Che cosa avrebbe detto Padre Silvano? A proposito di un infortunio episcopale “de eucharistia”
Di fronte al testo apparso sul sito della Conferenza Episcopale Umbra (CEU), intitolato “Alla pandemia del Coronavirus sostituiamo la pandemia della preghiera e della tenerezza” (già il titolo suona un po’ troppo retorico…) mi sono chiesto: che cosa avrebbe detto Silvano Maggiani, con la sua saggezza, di fronte a un testo tanto disastroso? Sono convinto che avrebbe sorriso e poi avrebbe iniziato a smontare, punto per punto, la paginetta che campeggia sotto la immagine dei vescovi radunati in assemblea. Ecco più o meno quello che sarebbe stato il suo discorso al Monsignore che ha steso il documento. I contenuti sono i suoi, anche se lo stile, inevitabilmente, è il mio.
SENZA TENEREZZA E SENZA TEOLOGIA
Caro Mons. XXX,
Nel testo della CEU avete infilato almeno tre grandi svarioni teologici, di una gravità e insieme di una ingenuità davvero sconsolante. Chi ha scritto il testo sembra che abbia sommariamente dato una sbirciata al catechismo, leggendo una riga e saltandone tre, e poi abbia maturato le convinzioni stravolte che prendono forma in questo discorso. Ti propongo di prendere in ordine le tre frasi più gravi. Vedrai quanto è facile smontarle secondo la teologia più classica:
a) ” 1. La riforma del Concilio Vaticano II auspica che «i fedeli prendano parte alla celebrazione consapevolmente, attivamente e fruttuosamente» (SC 11), e raccomanda ai battezzati la comunione al sacrificio eucaristico – alle condizioni richieste – come partecipazione più perfetta al sacrificio stesso (cf SC 55). Le indicazioni conciliari non significano tuttavia che la validità della celebrazione eucaristica dipenda o sia condizionata dalla presenza del popolo. La “materia” imprescindibile della Messa sono il pane e il vino, così come la “forma” è data dall’atto celebrativo presieduto dal sacerdote. Quando un presbitero celebra l’Eucaristia «con l’intenzione di fare ciò che vuole fare la Chiesa», quella Messa attualizza oggettivamente il mistero pasquale di Cristo. È dottrina di fede infatti che nella memoria eucaristica «è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offerse una volta in modo cruento sull’altare della croce… Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi» (DS 1743). Oltretutto, se la “materia” fosse l’assemblea si dovrebbe pensare paradossalmente ad una sua trasformazione o addirittura ad una sua “transustanziazione”, concetto del tutto estraneo alla tradizione cattolica e alla teologia dell’Eucaristia.”
Qui non si legge il Concilio, ma si proietta sul Vaticano II una versione ridotta e distorta della teologia scolastica. Si usano i concetti di materia e forma come nessuno scolastico ha mai fatto. Si cita il Concilio di Trento su un tema (il sacrificio) che non c’entra con l’argomento (partecipazione del popolo) e si finisce mostrando di ignorare gravemente ciò che tutta intera la tradizione ha sempre detto: ossia che l’effetto di grazia del sacramento è proprio la “comunione ecclesiale”. Il ridicolo riferimento alla transustanziazione, che non coglie nemmeno lontanamente che da Agostino, a Trento al Vaticano II, con linguaggi diversi, il vero “fine” della eucaristia non sta nell’effetto “intermedio” (presenza sotto le specie) ma nel dono di grazia della “comunione ecclesiale”. Agostino, Innocenzo III, Vaticano II, ma prima di tutte le Preghiere Eucaristiche di tutti i tempi, con linguaggi diversi, dicono anzitutto questo. Come fa un Vescovo, una Conferenza episcopale, a negarlo? Solo per giustificare le “celebrazioni senza popolo in condizione di pandemia”? Sarebbe questa la tenerezza?
b) Veniamo al secondo brano:
“2. L’assemblea partecipa alla celebrazione ma non è la protagonista costitutiva dell’atto sacramentale, come lo è invece il ministro ordinato, presbitero o vescovo. Egli stesso d’altronde non è ministro di se stesso, ma solo di Cristo e del suo corpo che è la Chiesa. La presidenza eucaristica infatti, come ha sempre insegnato il Magistero, è un agire “nella persona stessa di Cristo” (in persona Christi), tanto è vero che il ministro in quel momento non si esprime in terza persona, bensì in prima: «Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue». È chiaro che da un punto di vista pastorale la presenza del popolo è quanto mai auspicabile, così come è raccomandato «che i fedeli non assistano come estrani o muti spettatori e vi partecipino anzi consapevolmente, piamente e attivamente» (SC 48). Teologicamente, tuttavia, l’attuazione oggettiva della pasqua di Cristo nell’azione eucaristica della Chiesa non dipende dalla loro presenza. Una cosa è la validità oggettiva, altra la fecondità o la fruttuosità soggettiva. Il celebrante e l’assemblea dei fedeli svolgono un ruolo di rappresentanza visibile, ma il ministro originario dell’azione eucaristica è lo stesso Signore Gesù, eternamente glorificato presso il Padre, Lui che «possiede un sacerdozio che non tramonta» (Eb 7, 24; cf 7, 25-26; 8, 1-2; 9, 12. 24). Lo stesso vale per la presenza eucaristica di Cristo nei segni sacramentali del pane e del vino.”
