Fare teologia oggi. L’onore e la dignità, oltre il blocco
Una richiesta dell’Istituto IHU Unisinos di San Leopoldo in Brasile ha suscitato una riflessione sul modo di fare teologia e sul suo impatto sulla cultura e sulla chiesa contemporanea. Propongo il testo della conferenza, tenuta il giorno 11 maggio scorso on-line.
Fare teologia oggi. Il passaggio dalla società dell’onore alla società della dignità
“La verità delle scritture è davanti ad esse, non dietro”
P. Beauchamp1
La teologia e il modo di lavorare del teologo è un oggetto di ricerca fondamentale. Possiamo esaminare anzitutto il “modello moderno” e poi il passaggio al modello “nuovo”, che non è più moderno, ma “post-moderno”. Proviamo a leggere il compito del teologo in un tale mondo che possa dall’onore alla dignità. Esamino alcune impostazioni classiche del modo moderno di fare teologia, le metto in relazione con alcune sfide contemporanee e poi immagino 5 documenti futuri del magistero. Il passaggio tra società dell’onore e società della dignità sta al centro della trasformazione anche del mestiere del teologo
I parte: Lo stile moderno e i suoi limiti da superare
“La procedura di completa istituzionalizzazione della tradizione…
e la sua immunizzazione rispetto alla storia comunemente umana…
non sarebbe stata possibile senza una corrispondente
modificazione della struttura giuridica della Chiesa cattolica”
M. Neri2
La prima parte della mia relazione è destinata alla lettura di una caratteristica dimenticata della nostra tradizione cattolica: ossia la qualità “moderna” della sintesi tridentina, che ha condotto la Chiesa cattolica per 400 anni, entrando in crisi tra XIX e XX secolo.
1. Lo stile moderno e le accuse di modernismo
Una parte del dibattito che ha accompagnato la scoperta della sinodalità, voluta da papa Francesco fin dall’inizio del suo pontificato, è stata letta talora come una sorta di “modernizzazione” della Chiesa, percepita addirittura (nelle forme e nei contenuti) come una esposizione al rischio di “modernismo”. Qui c’è un grande equivoco, che merita la nostra attenzione. Il sinodo, così come è stato pensato dal Concilio di Trento in poi, è stata la risposta “moderna” alla crisi della tradizione. Quando dico “moderna” intendo dire segnata da caratteristiche di “burocratizzazione”, di “accentramento” e di “clericalizzazione” che il tempo antico e medievale non conosceva. Confondere la “forma moderna” del sinodo con la tradizione è un grave errore di prospettiva. La esigenza di “recuperare” una logica del sinodo che non sia solo “strumento di governo clericale del vescovo”, ma “espressione dell’intera Chiesa” comporta una grande fatica nell’uscire dalle categorie troppo anguste, che dopo il Concilio di Trento si sono ampiamente diffuse nella Chiesa latina, ma che tra XIX e XX secolo sono entrate in crisi. Se parliamo della Chiesa cattolica solo con le parole che abbiamo imparato dal Concilio di Trento e dal Codice del 1917, restiamo fuori dalla tradizione. Il Sinodo, come è stato concepito da papa Francesco, è una istituzione che dovrebbe liberarci dai pregiudizi moderni. Moderno è ciò che dobbiamo superare, non ciò verso cui dobbiamo tendere. E moderno significa, qui, burocratico, formale e istituzionale, come condizione strutturale di una esperienza individuale della fede (cfr. J. Bossy, Dalla comunità all’individuo. Storia dei sacramenti…)
2. Il lessico e il canone
