Caro Vito, ma di quale papa Leone stai parlando? Ateismo si dice in molti modi
Caro Vito,
non vi è dubbio che il giudizio sull’ateismo faccia parte non della tradizione ecclesiale antica e medievale, ma delle contingenze storiche degli ultimi 200 anni. Una posizione “atea” poteva esistere già in antico, ma è ovvio che la questione ha assunto un problema, per la Chiesa cattolica, da quando è nato un mondo in cui è possibile “disinteressarsi di Dio” e ritenere di vivere bene, anzi meglio. L’epoca di Leone XIII è stata segnata, profondamente, dalla dialettica tra fede e ateismo. Riceveva il testimone, Leone XIII, da molti papi dell’800 e lo assumeva con uno stile tutto nuovo. La lotta contro l’ateismo, che aveva assunto con i suoi precedessori la figura del “rifiuto dello stato ateo”, ossia dello stato liberale, diventava con Leo XIII, il confronto sul campo delle “res novae”. Ma restava un forte pregiudizio contro il mondo moderno, pensato come “mondo dell’ateismo”, mondo in cui Dio non era più il presupposto né del soggetto libero né dell’ordinamento giuridico.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Anche la Chiesa cattolica ha imparato a pensare che ciò che a fine 800 poteva apparire come “ateo”, dagli anni 60 può essere pensato addirittura come “segno dei tempi”. La fede in Cristo, senza nulla perdere della propria intensità di affidamento al “logos fatto carne”, poteva leggere la realtà del mondo con occhiali diversi, con un nuovo discernimento e con più grande empatia. Senza nulla perdere della propria fede. In questo spazio si è mosso prima il Concilio Vaticano II, poi la sua recezione, fino a papa Francesco e a papa Leo XIV.
Per capire questo sviluppo non si può perdere la complessità della questione, che può essere intesa soltanto se non si dà al termine “ateismo” un significato univoco. Dobbiamo distinguere, infatti, per capire la storia degli ultimi 200 anni, un doppio significato di ateismo: da un lato un ateismo istituzionale, che pensa ogni uomo e ogni donna dotati di una originaria e indisponibile dignità, che vincola ogni istituzione e che non può essere scalfita da una visione gerarchica (compresa quella religiosa). Questo “ateismo politico”, che genera lo stato di diritto, è una conquista per tutti. E anche la Chiesa ha potuto valorizzarlo, con il riconoscimento della libertà di coscienza come dimensione originaria. Qualcuno si scandalizza ancora oggi, ma da 60 anni è così.
Ma c’è anche un “ateismo teologico” che è cosa profondamente diversa. Esso rappresenta, infatti, la negazione della trascendenza, della ulteriorità e del sacro. Questo ateismo, che erode l’umano nella sua dimensione non di libertà, ma di autorità, costituisce una questione radicale, che ogni forma di fede deve leggere in modo necessariamente critico. La stessa coscienza, senza riconoscere una autorità, si perde in un gioco di specchi senza uscita.
Ecco allora la questione: attribuire ad una omelia di papa Leone XIV la critica dell’ateismo, come se fosse un “passaggio stonato”, mi pare derivare dalla confusione tra questi due livelli della questione, che la critica non riesce a distinguere. I livelli erano ancora necessariamente confusi ai tempi di Leone XIII: oggi lo sono solo per i tradizionalisti. Se non distingui tra i due significati di ateismo, puoi cadere nella trappola di pensare che ogni critica all’ateismo possa essere compresa come critica allo stato liberale e alla libertà di coscienza. Come un “regime degli ayatollah” finalmente smascherato in Vaticano.
Purtroppo, quando si parla di questioni complesse, e le si giudica con schemi troppo semplici, si può cadere in errori gravi e si alimentano lettura assai distorte.
Esaminiamo brevemente i due temi della tua critica, che non riguardano affatto l’ateismo.