I concetti che si impiegano in questo secondo paragrafo sono tutti presi, pari pari, da Mediator Dei. Oh, se Pius Parsch leggerà da lassù queste righe! Lui, che già nel 1947, con forza di profeta, aveva apertamente criticato il testo di Pio XII, perché aveva il concetto “vecchio” di partecipazione. Con queste categorie si resta alla divisione tra clero e popolo nell’atto di culto: oh, se Rosmini leggerà queste poche righe, quanto se ne addolorerà. Sono passati quasi 200 anni e i Vescovi non hanno ancora capito! Questa divisione tra “validità oggettiva” e “fruttuosità” è la degenerazione di categorie classiche, che oggi funziona come sordità alla logica del Vaticano II, che vuole tutti partecipare “per ritus et preces”. Una teologia che pensa l’attuazione del mistero “incondizionata” rispetto alla presenza del popolo non merita di essere chiamata teologia. Ed è una teologia che non riesce a giustificare la Riforma Liturgica, perché la grande riforma ha avuto nel superamento di queste ideucce clericali la sua vera ragion d’essere. Per favore, non si usi l’avverbio “teologicamente”, non si usi la locuzione “come ha sempre insegnato il Magistero” per coprire le proprie lacune. Il magistero ha insegnato, ma tu, Monsignore, non hai studiato e prendi fischi per fiaschi. Prima studia uno briciolo di buona teologia, e poi parla come cristiano. Se poi vuoi parlare con autorità, ma mostri di non conoscere la tradizione, la penitenza dovrà essere lunga, e dura. E non te la dovrai cavare con una “indulgenza plenaria”…
c) Ed ecco il terzo gioiello:
“La presenza del popolo di Dio non è accessoria e il sacerdozio battesimale è inseparabilmente unito a quello ministeriale (cf LG 10). La Messa però non dipende dal sacerdozio battesimale. I fedeli «compiono la propria parte nell’azione liturgica» (LG 11), ma non sono loro che attuano e rendono presente il gesto di Cristo che si offre al Padre ogni volta che, obbedendo al suo comando, il ministro – a nome della Chiesa e in persona Christi – fa memoria della sua pasqua. (A questo proposito, è quanto mai urgente una appropriata catechesi che educhi la comunità alla piena partecipazione all’azione eucaristica; sarà anzi indispensabile operare in questa linea appena si possa tornare alla normalità).”
Qui la logica è messa in discussione. Se la presenza del popolo “non è accessoria”, ma la messa “non dipende” dal sacerdozio battesimale, si crea un dissidio insuperabile, che nel linguaggio senza rigore dell’estensore non crea problemi. Ragioniamo: le macchine hanno accessori. Ad esempio gli alzacristalli elettrici. Ma la macchina, come tale, non dipende dall’accessorio. Tutto bene. Ma se diciamo che il freno non è un accessorio, come possiamo dire che la macchina non dipende dal freno? Lo vedi, Monsignore, che il tuo linguaggio retorico e vuoto diventa imbarazzante? Lo vedi che non hai detto niente di solido. O, meglio, hai detto solo che, nonostante il Concilio Vaticano II, tu vuoi ridurre il popolo ad un accessorio e pretendi di farlo dire all’intera tradizione, senza sapere quello che dice! Allora potremmo dire così, per farti capire. La macchina può avere accessori. Chi la guida è Cristo, il volante è colui che la presiede, ma senza acceleratore, senza freno e senza frizione, la macchina non si dà, non va, non c’è.
La ciliegina sulla torta però è questa: in una parentesi finale tu ti stracci le vesti per inventare una catechesi a tappeto, con cui educare la comunità alla partecipazione. Questa poi è la più grossa! Con quello che hai scritto, tu vorresti “educare”? Stai fermo. Non fare niente. Prima fatti educare tu dalla tradizione, impara che cosa è davvero partecipare, mettiti nella posizione di chi apprende. E’ proprio il colmo, ma è sempre così. Proprio tu, che dimostri di non sapere l’ABC della tradizione eucaristica, che dimostri di non capire la importanza della partecipazione, ti metti a pontificare sulla necessaria educazione del popolo: sai solo mescolare paternalismo clericale e clericalismo paternalistico. Credi di vedere e sei cieco.
Dovevo essere sincero. Questa non è tenerezza, è solo durezza e rigidità. Così non si può andare avanti. Sentir dire da vescovi queste bestialità sulla eucaristia è intollerabile. L’affare è serio.