La mia seconda considerazione si basa su una distinzione che già parecchi anni fa aveva coniato con merito un teologo italiano, Pierangelo Sequeri. Spesso noi parliamo il lessico del Concilio Vaticano II, ma agiamo secondo un canone che resta quello tridentino. Proviamo a dirlo con altre parole: abbiamo capito che nel linguaggio non possiamo più procedere secondo logiche moderne di “burocratizzazione della fede” o di “formalizzazione istituzionale della tradizione”, ma pur cambiando le forme della espressione, ossia le parole con cui parliamo, continuiamo però a decidere, a deliberare e a considerare normativo il canone moderno, confondendolo con la tradizione. Questo appare come un vero “elefante nella gioielleria”: continuiamo a identificare la Chiesa, che a parole vogliamo in uscita e ospedale da campo, confondendola con una normativa tridentina senza possibili novità. Alcuni esempi possiamo prenderli dai “silenzi” di cui è ricco il IL24: nessun riferimento alla ordinazione di uomini sposati, nessun riferimento alle famiglie con situazioni considerate “non regolari”, nessun riferimento all’accesso della donna al ministero ordinato. Il “canone tridentino” funziona anzitutto come “censura” di ciò che è opportuno discutere. Ma non basta. Abbiamo visto l’irruzione del canone tridentino nell’ultima parte di “Querida Amazonia”, dopo una serie di grandi sogni, espressi in un linguaggio nuovo, l’incubo di una versione piatta e formale del ministero ecclesiale ridotto al “sacerdote”. Ma come poter tacere dei recenti documenti del Dicastero per la Dottrina della fede? La benedizione delle coppie irregolari, affermata a parole, e resa impossibile dalle circostanze; la valutazione della “validità dei sacramenti”, dove la liturgia è ridotta a retorica affettiva di deliberazioni guidate solo dal tenore delle “formule verbali”. Come tacere infine anche di “Dignitas infinita”, in cui la pretesa di una affermazione “razionale” della infinita dignità di ogni essere umano viene guadagnata in una sorta di “monologion” fuori dal tempo e dalla cultura? In tutti questi casi ad un “lessico” pienamente segnato da un nuovo modello di chiesa e di cultura, si unisce un “canone” che non lascia alcuno spazio né pratico né teorico al nuovo paradigma, assestandosi sul paradigma moderno che da 200 anni risulta inadeguato.
3. Un nuovo canone liturgico e la sua rimozione
A ben vedere, però, noi abbiamo avuto, nella esperienza della tradizione degli ultimi 60 anni, non solo un “lessico nuovo”, ma anche forme canoniche “nuove”. Questo vale, in modo speciale, per la liturgia. Il Concilio Vaticano II non ha solo fatto “bei discorsi” sulla liturgia, ma ha dato origine ad una “traduzione della tradizione” che ha prodotto una riforma complessiva, di tutti gli atti rituali della vita cristiana. Non è un caso che proprio su questo “canone nuovo” si sia concentrata la resistenza più ostinata, di chi non voleva e non vuole uscire da una comprensione “moderna” della Chiesa. La strategia di “sospendere” la efficacia canonica della riforma liturgica, che tra il 2007 e il 2021 ha permesso a molte comunità di potersi interpretare come “cattolico-romane” di fatto rifiutando non solo il nuovo lessico, ma il nuovo canone liturgico, ha trovato una risposta netta da parte di papa Francesco. Questo è bene. Ma non è sufficiente a superare la tentazione di opporre, continuamente, ad un lessico della apertura, la rigidità di un canone moderno, indifferente ai soggetti e perciò produttore di individualismo. Di qui la scelta di “non tematizzare” tutta una serie questioni che hanno, al centro, il diritto dei soggetti (e la loro dignità) prima che l’assetto istituzionale della regolarità. Di quello di cui occorre deliberare non si deve tacere. Ogni rimozione si capovolge in insensibilità. E se rimandassimo questa occasione, sarebbe la certificazione di non potersi autocomprendere se non nelle forme moderne, burocratiche ed istituzionali che dalla metà del 1500 organizzazione il lavoro della Curia Romana.