Entrambi i testi da te esaminati riguardano infatti la comprensione di Gesù: chi era Gesù? Un ciarlatano? O un uomo retto? O un supereroe? O la rivelazione di Dio? Le risposte a queste domande sono affidate ad una lunga tradizione che inizia con la lettura che ne offre il NT. Se leggiamo il testo della omelia del 9 maggio, vediamo bene che il problema non è l’ateismo, come tu vorresti, ma la indifferenza ecclesiale. Ciò che tu giudichi con le categorie di Leone XIII non vale per Leone XIV. La questione non è più un ateismo istituzionale, da contestare; è piuttosto una indifferenza culturale da superare con forza. Tu sai bene, infatti, che la “lode del fratello ateo” di Turoldo, o l’interesse per i “non credenti” espresso da Martini, non ha niente a che fare con la apologetica contro l’ateismo né con una marginalizzazione della fede. Turoldo e Martini, insieme con Bonhoeffer o Kueng o Panneberg, non sono affatto tiepidi nella loro fede: non vogliono affatto annacquare il vangelo con la buona coscienza borghese. Sanno che senza la profezia di un Gesù come “rivelazione del Padre” non si resta saldi nella Chiesa.
Invece sembra che tu voglia capovolgere la prospettiva e fare, dell’ateismo politico, il criterio di giudizio di ogni proposizione del papa, per poter facilmente notare che la esaltazione della fede finirebbe col negare, giudicata così in contumacia, la possibilità di una “vita buona” per chi non crede. Ma qui c’è la svista grave. Ciò che Leone ha detto riguarda non anzitutto il mondo, ma la Chiesa, che vive della relazione profetica con il Figlio di Dio. Non per condannare chi non si adegua a Nicea o per squalificare chi non crede in Dio, ma per assumere tutta la professione di fede, senza limitazioni, al cuore della missione della Chiesa. Rispettiamo in modo convinto quello che possiamo chiamare l’ateismo politico, che è l’alfabeto istituzionale tardo-moderno, ossia lo stato non confessionale, ma non possiamo in nessun modo coltivare l’ateismo teologico, senza perdere la stessa ragione di esistenza di una chiesa.
Sarebbe davvero curioso che un papa dovesse compiacere una posizione come quella da te espressa, che nega di essere atea, ma che nega, allo stesso tempo, ogni determinazione categoriale del divino, se non come determinazione della sola coscienza. Parola e sacramento restano costitutive di un rapporto vitale con la storia. Su questo punto io penso che il liberalismo da te affermato con troppa sicurezza, fatichi a comprendere una buona parte della tradizione cattolica e cristiana dell’ultimo secolo, senza dover escludere che ogni apparizione della fede possa suonare, più o meno indirettamente, come una forma di inautenticità. Non è ateo chi non crede al dogma cristiano. E’ un ateismo di fatto se un cristiano contraddice la formula di fede della Chiesa cui appartiene. Nessuno condanna tutte le forme di “non ateismo” che le diverse religioni affermano, ma è necessario discutere accuratamente il rapporto tra il Dio oggetto della fede e le forme di vita e di rapporto con la coscienza che la fede stessa pone o impone. Tutti questi passaggi, che restano complessi, se vengono saltati con un balzo e ridotti alla “lotta contro l’ateismo”, si fa una critica a Leone XIV che però trova come bersaglio certo solo Leone XIII, un uomo di 130 anni fa. Questo è un modo di “vincere facile” che non può convincere: se schiacci un papa sul suo omonimo di 130 anni prima, non ne cavi un gran guadagno.
Per uscire da questo potenziale gorgo riduttivo vorrei che fosse chiara una cosa: il nuovo papa ha appena iniziato a parlare. Per evitare di pregiudicarlo, sarebbe utile a tutti contestualizzare bene ogni discorso e non sentenziare su idee poco comprese e su proposizioni valutate del tutto fuori contesto. Questo a me pare un consiglio che viene dalla semplice buona coscienza, che tutti possono valorizzare, senza dover fare un atto di fede, se non forse in un grado minimo di confronto diretto con le cose. Che è ciò che anche a te, se capisco bene, da sempre sta a cuore.
complimenti e grazie per questa spiegazione
Ateismo davvero si dice – e si vive – in molti modi in questo cambiamento d’epoca, anche all’interno della comunità ecclesiale. Qui vorrei proporre la testimonianza personale e teologica di un modo ulteriore e diverso rispetto a quelli suggeriti da papa Leone, Vito Mancuso e Andrea Grillo, cogliendo le loro parole sul tema molto complesso dell’ateismo come invito a un utile confronto teologico, rispettoso delle persone e intenzionalmente ecclesiale, ma anche intellettualmente critico e evangelicamente libero e schietto.
