattolici senza accettare la riforma liturgica, chiedono con insistenza una “maggiore tolleranza” verso la possibilità di celebrare il mistero liturgico con quell’ordo che il Concilio Vaticano II ha esplicitamente chiesto di riformare. La terminologia sia dell’”usus antiquior”, sia della “forma extraordinaria”, con la sua ampollosa autoreferenzialità, sottovaluta intenzionalmente e avventatamente una questione istituzionale ed ecclesiale che in nessun modo può essere aggirata.
La riscoperta del “mistero liturgico”, infatti, conosce l’apice della sua crisi proprio agli inizio 2000, al punto di massima contestazione istituzionale della prospettiva conciliare sul “mistero liturgico” che viene dal testo del MP Summorum Pontificum (=SP). Pur essendo un testo che può essere inteso con una portata settoriale (come essenzialmente indirizzato da un lato alle comunità dello scisma lefebriano, dall’altro alle comunità in comunione con il cattolicesimo romano, ma desiderose di celebrare con il Vetus Ordo), esso assume un valore esemplare per la mens con cui parla della riforma liturgica. Del tutto chiaro appare il n. 2 del testo, dove si configura, in modo davvero caricaturale, un profilo del “celebrante” la liturgia gravemente paradossale, se collocato a meno di 40 anni dalla riforma liturgica successiva al Vaticano II. Ecco il testo:
Art. 2. Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l’uno o l’altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario.
Nonostante tutte le assicurazioni del documento, e nonostante la lettera di accompagnamento ai Vescovi, che papa Benedetto XVI si preoccupò di pubblicare contestualmente al MP, è evidente dalla lettura di questo testo che l’effetto principale del provvedimento era il ridimensionamento strutturale e istituzionale della riforma liturgica. La delineazione ecclesiale proposta in questo art. 2 prevede come normale:
– una messa “senza il popolo”;
– la libertà assoluta del presbitero o del vescovo di celebrare con il VO o con il NO;
– la irrilevanza, in tutto questo, della competenza episcopale locale.
Da un lato si disegna un profilo di “libertà postmoderna” in materia liturgica, una sorta di irresponsabilità del presbitero-vescovo di fronte alla chiesa; dall’altro, conseguentemente, ne emerge la irrilevanza della riforma liturgica, che non ha alcun titolo per prevalere sul rito che ha dovuto essere riformato sulla base del giudizio di una assise conciliare. Allo stesso tempo, una libertà postmoderna e una autocoscienza ecclesiale premoderna si compongono nello stesso testo.
Di fronte al testo era chiaro fin dall’inizio che, pur nascendo da un desiderio di riconciliare il corpo ferito di una chiesa lacerata proprio sul piano liturgico da scontri e dissensi, la cura si rivelava peggiore del male: così G. Zizola lo definì un atto di “anarchia dall’alto”, mentre il Card. Ruini sottolineò, già il giorno dopo la sua approvazione, la esigenza di evitare il rischio “che un motu proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla”. Proprio questo è stato l’esito più diffuso e più preoccupante, determinato precisamente dalla mancanza di chiarezza sistematica che aveva ispirato il provvedimento.
Al suo centro, infatti, la decisione di proporre questo inaudito parallelismo tra due forme dello stesso rito romano (la “forma ordinaria” del NO, e la “forma straordinaria” del VO) si basava su un argomento che non è di carattere teologico, ma di carattere affettivo, sentimentale, nostalgico. Dice infatti il testo della lettera di accompagnamento al MP:
«Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso».