4. In un sinodo si delibera a partire dalle argomentazioni: la teologia è decisiva
Da ultimo, per tornare alla questione del linguaggio, è certo utile aver sottolineato il dovere di un reciproco ascolto, come una sorta di “faro primario” che ha segnato tutte le tappe del lavoro sinodale. Ma per dare all’ultima Assemblea uno strumento di lavoro efficace, occorre introdurre “linguaggi di orientamento” e non semplici “costatazioni” sui passaggi più delicati, su cui la Chiesa cattolica non può più affidarsi ai suoi “linguaggi moderni”. Anche la dottrina dogmatica è stata segnata da questo limite e deve essere accuratamente ripensata, per offrire soluzioni vere e non “rinvii” o “disattenzioni”. Offrire argomenti è parte decisiva di una tradizione di confronto: se il primo a rinunciarvi è lo strumento di lavoro, a patirne sarà il lavoro stesso. Alla fine sarà importante deliberare e dalle deliberazioni si valuterà in quale misura il Sinodo, con il suo lungo percorso, ha permesso davvero allo Spirito di parlare, oppure ha saputo imbrigliarlo nelle maglie delle evidenze moderne e burocratiche con cui è stata costruita la dottrina e la disciplina cattolica dal Concilio di Trento in poi.
5. Il “dispositivo di blocco” come mancata soluzione del problema della “tradizione viva”.
Una conseguenza di questa tentazione, che come ogni tentazione deriva dalla paura e genera viltà, è l’affermarsi, dopo il Concilio Vaticano II, di quel modo di argomentare teologico e pastorale, che tende a sottrarre alle Chiesa ogni autorità di decidere “altrimenti”, affinché resti affermata la autorità di decidere “come prima” (o, nella presunzione, “come sempre”). A partire dagli anni 70, infatti, abbiamo visto comparire un modo di ragionare, secondo cui la Chiesa “non ha l’autorità”: di far accedere la donna all’ordine, di spostare la prima confessione dopo la prima comunione, di affermare il rito liturgico riformato o di permettere anche al diacono di essere ministro della unzione dei malati. Su ognuno di questi punti il dispositivo di blocco si presenta come una “dichiarazione di perdita di potere”, ma in realtà costituisce una resistenza nell’esercizio di potere più classico3.
Questo modo di pensare, che ha segnata tutta la stagione che va dalla fine del pontificato di Paolo VI, attraverso Giovanni Paolo II, fino a Benedetto XVI, ha trovato una svolta con Francesco, che in EG e poi soprattutto in AL ha saputo affemare con forza, e di nuovo, la autorità con cui la Chiesa può ascoltare lo Spirito e riformare se stessa. Ma ciò che è accaduto in alcuni ambiti, attende un “cambio di paradigma” non solo teorico o marginale, ma centrale. Esaminiamo alcuni ambiti della vita ecclesiale dove questo “passaggio” esita ancora a decollare.
II Parte: alcune questioni decisive per il cambio di passo
“La Chiesa non aveva coscienza allora (1928) del valore positivo della storia presente”
Gh. Lafont4
In questa seconda parte vorrei affrontare una serie di questioni in cui siamo vittime del “paradigma moderno”. Sì, avete capito bene: proprio del paradigma moderno e della sua fissazione sulle idee chiare e distinte. Ma per capire bene questo dato di fondo, che inquina la nostra lettura della tradizione, dobbiamo premettere una distinzione teorica preziosa, tra società dell’onore e società della dignità, con cui potremo meglio interpretare il necessario passaggio dal canone e lessico tridentino al canone e lessico del Vaticano II.