Questo modo ulteriore e diverso di dire e di vivere l’ateismo – o meglio il non-teismo come preferirei chiamarlo qui, per evitare la tonalità per lo più anti-cristiana di cui il termine si è storicamente caricato – è quello che trovo, personalmente e per il momento, più convincente sul piano teorico-teologico e del mio personale vissuto credente ed ecclesiale.
Semplificando (spero non troppo) per non dilungarmi eccessivamente, una teologia non-teistica, come vorrei intenderla qui, ritiene convincenti sul piano teorico-filosofico le argomentazioni atee sulla non-esistenza di un Dio inteso in senso teistico (come forse lo intendono papa Leone e Andrea Grillo) o post-teistico/pan-en-teistico (come forse lo intende Vito Mancuso).
Nello stesso tempo questa teologia non-teistica riconosce – con un coinvolgimento esistentivo e non solo intellettuale – la più alta autorità sul piano del valore (spirituale ed etico, simbolico e rituale, religioso e sociale, intellettuale e filosofico, culturale e artistico) a quello straordinario nucleo pulsante di vita, verità, bontà e bellezza che troviamo concentrato nel messaggio evangelico, nucleo pulsante che nella storia degli ultimi duemila anni i cristiani e le Chiese hanno cercato di vivere e trasmettere nelle loro plurali, diverse e talora contraddittorie forme e modalità.
Al momento (pur avendo condotto, mi pare, in scienza e coscienza una ricerca onesta e approfondita secondo le mie possibilità) trovo convincenti entrambe queste che sembrano essere affermazioni tra loro in contraddizione insanabile. Per questa ragione una teologia non-teistica rappresenta per me la strada percorribile per provare a mantenerle in una tensione feconda, indagandone una possibile composizione, nella consapevolezza che oggi ci troviamo in un mondo ben diverso da quello della breve stagione, negli anni 60 del secolo scorso, della cosiddetta “teologia della morte di Dio”, esperienza da cui, infatti, una teologia non-teistica deve differenziarsi.
Sul piano epistemologico, la paradossale possibilità dell’ossimoro che sembrerebbe essere “una teologia non-teistica”, mi pare trovare una sorta di legittimazione teorica nella definizione ermeneutica e critica di teologia proposta dal teologo cattolico David Tracy, definizione che, non contenendo né richiedendo necessariamente riferimenti teistici, mantiene una propria sensatezza e adeguatezza anche nella sua eventuale declinazione non-teistica: la teologia è «il tentativo di stabilire delle correlazioni reciprocamente critiche tra una interpretazione della tradizione cristiana e una interpretazione della situazione contemporanea» (i riferimenti della citazione si possono trovare in uno dei commenti all’articolo di http://www.settimananews.it pubblicato in occasione alla recente scomparsa di David Tracy).
Per una teologia non-teistica (ma forse non solo per lei), un requisito indispensabile deve rimanere quello di un’umile disponibilità a riconoscere la propria fallibilità e il proprio eventuale errore, attraverso il proprio impegno nel cercare e cogliere il vero e il buono ovunque si trovino, prevedendo quindi anche la possibilità di convertirsi in una teologia teistica o di altro tipo, qualora nuove argomentazioni (o argomentazioni antiche colte in modo nuovo) lo suggeriscano o lo richiedano. Quando Tommaso d’Aquino nella Summa Teologica (II-II, q. 1, a. 2, ad 2) ricorda che l’atto del credente è fondamentalmente orientato alla realtà e non all’enunciazione che ne possiamo formulare, invita a riconoscere e rispettare la distanza che le nostre teorie teologiche (teistiche, post-teistiche/pan-en-teistiche o non-teistiche) mantengono nei confronti della realtà verso la quale pure vorrebbero essere rivolte.
