Cultura civile e teologia (/5): la libertà della scienza e la teologia (S. Biancu /2)


Univerità

Dopo la pubblicazione della prima parte, ecco la seconda parte dello studio di Stefano Biancu dedicato al rapporto tra scienza e teologia, e in particolare alla relazione “di autorità” con l’oggetto della ricerca universitaria. Ricordo che in originale il testo era apparso con il titolo S. Biancu, Non ideologia, scienza: riflessioni sull’autorità nella Chiesa e sulla libertà della ricerca teologica, «il Regno/Attualità», 20/2010, 703-706.

 

L’autorità dell’oggetto e la teologia come scienza (all’università) (/2)

3. L’autorità dell’oggetto

Lo si è visto: sebbene la teologia sappia molto bene che la sua (in-evidente) speranza è preziosissima per l’evidenza stessa dello spazio pubblico comune, essa non può non riconoscere di essere nelle condizioni di onorare il proprio compito fondamentale anche fuori dall’università (sebbene certo non senza perdite, per se stessa e per l’università).

Ma la teologia può avere oggi anche un altro compito: quello di offrirsi come modello di una scienza che sappia prendere sul serio l’autorità del proprio oggetto. Come ha scritto Georges Chantraine, alla questione «en quoi la théologie est-elle ‘scientifique’?», occorre infatti rispondere che «comme toute science, elle l’est en ce que sa connaissance est déterminée par son Objet».1

In questo senso, con Barth, ci si potrebbe paradossalmente (e provocatoriamente) domandare: «l’oggetto della teologia non dovrebbe forse essere l’archetipo e il modello dell’originarietà e dell’autorità degli oggetti di cui si occupano le altre scienze; e il primato che in teologia gode la ratio di quell’oggetto rispetto alla ratio della conoscenza umana di esso non dovrebbe essere l’archetipo e il modello del modo di pensare e di parlare delle altre scienze?».2 È infatti proprio questo suo particolare rapporto con l’oggetto che, secondo Barth, rende la teologia «una scienza libera, nel senso che lascia libero il proprio oggetto e, lasciandolo libero, ne è sua volta resa sempre di nuovo libera nel suo rapporto con quei presupposti subordinati».3 Da questo punto di vista – prosegue Barth – essa «è una scienza eminentemente critica, vale a dire costantemente soggetta alla crisi cui la sottopone il suo oggetto e dalla quale non verrà mai esonerata».4

Nel rapporto – estremamente legato ed estremamente libero – che essa intrattiene con il suo oggetto, la teologia non solo dunque non costituisce una forma di eterodossia rispetto agli altri saperi, ma può paradossalmente proporsi come modello di scientificità, nella misura in cui l’interrogazione che essa conduce sul suo o/Oggetto è determinata dall’o/Oggetto stesso.

Al primo dei due interrogativi iniziali – la questione se la teologia sia l’unico sapere non-libero – occorre dunque rispondere che non solo essa è in buona compagnia, nella misura in cui ogni sapere è necessariamente condizionato. Ma che pure essa può rappresentare un buon modello di sapere che si lasci determinare dal proprio oggetto. Sebbene dunque la presenza all’università non rappresenti per la teologia un assoluto, occorre però riconoscere che nessuna seria obiezione di carattere epistemologico si frapporrebbe ad un suo eventuale ingresso (o ad una sua permanenza) nello «spazio pubblico» del sapere.