6. Società dell’onore e società della dignità. Le “differenze” da rimodulare
Vorrei partire da una distinzione, che traggo da Ch. Taylor (Il disagio della modernità, Bari, Laterza, 1991) e che mi sembra molto preziosa per interpretare il travaglio della Chiesa cattolica negli ultimi due secoli. Egli distingue infatti tra “società dell’onore” e “società della dignità”. La prima società è fondata sulla autorità e sulla differenza, mentre la seconda è fondata sulla libertà e sulla eguaglianza. Questa distinzione, che interpreta il passaggio dalla società tradizionale e alla società post-tradizionale, dall’ancien régime al mondo liberale, riguarda da vicino anche la Chiesa cattolica. Che ha subito il trauma di questa trasformazione, anzitutto in Europa, e lo ha gestito molto spesso con una dura contrapposizione. Ha rischiato di identificarsi con la “società dell’onore”, colpevolizzando o demonizzando la società della dignità. D’altra parte non era difficile che si realizzasse uno scontro, poiché la Chiesa ha necessariamente a che fare con una “differenza” e con una “autorità” che è la sua ragion d’essere. La differenza di Dio e la sua autorità hanno esercitato una forte pressione sulla Chiesa del XIX e XX secolo, per farla identificare con la “società dell’onore”, fino a autodefinirsi “societas inaequalis”: ossia una società che per mediare la differenza di Dio deve porre come sostanziali (e immodificabili) alcune fondamentali differenze sociali e culturali: quelle tra maschio e femmina e quelle tra chierici e laici, ma indirettamente anche quelle tra liberi e schiavi e tra ricchi e poveri. Vorrei ora soffermarmi sulle prime due distinzioni per mostrare come, arroccandosi su evidenze classiche, la Chiesa cattolica rischia di difendere non il Vangelo, ma l’ancien régime.
7. Uomo/donna: il pregiudizio da superare
La difficoltà con cui il discorso cattolico elabora da 60 anni il discorso sulla “autorità femminile” è lo specchio della inerzia della società dell’onore nel cuore del pensiero cattolico. Su questo erano molto più liberi gli uomini medievali. Infatti, mentre noi da circa 60 anni, ci arrampichiamo sugli specchi di un “essenzialismo” che mira a paralizzare la donna nell’ambito privato e pretendiamo di dedurlo direttamente non solo dalla creazione, ma dalla rivelazione addirittura, i medievali erano liberi di considerare il “sesso femminile” come un “impedimento alla ordinazione”. Per molti teologi medievale era la cultura ad essere in gioco, non a fede. Per cultura pensavano che la donna fosse priva di autorità in pubblico (pur riconoscendogliela in privato). Per questo tra i “difetti di autorità” che conoscevano (la minore età, la condizione di schiavitù, la condizione di figlio naturale, la disabilità…) il “sesso femminile” era per loro il più evidente. Oggi abbiamo cambiato opinione sui disabili, sugli schiavi e sui figli naturali, manteniamo giusti impedimenti sui minori, ma la donna non ha più impedimenti sul piano culturale. La strada di “essenzializzare” la sua esclusione dal ministero ordinato è una cosa del tutto nuova, ad es. per come è stata inventata da Von Balthasar, ma non è frutto di pensiero teologico, ma di scarso pensiero culturale. E’ una forma di ignoranza e di pregiudizio che i papi del XX e XXI secolo hanno rischiato di dogmatizzare. Su questo punto vi è una fragilità del pensiero teologico davvero imbarazzante5.
8. Chierici/laici: l’esercizio della autorità
Non diversa è la questione a riguarda della seconda grande differenza della “società dell’onore”, ossia quella tra chierici e laici. La ricostruzione della identità del popolo di Dio compiuta con il Concilio Vaticano II introduce un altro criterio di ricostruzione delle “differenze di ministeri ecclesiali”. Al modello laici sudditi e clero sovrano si sostituisce una complessa “partecipazione” ai tria munera di Cristo, ossia alla profezia, alla regalità e al sacerdozio. Questo significa una profonda rielaborazione della coscienza della Chiesa, che esce dalla idea della “potestas” riferita solo al clero e entra nella prospettiva di una partecipazione ai doni di Cristo che riguardano tutti, dal singolo battezzato al papa. Qui penso che sarebbe utile riflettere su una ulteriore distinzione, che poi svilupperemo ulteriormente, e che è entrata nella discussione recente a proposito della “partecipazione delle donne al governo della Chiesa”. Provo ad esporla brevemente, perché mi sembra di grande importanza.