Riguardo poi alla possibilità che un convinto non-teista possa essere ritenuto da un credente teista una persona sostanzialmente e autenticamente cristiana – e cioè con un’esistenza vissuta che si trova in quella relazione reale con la figura del Gesù neotestamentario che viene chiamata discepolato – addirittura nel caso in cui non ne sia espressamente consapevole, ebbene questo è ciò che il teologo cattolico Karl Rahner, con la sua teoria dei cosiddetti “cristiani anonimi”, sosteneva già negli anni sessanta del secolo scorso. A maggior ragione non andrebbe esclusa la possibilità di considerare sostanzialmente e autenticamente cristiana la condizione di chi, essendo arrivato in coscienza a convinzioni non-teistiche, intendesse consapevolmente come centrale e costitutivo della personale identità il proprio essere cristiano, chiedendo di viverlo come discepolato all’interno della comunità ecclesiale dei credenti.
Anche l’accusa di eresia (con relativa condanna e scomunica) che qualcuno potrebbe essere tentato di formulare nei confronti di una teologia non-teistica, dovrebbe forse confrontarsi con la definizione di eretico proposta dal gesuita Michel de Certeau: «Inteso alla lettera, l’eretico non è colui che “sceglie” (infatti, poiché la fede è vissuta e implica un impegno, essa attesta una scelta, essa è particolare), ma è piuttosto colui che proibisce altri riferimenti, che ferma la verità a Paolo, escludendo Giacomo, che considera un residuo insignificante ogni altra autorità che non sia la sua». (Michel De Certeau, Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Città Aperta Edizioni, Troina (EN) 2006 (orig. Francese del 1987) p. 113.
Nella Chiesa, invece, davanti all’eventuale errore dell’altro (errore che spesso l’altro non è in condizione di riconoscere come errore, come ricorda Gaudium et Spes 16 richiamando al rispetto della coscienza altrui anche quando invincibilmente erronea), nell’attesa e speranza del suo allontanamento dall’errore e avvicinamento alla verità, anziché la condanna, la scomunica e l’esclusione-espulsione, sembrerebbe più corrispondente al messaggio evangelico, testimoniato nella figura di Gesù, il “sopportare l’errore dell’altro” (uno tra i possibili approcci al problema ecumenico, approccio al quale Alberto Melloni nel suo articolo del 2021 Per una storia del desiderio cristiano di unità accenna di sfuggita senza approfondirlo).
Detto questo, il compito programmatico di una teologia non-teistica diventerebbe quindi – come suggerisce la definizione di Tracy – quello, duplice, di tentare, a partire da una interpretazione non-teistica della situazione contemporanea, di stabilire una relazione critica con la tradizione cristiana che si cerca di interpretare e, reciprocamente, di tentare, a partire da una interpretazione non-teistica della tradizione cristiana, di stabilire una relazione critica con una situazione contemporanea che si cerca di interpretare.
Diversamente dall’ateo novecentesco Ernst Bloch, che all’inizio del suo volume del 1968 “Ateismo nel cristianesimo” scriveva: “solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo”, a me pare piuttosto che anche un non-teista possa essere un buon cristiano e che anche un cristiano possa essere un buon non-teista, addirittura all’interno della medesima comunità ecclesiale in cui convivono e camminano insieme teisti, post-teisti/pan-en-teisti e non-teisti, sopportando reciprocamente, con amore paziente e fraterno, quello che ritengono essere l’errore che l’altro compie in buona fede. Così, nell’anno del giubileo con il quale papa Francesco ha voluto avviarci ad essere pellegrini di speranza e nel quale stiamo imparando a camminare insieme a papa Leone, anche l’ateo Ernst Bloch di “Spirito dell’utopia” e del “Principio speranza” (significativamente scritti durante le due guerre mondiali del Novecento) potrebbe suggerire alla teologia e alla Chiesa qualcosa di prezioso. Potrebbe invitare a riconoscere come, nascosto anche nel presente dei tempi più difficili, il non-ancora-compreso e il non-ancora-manifestato di un futuro migliore possa trovarsi nella speranza utopica contenuta nel messaggio cristiano e offerta dalla Chiesa in un cristianesimo radicalmente ecumenico, nel quale tutti, tutti, tutti possano essere accolti e dal quale nessuno venga scacciato.