Cultura civile e teologia (/4): La libertà della scienza e la teologia (S. Biancu /1)
Nel suo intervento del 2 luglio su questo blog, S. Biancu rimandava ad un suo articolo del 2010, comparso sul Regno: S. Biancu, Non ideologia, scienza: riflessioni sull’autorità nella Chiesa e sulla libertà della ricerca teologica, «il Regno/Attualità», 20/2010, pp. 703-706.
Ad un rilettura il testo appare di grande interesse e per questo ho deciso di riproporlo suddividendolo in due parti. La prima, che presento qui di seguito, e una seconda, che uscirà domani. Avranno il titolo originale che l’autore aveva pensato per il testo e che la Redazione del Regno aveva a suo tempo modificato. Ecco dunque la prima parte del testo:
L’autorità dell’oggetto e la teologia come scienza (all’università) (/1)
(di S. Biancu)
In queste pagine vorrei leggere la questione dell’autorità (e della libertà) nella Chiesa da una prospettiva particolare e, apparentemente, un po’ decentrata: a partire cioè dalla questione della legittimità della presenza della teologia all’università. Ovvero: la questione della legittimità della presenza del sapere (scientifico) della fede all’interno di quello che è oggi lo «spazio pubblico» del sapere (scientifico): la questione, dunque, della teologia come scienza critica accanto ad altre scienze critiche.
Perché dunque questo problema avrebbe a che vedere con la questione dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa? Perché – evidentemente – se la teologia ambisce ad essere un sapere critico tra altri saperi critici, la sua dipendenza da un’autorità ecclesiale (e, in ambito cattolico, magisteriale) non è irrilevante. Questa, perlomeno, è la tesi di coloro che – dal di fuori – ritengono che la teologia non sia una disciplina «universitaria», e non lo sia nella misura in cui appunto non è un sapere libero, ma sottomesso a delle autorità.
Rispetto a questa tesi (epocale) vorrei provare a porre due interrogativi. Il primo riguarda la «libertà» del sapere (di ogni sapere) e potrebbe essere così formulato: il fatto di non rappresentare un sapere totalmente libero, è una peculiarità della teologia? O non è piuttosto un carattere di ogni sapere? Il secondo interrogativo riguarda invece la natura dell’autorità alla quale la teologia è necessariamente sottomessa. Lo formulerei dunque così: quale attitudine deve avere la comunità cristiana nei confronti della teologia?
1. Due premesse
Mi pare che il primo interrogativo richieda la posizione di due premesse, una riguardante (soprattutto) l’università, l’altra riguardante (soprattutto) la teologia.
Ex parte universitatis, occorre domandarsi: l’università può rinunciare all’ideale di un sapere incondizionato? Può pensarsi altrimenti che come università «senza condizioni»?
Nel 1998, all’università di Standford, Jaques Derrida ha parlato, a questo proposito, della necessità di porsi radicalmente dalla prospettiva di una università «senza condizioni», intesa come «il luogo nel quale niente è al riparo dall’esser messo in questione, nemmeno la figura attuale e determinata della democrazia; e nemmeno l’idea tradizionale di critica, come critica teorica, e nemmeno l’autorità della forma ‘questione’, del pensiero come ‘messa in questione’».1
Propongo di considerare la posizione di Derrida come una prima, inaggirabile, premessa del nostro discorso: una premessa in forza della quale le forme storiche e contingenti dell’esercizio del pensiero critico non possono che essere, a loro volta, criticabili. Un pensiero critico il cui ideale regolatore sia la ricerca e la passione per l’incondizionato non può cioè che riconoscere condizionata l’idea stessa di critica che è divenuta tradizionale in Occidente: un’idea connessa alla possibilità di un sapere che sia radicalmente privo di presupposti. Qui un avvertimento di Theodor W. Adorno si rivela prezioso: «il pensiero che respinge più appassionatamente il proprio condizionamento per amore dell’incondizionato, cade tanto più inconsapevolmente, e quindi più fatalmente, in balia del mondo».2 Un pensiero critico che si pretenda radicalmente privo di presupposti (incondizionato, appunto) rischia dunque di diventare ideologico. La teologia, in quanto sapere ricco di presupposti, è insomma in ottima compagnia.