Infatti la differenza tra laici e chierici nel pensiero medievale e moderno è una differenza fondamentale, ma che ha al suo interno una ulteriore differenza: ossia, nel clero, quella tra chi esercita la “potestas ordinis” e chi esercita la “potestas iurisdictionis”. Da un lato, infatti, vi è il “cursus honorum” che arriva al presbitero-sacerdote, dall’altro vi è l’episcopato. Se pensiamo questo sistema, oggi in larga parte superato, ma non del tutto, vediamo che al prete è riservata la “potestas ordinis” ossia la santificazione, mentre al vescovo spetta una “postestas iurisdictionis” che comprende sia il “munus regale” sia il “munus profetico”: per il cattolicesimo classico, governare e predicare riguardano il vescovo, non il prete.
Può essere interessante il fatto che oggi, in alcune discussioni e proposizioni del magistero, anche papale, si può leggere che alla donna potrebbero essere attribuiti più facilmente “poteri di giurisdizione” che non “poteri di ordine”, che sarebbero contraddittori con la sua “natura e vocazione”. Qui, a mio avviso, la “società dell’onore” continua a funzionare, anche a dispetto del Concilio Vaticano II. E si preferisce avvicinare la donna la vescovo (allora) “non ordinato”, che al prete “ordinato”!
9. L’episcopato e la sua “forma sacramentale”: la storia e i suoi limiti
Ecco allora aprirsi lo sguardo su quella che il P. Ghislain Lafont definiva “forse la più grande novità del Concilio Vaticano II”, ossia comprensione dell’episcopato come grado massimo del “sacramento dell’ordine”. Da una visione dell’episcopato come “officium” ad una visione come “sacramentum”, mediante una unificazione di tutto il ministero ordinato sotto la parola profetica, la cura del governo e la azione rituale.
Dopo più di un millennio, l’episcopato torna ad essere pensato come “ministero ordinato” e non come “consacrazione ad un ufficio”: ha nella presidenza della eucaristia il suo vertice, non nell’esercizio della giurisdizione. Qui, evidentemente, il mutamento di teologia si deve confrontare con la inerzia di un modello amministrativo che ha ancora molta forza e che esercita un peso grandissimo, su ogni vescovo come sul vescovo di Roma.
Questo illumina bene anche alcuni tratti imbarazzanti del recente sinodo sulla sinodalità. La parola astratta porta fuori strada: ma è certo che il passaggio dal Sinodo come “strumento per l’esercizio della giurisdizione da parte del Vescovo” e il sinodo come luogo di confronto tra soggetti che parcipano del munus regale, profetico e sacerdotale appare un campo di elaborazione ancora molto acerbo. Curioso è il fatto che un “ministero del papa” (ossia il Dicastero per la Dottrina della fede) abbia requisito la discussione sul ruolo della donna sostituendo alla discussione sinodale la redazione di un documento magisteriale. Qui, come è evidente, siamo ancora al modello ecclesiale e ministeriale precedente il Concilio Vaticano II.
10. Il matrimonio e la sua complessità: lo sviluppo moderno della competenza giuridica ecclesiale
All’inizio del pontificato di Francesco, nel primo duplice sinodo sulla famiglia, che ha portato alla Esortazione Apostolica postsinodale Amoris Laetitia, abbiamo visto l’apparire di un modello nuovo di pensiero sul matrimonio. Che usciva da uno stile “moderno”, inaugurato dal Decreto “Tametsi” con cui il concilio di Trento aveva assunto sulla Chiesa cattolica l’intera competenza sulla esperienza umana del matrimonio. Mentre prima, per ben 1500 anni, era stato chiaro che il matrimonio era esperienza naturale, civile ed ecclesiale, e che lo specifico del momento ecclesiale era la benedizione, ora la Chiesa trasformava profondamente le cose: il rito del matrimonio dal 1614 era composto da consenso e dono dell’anello, mentre la benedizione usciva dal sacramento e si collocava all’interno della “messa degli sposi”, come parte accessoria e non necessaria.
Questa svolta nel XVI secolo è diventata “resistenza” della società dell’onore alla tarda modernità, con le encicliche da Leone XIII in poi, il cui contenuto, poi ribadito nel codice del 1917 e poi del 1983, è la competenza esclusiva della Chiesa in materia di matrimonio.