4. L’autorità nella Chiesa e la libertà della teologia

È ora dunque possibile passare al secondo interrogativo, quello riguardante l’attitudine ecclesiale nei confronti della teologia. È chiaro che la questione intorno al luogo proprio della teologia – la chiesa o l’università? – non può diventare decisiva a riguardo della sua scientificità, la quale anzi «costituisce la modalità propria secondo la quale la teologia realizza la sua ecclesiasticità».5

Questa scientificità/ecclesiasticità della teologia non può però che avere ricadute sulla comprensione del ruolo stesso della Chiesa, che evidentemente non può essere il ruolo del guardiano armato, ma deve piuttosto essere il ruolo di una comunità che avverte l’esigenza di una sempre maggiore appropriazione (critica e consapevole) dei presupposti che la tengono in vita. E questo anche per garantire a se stessa una fedeltà piena a quei presupposti. Questa necessaria dialettica di pensiero critico e di tradizione-sempre-in atto, è stata espressa da Maurice Blondel in termini magistrali:«Il potere che le è affidato [alla Chiesa] e che essa, per la sua lunga fedeltà, per le sue stesse prove, ha sempre meritato, non è quello di un guardiano di museo o di archivi, di un giannizero del serraglio; essa ha la dignità e l’autorità della sposa; viva conjux, dimidium Christi vivi. Senza dubbio le sue prove intrinseche [quelle cioè che provengono dalla sua tradizione vivente] non la dispensano dalle altre [quelle proprie del sapere teologico], ma servono a regolarne l’uso».6 In questo senso, l’esperienza viva del rapporto con il Fondamento, che la Chiesa custodisce e rinnova quotidianamente, non la dispensa dal ritornare su questo rapporto «criticamente»: semmai le impone di conformare ogni possibile approfondimento critico alle regole e alle condizioni stesse di quella esperienza (al suo oggetto appunto). Per questo motivo, anche quando il luogo della teologia sia l’università, il luogo di radicamento del teologo non può comunque che essere la Chiesa. Se così non fosse (o quando questo non accade), ha scritto Georges A. Lindbeck, il risultato non è «necessariamente disastroso per la prospettiva a lungo termine della religione», «ma lo è per la teologia intesa come impresa intellettualmente e accademicamente creativa capace di apportare contributi significativi alla cultura e alla società in senso lato».7

L’impresa teologica rimane dunque accademicamente significativa nella misura in cui è radicata in una tradizione ecclesiale in atto. Ma essa è ecclesialmente significativa nella misura in cui rimane fedele alla sua vocazione di sapere critico tra saperi critici: un sapere ricco di presupposti, con la passione per l’incondizionato.

Al secondo interrogativo si può dunque rispondere che la Chiesa non può non considerare la teologia come un’impresa che le appartiene essenzialmente quanto ai suoi presupposti: se così non fosse ne avrebbe danno non solo lo spazio «intimo» della Chiesa, ma pure lo spazio «pubblico» dell’università. Ma, al contempo, la Chiesa non può non appoggiare la teologia nel suo sforzo di coltivare quella passione radicale per l’incondizionato che è propria dell’università: l’unica che possa garantirle di non degenerare nell’ideologia. E, dunque, di tradire se stessa e il proprio oggetto.

Stefano Biancu

1G. Chantraine, Vraie et fausse liberté du théologien, Desclée de Brouwer, Paris – Bruxelles 1969, p. 82.

2K. Barth, Einführung in die evangelische Theologie, p. 124; tr.it. p. 154.

3Ivi, p. 15, tr.it. p. 60.

4Ivi, p. 16; tr.it. p. 61.

5A. Bertuletti, La legittimazione della teologia, in: G. Colombo (ed.), Il teologo, Glossa, Milano 1989, p. 164-200: 195.

6M. Blondel, Histoire et dogme : les lacunes philosophiques de l’exégèse moderne (1904), in Œuvres complètes, a cura di C. Troisfontaines, Puf, Paris 1997, vol. II, pp. 387-453: 446; ed.it. a cura di G. Forni, Storia e dogma. Le lacune filosofiche dell’esegesi moderna, Queriniana, Brescia 1992, p. 127.

7G.A. Lindbeck, The Nature of Doctrine. Religion and Theology in a Postliberal Age,Westminster John Knox Press, Louisville, Kentucky 1984, p. 124; ed.it. a cura di G. Campoccia e C. Versino, La natura della dottrina. Religione e teologia in un’epoca postliberale, Claudiana, Torino 2004, pp. 151-152.

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