Ex parte theologiae, questa prima premessa non è però ancora sufficiente. Se infatti è vero che una autentica passione per l’incondizionato non può portare a dimenticare che ogni sapere è realmente sottoposto a condizione, è però anche vero che, per la teologia, la presenza (o la sopravvivenza) all’università non può rappresentare, a sua volta, un assoluto e un incondizionato. Propongo, a questo proposito, di trarre una seconda premessa dalle pagine di uno dei padri nobili della teologia del Novecento: Karl Barth. Con Barth occorre infatti ricordare che, seppure non possa essere semplicemente considerata «una questione trascurabile», la questione della teologia all’università deve in ogni caso rappresentare «una cura posterior»: vale a dire una questione rispetto alla quale «altre questioni sono ben più importanti».3
Alla luce di queste due premesse, si potrebbe dire che la questione della presenza della teologia all’università rappresenta una sfida per la credibilità di entrambe, nel presente e nel futuro. Se infatti l’università vorrà mantenere una sua credibilità, non potrà finalmente che riconoscere la condizionatezza di ciò che l’idea tradizionale di critica presuppone: il presupposto, vale a dire,della possibilità di una radicale assenza di presupposti.
D’altra parte se la teologia – in quanto sapere della fede (dove il genitivo è sia soggettivo che oggettivo) – vorrà essa stessa offrire una testimonianza credibile, non potrà legare in modo necessario la propria sopravvivenza alla permanenza all’università. Nonostante tutto, una teologia senza università e un’università senza teologia devono rimanere delle possibilità del tutto aperte.
2. La teologia e i suoi presupposti
Secondo Christian Duquoc, la nostra modernità tardiva si presenta nei modi di una «congiuntura inospitale» per la teologia e questo a causa di diversi fattori: una cultura dominante indifferente alla religione, una diffusa considerazione del “sapere” come alternativo alla poesia e al mondo del simbolo, una persistente egemonia della tecnica, una riduzione della politica a mera gestione, una diffusa presa d’atto circa la mancanza di finalità nella storia, una marginalizzazione del cristianesimo nella società, uno studio neutro delle Scritture, una simpatia accordata al pluralismo religioso, una diffusa paura all’interno delle gerarchie ecclesiastiche.4
Ma ciò che più di tutto deciderebbe lo stato di esilio della teologia sarebbe la sua dipendenza incondizionata dall’autorità di una Scrittura o di una Chiesa. Una dipendenza oggi ritenuta inaccettabile: «inquietante perché prossima all’intolleranza».5
Ricordando – come piccolo correttivo alla posizione di Duquoc – che ogni epoca ha la sua parte di inospitalità per la teologia (e che ci furono dibattiti molto «moderni» a questo proposito già nell’antichità), trovo in ogni caso emblematico e comunque rappresentativo della nostra koiné culturale la posizione di Max Weber. Nel 1917, nella sua celebre conferenza sulla scienza come professione/vocazione, Weber aveva in effetti sostenuto che nessuna scienza è completamente priva di presupposti e nessuna può motivare il proprio valore a colui che rifiuti i suoi presupposti. Ma aveva anche aggiunto che, rispetto ad altre scienze, la teologia è portatrice di qualche presupposto in più, specificamente suo. E questo principalmente per quanto riguarda il suo lavoro e la giustificazione della sua esistenza: il presupposto, cioè, che il mondo deve avere un senso (presupposto, peraltro, comune alla filosofia della religione); il presupposto che si debba credere a certe ‘rivelazioni’ che sono importanti; il presupposto per cui certi stati ed attività possiedono il carattere della santità. Secondo Weber, fondandosi su presupposti che appartengono a una sfera che si situa al di là della ‘scienza’, la teologia si configurerebbe dunque propriamente non come un ‘sapere’ nel senso abituale del termine, ma piuttosto come un ‘avere’.6
Ora, se è vero che buona parte dei presupposti propri alla teologia appartengono a una sfera che si situa «al di là dei limiti della scienza», il problema è però di verificare se questa condizione sia davvero propria, in maniera esclusiva, della teologia. È infatti evidente che ogni presupposto – proprio in quanto è pre-supposto – non può che collocarsi al di fuori dei limiti di ciò che lo pre-suppone.