Questa lettura moderna, quasi di reazione alla perdita del potere temporale con il mantenimento di un “ordinamento parallelo” tra norma civile e norma canonica, è un modo che AL 304 definisce “meschino” di pensare la realtà del matrimonio.
Purtroppo la logica di “Tametsi” continua ad essere prevalente, sia nel giudicare le forme di vita matrimoniale, sia nel giudicare le “nuove forme di unione”, per le quali non si riesce a giustificare una benedizione rituale, ma solo una “benedizione pastorale”, che è un ente di ragione, ma non una vera realtà. E’ meschino pensare di accogliere la periferia rendendola clandestina6.
Questi esempi mostrano il grande compito che la teologia assume oggi di fronte al passaggio tra “società dell’onore” e “società della dignità”. Bisogna riconoscere che anche nell’ultimo documento Dignitas infinita questo obiettivo non viene perseguito con il rigore concettuale e con la fondazione tologica necessaria. Perciò le buone intenzioni rischiano di restare compromesse da una impostazione sistematica largamente insufficiente e con profonde contraddizioni interne. Il clima di dialogo e di ricerca, che Francesco ha reso possibile da 11 anni, ha certamente favorito un nuovo modo di approcciare le questioni. Ma la timidezza dei teologi e la cautela dei pastori non ha se non minimamente superato quel “dispositivo di blocco” che illude tutti di poter garantire la tradizione soltanto con la immobilità. Ci sono stagioni nelle quali l’unica forma di prudenza è avanzare decisamente verso nuovi paradigmi, di cui non si deve solo parlare, ma che occorre attuare, certo con grande coraggio e senza alcuna nostalgia, che non è un sentimento cristiano.
III. Conclusione: cinque Prefazioni a documenti del Magistero mai scritti
Se volete abitare ponti e frontiere dovete avere una mente e un cuore inquieti. A volte si confonde la sicurezza della dottrina con il sospetto per la ricerca. Per voi non sia così. I valori e le tradizioni cristiane non sono pezzi rari da chiudere nelle casse di un museo. La certezza della fede sia invece il motore della vostra ricerca. Francesco7
Alla fine di questo percorso possiamo tornare ad un testo recente e nel quale scopriamo una “trama segreta” di una tradizione viva. Potremmo dire le “condizioni” che sorreggono la relazione di fedeltà alla tradizione e che papa Francesco ha espresso, con il linguaggio più vivo, in un discorso che ha rivolto al “Collegio degli Scrittori” della rivista “La civiltà cattolica”. In quel testo Francesco identificava tre caratteristiche necessarie per cogliere il senso più autentico della “traditio”: ossia la inquietudine, la incompletezza e la immaginazione.
In questo ultimo passaggio del testo vorrei fermarmi a considerare l’ultima caratteristica di una buona comprensione della tradizione: ossia la capacità di “immaginare”. Perciò ho pensato di tradurre questa immaginazione in un modo molto concreto, e con una certa dose di provocazione. Mi accingo, perciò, a presentare brevemente “cinque documenti” del Magistero. Sono documenti “immaginati”, che configurano possibili sviluppi che potranno esserci tra 1 , 10, 50 o 100 anni. Sono qui “introdotti” brevemente, al servizio di una rilettura “immaginaria”, ma non per questo meno capace di condurre al cuore di una dottrina che non dipende solo dal passato, ma anche dal futuro.
11.1. Ad Romae episcopum. Sul modo di intendere l’autorità del successore di Pietro
L’assetto di una Chiesa, la cui tradizione è lunga più di 2000 anni, chiede un lungimirante equilibrio tra “primato” e “collegialità”. Il primo impedisce la dispersione e garantisce la unità, la seconda permette una certa differenziazione e una benefica pluralità. Il nuovo equilibrio, di cui dovrà fare esperienza la Chiesa cattolica del futuro, costituisce una ripresa della tradizione antica e medievale, in parziale correzione alle formalizzazioni moderne, che hanno condotto ad una forte centralizzazione del potere. Una esperienza della autorità, come si è sviluppata dopo la fine della “società dell’onore”, che aveva suggerito una concezione della chiesa come “società perfecta” o come “societas inaequalis”, ha portato gradualmente la compagine ecclesiale a valorizzare meglio la “società della dignità” come risorsa della “tradizione”. Questo implica una profonda rilettura anche del “primato petrino”, riscoprendone la qualità di servizio alla unità nella differenza, quasi una valorizzazione unitaria delle differenze.