Questa argomentazione crea una finzione: legge la evoluzione storica in forma contemporanea e perde le ragioni della riforma liturgica. Chiama così “forma straordinaria” la forma superata del rito romano. Può farlo, o, meglio, si autorizza a farlo, fondandosi su questo presunto principio di “sacralità transgenerazionale” che non ricava in nessun modo né dalla storia della Chiesa (perché non ha precedenti) né dalle evidenze dogmatiche o sistematiche. Questa argomentazione, che non è esagerato definire “sofistica”, non solo non ha fondamento teologico, ma crea illusioni sul piano pastorale: essa infatti ipotizza che, istituendo come vigenti in forma parallela forme diverse del rito romano – dove il frutto di una elaborazione critica della forma precedente ha generato la forma più recente –, questo rappresenterebbe come tale una fonte di pace e di riconciliazione. Se però si cala nella realtà il provvedimento, si constata immediatamente che in ogni comunità si perde la certezza del rito, della calendario, del santorale, della forma, della lingua, del ministero, etc. etc. Ben presto, infatti, anche grazie alle ulteriori facilitazioni di accesso alla “forma straordinaria”, assicurate irresponsabilmente dalla Istruzione della Commissione “Ecclesia Dei” Universa ecclesia, del 2011, si determinò in molte comunità il conflitto tra due “forme di liturgia” che erano diverse “forme di chiesa”. Ciò non impedì che luoghi di formazione di rilievo (ad es. il North America College di Roma), per almeno un decennio abbiano pensato di poter formare i preti a questo parallelismo di forme liturgiche, e neppure si evitò che importanti manuali sulla eucaristia si allineassero a questa tendenza arrischiata e che teologi di rilievo applaudissero questa tendenza come “una lezione di stile cattolico”. Altro che stile cattolico: la riforma liturgica veniva di fatto emarginata, non solo nella celebrazione eucaristica, ma nell’intero quadro del rito romano, perché appunto SP aveva posto come proprio oggetto l’intero rito romano, non solo il rito eucaristico.
Ciò che Francesco fece, nel 2021, con Traditionis Custodes, fu di tornare dalla irragionevolezza alla ragionevolezza, dalla illusione alla realtà, dall’anacronismo alla storia della salvezza. Non fu intolleranza scomposta, ma classica prudenza. Francesco aveva capito che non si deve chiamare “tolleranza” la “imprudenza”. Per questo oggi, chi parla ostinatamente di “usus antiquior” o di “forma straordinaria” finge, anzitutto davanti a se stesso, che la storia si sia fermata e che risulti oggi possibile per tutti e con disinvoltura ciò che allora fu scandaloso in Lefebvre e nei suoi: pensare di restare cattolici non accettando la deliberazione conciliare di riforma del rito romano. Non c’è nessun “usus antiquior”, né alcuna “forma extraordinaria” che un cardinale o un vescovo possa utilizzare liberamente, senza una precisa concessione. Non è né normativo né normale celebrare secondo un ordo che è stato riformato. Ci sono solo casi eccezionali e del tutto straordinari in cui a qualcuno può essere permesso ciò che è in generale è da sconsigliare. Il tradizionalismo vuole impedire alla tradizione di essere diversa dal passato. Ma è precisamente questo il compito della tradizione: permettere al mistero liturgico di essere dinamico, di essere ancora azione, parola, fatto vivo e vero, qui ed ora, per donne e uomini, che si riconoscono parte del mistero. Il fatto che la comunità celebrante faccia parte del mistero celebrato è la esperienza che rende inadeguato il cosiddetto “uso più antico” e che rende extravagante la cosiddetta forma straordinaria. Chiamare col nome di uso un abuso e col nome di forma una deformazione è una delle carenze più gravi che affligge i tradizionalisti. E’ la incapacità di essere veritieri e di chiamare le cose col loro nome. Stranamente tollerata da chi sa che sono parole false e negazioni della verità, ma preferisce non urtare le sensibilità e, se del caso, può persino arrivare a presiedere un vespro, pur di non contestare. Anche questo, sia pure in forma minore, appare una carenza grave, che viene dal fatto di trascurare una occasione autorevole per accompagnare i tradizionalisti ad uscire dal tunnel gerarchico e dal codazzo colorato dei loro ostinati formalismi.






























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