Su questo il XX secolo ha lavorato moltissimo e non è quindi il caso di dilungarsi. Si pensi alla cosiddetta svolta linguistica da Wittgenstein in avanti: al riconoscimento del ruolo giocato dal linguaggio – al ruolo del presupposto-linguaggio – nella formazione del pensiero. Si pensi, conseguentemente, alla riabilitazione di nozioni quali “tradizione”, “autorità”, “pregiudizio” inaugurata da Gadamer. Ma si pensi anche alla tematizzazione del corpo come condizione essenziale della nostra soggettività e, in particolare, alle ricerche fenomenologiche di Husserl e, soprattutto, di Merleau-Ponty. Si pensi infine alla riscoperta dell’alterità e delle dinamiche del riconoscimento quali condizioni del nostro accesso a noi stessi e agli altri, riscoperta che ha occupato tanta parte della filosofia del Novecento (Habermas, Mead, Taylor, Honneth, oltre che gli esponenti del cosiddetto pensiero dialogico: Cohen, Rosenzweig, Buber, Lévinas…).
Si tratta di passaggi epocali rispetto ad una modernità che ha istituito l’autorità della ragione sulla base del presupposto della inessenzialità di qualsiasi mediazione tra spirito e realtà, tra interiorità ed esteriorità: sulla base di una distinzione netta tra ciò che è soltanto pensiero (res cogitans) e ciò che è soltanto estensione e quantità (res extensa). Sul presupposto dunque della inessenzialità di qualsiasi presupposto. Secondo il paradigma classico della modernità, né il corpo, né il linguaggio avrebbero infatti alcun ruolo nella nostra capacità di accedere alla realtà di noi stessi, degli altri, delle cose. Di conseguenza nessun ruolo giocherebbero le tradizioni e i sistemi simbolico-culturali che essi veicolano (e dei quali i sistemi linguistici rappresentano in qualche modo il paradigma).
Su questo non è possibile dilungarsi oltre: quanto detto dovrebbe essere però sufficiente a indicare alcune (buone) ragioni per dubitare di ogni pretesa di incondizionatezza del sapere.
Una questione deve tuttavia ancora essere affrontata. Essa riguarda il fatto che ciò che appare problematico, in rapporto alla teologia, sembra essere il suo particolare oggetto di studio. Ciò che però vorrei mostrare è che – proprio nello specifico rapporto che la teologia intrattiene con il suo oggetto – potrebbe paradossalmente stare la sua forza. (fine prima parte: segue)
1J. Derrida, L’Université sans condition, Editions Galilée, Paris 2001, p. 16; tr.it. di G. Berto in: J. Derrida – P.A. Rovatti, L’università senza condizione, Cortina, Milano 2002, p. 13.
2Cfr. T.W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben (1951), § 153, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1980 (=Gesammelte Schriften, 4), p. 281.
3K. Barth, Einführung in die evangelische Theologie, EVZ-Verlag, Zürich 1962, p. 24;ed. it a cura di G. Bof, Introduzione alla teologia evangelica. Con un’appendice autobiografica sui rapporti Barth-Schleiermacher, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990, p. 68.
4C. Duquoc, La théologie en exil : le défi de sa survie dans la culture contemporaine, Bayard, Paris 2002, p. 16 (tr.it. di P. Crespi, La teologia in esilio. La sfida della sua sopravvivenza nella cultura contemporanea, Queriniana, Brescia 2004).
5Ivi, p. 8.
6Cfr. M. Weber, Wissenschaft als Beruf (1917), in: Studienausgabe der Max Weber-Gesamtausgabe, vol. 17, Mohr, Tübingen 1994, pp. 1-24: 21-22; ed.it. a cura di P.L. Di Giorgi, in M. Weber, Scienza come vocazione e altri testi di etica e scienza sociale, Angeli, Milano 1996, pp. 41-83: 70-71.