11.2 Familiarum Novarum. Sulle forme inedite di vita comune
La vita familiare, nella società della dignità, trova nuove possibilità e nuovi deserti. La Chiesa ha imparato, nell’ultimo secolo, a distinguere tra le forme della istituzione matrimoniale e le forme fattuali di vita familiare. Questa “libertà del legame” – che può sempre diventare anche “libertà dal legame” – costituisce una messa alla prova formidabile per il dispositivo messo a punto dalla Chiesa cattolica, in anticipo su tutti gli stati moderni, di “modernizzazione istituzionale” della istituzione matrimoniale. Questa svolta ha impostato la pastorale matrimoniale in una progressiva identificazione della morale con il diritto. Questo ha innalzato la “forma canonica” a garanzia di libertà del consenso. Ma questa intuizione, che non ha cancellato il sapere medievale sulla originarietà del libero consenso, ha sovraesposto la Chiesa sul piano istituzionale. Per questo, al sorgere dello Stato Liberale, la conflittualità sul piano matrimoniale è divenuta frontale e lacerante. Due istituzioni diverse iniziavano a vantare gli stessi diritti sulle medesime coppie. La cosa si è irrigidita in modo strutturale con il sorgere del Codice di Diritto Canonico: con esso l’accesso al matrimonio come “ius in corpus” diventa una prerogativa ecclesiale, incapace di riconoscere altri ordinamenti. Per recuperare questa possibilità, divenuta essenziale dopo il Concilio Vaticano II, occorrerà attendere Amoris Laetitia, che predispone una percezione diversa della realtà, uscendo dal modello tridentino e ottocentesco del “primato della legge oggettiva”. Ma mentre AL recupera questa percezione articolata, ritornando a fonti “premoderne” come Tommaso d’Aquino, ma non inaugurando un riconoscimento istituzionale nuovo. Ora invece Familiarum novarum apre la tradizione cattolica ad un recupero strutturale della molteplicità di modelli di famiglia, anche mediante un accurato confronto con le forme istituzionali naturali e civili. La pastorale ecclesiale non ha più bisogno della esclusiva istituzionale, ma naviga di nuovo in mare aperto.
11.3 Pro mundi vita. Sul mondo come luogo dello Spirito
L’attenzione alla “vita” ha segnato la Chiesa tardo-moderna in modo progressivo. Tuttavia la riduzione “biologistica” della vita ha conosciuto finalmente forme di rilettura, che ne hanno recuperato una visione meno unilaterale. Scoprire che il “mondo” è luogo di presenza dello Spirito costituisce la occasione per una interpretazione del dono dello Spirito “per la vita del mondo” che deve offrire una ricostruzione del rapporto tra Chiesa e mondo capace di mediare scandalo e riconoscimento. Per riprendere uno degli approcci più limpidi, riferito a papa Francesco fin dall’inizio del suo pontificato, si tratta di uscire da una rappresentazione della Chiesa come di quella istituzione che “porta Dio nel mondo”, per riscoprire la capacità ecclesiale di riconoscere Dio già presente nel mondo e di offrire gli strumenti per trovarlo. Il servizio attiene alla possibilità di un modo di “fare esperienza” che chiede un linguaggio adeguato, non paternalistico e non costretto nella morsa tra dottrina/disciplina. Narrazione e azione sono i suoi organi primari.
11.4 Sine prohibitione. Sul ruolo ministeriale della donna
Una serena considerazione della donna come ministro ecclesiale si impone su decenni di “lotta in difesa della riserva maschile”. Finalmente abbiamo letto, a chiare lettere, un documento ecclesiale che sa affermare la inesistenza di “impedimenti” alla ordinazione delle donne. Un graduale inserimento di battezzate di sesso femminile all’interno del ministero, mediante la comune ordinazione che si estende così anche alle donne, costituisce un movimento di singolare lucidità. In effetti occorreva una accurata elaborazione dei diversi piani su cui può essere fatta valere e èuò risultare significativa, o addirittura irrinunciabile, la differenza tra il maschile e il femminile. Il punto decisivo, tuttavia, è costituito dalla nuova consapevolezza, espressa nella Lettera apostolica Sine proibitione, tra la differenza tra i sessi e la differenza gerarchica. Se la differenza sessuale è stata per secoli pensata e sentita come “differenza di autorità gerarchica”, ora, grazie alla chiara rilettura dell’ultimo testo magisteriale, è possibile non perdere la differenza senza dover accettare una subordinazione dell’una ad un’altro. Il fatto che il documento esca da questo automatismo della “gerarchia tra i sessi” permette di configurare un graduale riconoscimento della autorità femminile anzitutto nel grado più elementare del ministero ordinato: ossia l’accesso della donna al diaconato.
11.5 Cum omni fiducia. Sulla funzione ecclesiale della teologia
Quest’ultimo testo apre uno sguardo nuovo sulla tradizione teologica del cattolicesimo. Utilizzando una espressione che sta proprio sulla soglia tra rivelazione e tradizione (“cum omni fiducia” è la traduzione latina di quella espressione (”in tutta parresìa”) con cui Paolo viene descritto da Luca, nell’ultimo versetto del libro degli Atti (At 28,31). Il contributo del teologo viene così riletto, in filigrana sul modello di Paolo a Roma, come decisivo per l’esercizio dell’annuncio, della celebrazione e del governo. Un teologo “vincolato”, ma “senza impedimenti”. Per svolgere questa funzione preziosa per la Chiesa, il teologo deve esercitare una funzione di “vigilanza sulle parole”. A differenza del “magistero pastorale”, il “magistero teologico” predispone la categorie della predicazione, della celebrazione e della amministrazione. Per farlo compie continuamente un doppio compito: mira alla fedeltà mediante l’audacia, lascia la parola alla Parola, si lascia orientare dall’incontro sacramentale. Tutto questo viene svolto, in nome della tradizione, mediante un duplice principio: il teologo “salva i fenomeni e offre chiarimenti” (E. Juengel). Ma non salva davvero i fenomeni se non li chiarisce, così come non chiarisce davvero le menti se distorce i fenomeni. La logica del discorso chiarificatore, e la luce che proviene dal fenomeno, devono incrociarsi, con una sintesi potente tra audacia e pazienza, di azione e passione. Audacia di chiarire per “patire” il fenomeno. Audacia nell’ autoesporsi al fenomeno per esercitare la pazienza sorprendente e consolante della chiarificazione.
Più o meno così potrebbero parlare, tra alcuni anni, non pochi documenti del magistero.
1P. Beauchamp, Stili di compimento. Lo Spirito e la lettera nelle Scritture, Assisi, Cittadella, 2007, 22.
2 M. Neri, Fuori di sé. La Chiesa nello spazio pubblico, Bologna, EDB, 2020, 77.
3 Cfr. A. Grillo, Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il “dispositivo di blocco”, Assisi, Cittadella, 2019.
4 Gh. Lafont, Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, Poliedro emergente e piramide rovesciataBologna, EDB, 2017, 72.
5 Cfr. A. Grillo (ed.), Senza impedimenti. Le donne e il ministero ordinato, Brescia, Queriniana, 2024, con contributi di quattro teologhe e tre teologi.
6 Cfr. A. Fumagalli – A. Grillo – G. Piva, La (non) benedizione delle coppie omosessuali. Questioni critiche in Fiducia Supplicans, Brescia, Queriniana, 2024.
7 Cfr. Papa Francesco, Discorso alla comunità de “La Civiltà Cattolica”, Sala del Concistoro, Giovedì, 9 febbraio 2017, cfr. https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/february/documents/papa-francesco_20170209_comunita-civilta-cattolica.html, accesso 10 giugno 2024