Caro Grillo parole dure e precise per stimmatizzare una visione sacramentallista che rischia di ridurre l’assemblea a contorno di un gesto che di fatto è del prete. L’eucarestia non è una devozione personale ma un gesto comunitario in cui si realizza quel luogo in cui lui è presente: dove due o tre si riuniscono nel mio nome io sono in mezzo a loro. E l’eucarestia è il momento supremo in cui ci s riunisce nel suo nome e si compie quanto si vuole insieme significare.
Questa discussione può aiutare ad approfondire qualcosa che non può essere ridotto a contorno o ad accessorio. Perderemmo il corpo di Cristo che siete voi, dice Paolo.
Caro Pietro, le parole dure non sono le mie, ma quelle del documento, che sfigurano la tradizione. D’altra parte non sono stato io a parlare di “tenerezza”, ma questo testo infelice! Grazie
Vi ringrazio. Mi sento consolata come catechista e come donna che appartiene a questa precisa chiesa umbra. Mi sovviene, in queste settimane, la prassi dell’interdetto eucaristico che ci comminava il papa re in tempi che sembravano remoti. Ma quando leggo queste perle giustificative di una prassi autoreferenziale e clericale che non si cura del popolo di Dio, mi chiedo se finita questa emergenza tornerò o no a partecipare alla celebrazione (di cui normalmente subisco una mensa della Parola devastata da turpiloqui del sacerdote ministro e assisto ad una mensa di un Pane che non viene condiviso con tutti) di cui dovrei essere consapevole ma accessoria.. Magari era meglio tacere si e magari era meglio condividere il digiuno con il proprio popolo, come un catecumenato di ritorno, come accade in molte comunità del mondo di cui continuiamo a ignorare le sorti, sinodi o no.. Allora si che avremmo sperimentato un sacrificio di comunione.
…avrei un problemino a monte di eventuali svarioni teologici. Sta nel mero testo della preghiera eucaristica, che contiene – si dice – un RACCONTO dell’Istituzione. Nel quale, rivolgendosi al Padre, chi presiede CITA le parole di Gesù: “questo è il mio corpo”. Celebrando per qualche anno, i nostri vescovi se ne sono accorti? O pensavano di presentare ai fedeli davanti a sé il proprio corpo? E come mai, nel distribuire il pane eucaristico, l’annuncio diventa invece “è il corpo di Cristo!”? Ho il sospetto che il concetto di celebrare “in persona Christi” debba essere più sottile, non saprei.
Gentile prof.Grillo, lei dice: “Questa non è tenerezza, è solo durezza e rigidità.”
Per me, invece, è soprattutto ignoranza crassa. Nei passaggi da lei evidenziati ci sono, fra l’altro, delle contraddizioni evidenti.
Per esempio:“La presenza del popolo di Dio non è accessoria e il sacerdozio battesimale è inseparabilmente unito a quello ministeriale (cf LG 10).” Questa è una pietra miliare tra le indicazioni conciliari, e la locuzione- chiave è “inseparabilmente unito”.
Ma allora se il sacerdozio battesimale è unito strettamente a quello ministeriale, e se i fedeli non sono solo delle belle statuine, che senso ha l’auspicio che “i fedeli prendano parte alla celebrazione consapevolmente, attivamente e FRUTTUOSAMENTE” (SC 11), quando poi si asserisce che la validità oggettiva dell’atto celebrativo è indipendente dalla fecondità o fruttuosità prima auspicate da parte dei fedeli, sacerdoti in virtù del battesimo e INSEPARABILMENTE uniti al sacerdote celebrante? L’assemblea dei fedeli è importante sostanzialmente oppure no?
Obiettivamente c’è qualcosa che non quadra in questi discorsi contorti, che appaiono anche retrodatati.
Scusatemi per il mio cattivo italiano scritto. La vostra lingua e cosi bella. In 1887, Georges Clémenceau ha detto nell’assemblea nazionale francese, questa parola che trenta anni piu tardi ha permesso alla Francia di vincere la prima guerra mondiale : la guerra e una cosa troppo grave per lasciarla ai militari. Si puo anche dire che la Chiesa di Cristo e una affare di troppo imprtanza per lasciarla solo ai vescovi. Quelli che abbiamo attualmente nel mondo intero sono bravi ragazzi che si sono fatti ben vedere dei capi e chi sono stati scelti perche presentavano bene e sopratutto perche hanno dato ai Nunzi l’assicurazione totale che non farebbero mai onde. Dunque, quando ce uno tsunami, sono tutti annegati. Abbiamo bisogno di uomini veri e non di bravi seminaristi. Possiamo sperare che il Covid-19 faccia esplodere la Congregazione per i Vescovi, vale a dire il sistema di filtrazione dei buoni seminaristi. Possiamo mandare quelli che sono in posto a contare il numero dei ceri sull’altare perche la celebrazione nel Vetus Ordo sia valida. E prendiamo i “cattivi” seminaristi per aiutarci a salvarci. Qualcuno trovera che sono duro. Avra ragione. Ma non potra dire che non vedo giusto. Forse troppo.
Vita di fede: la situazione è occasione di crescita, solo se vuoi crescere.
(celebro perché sono, o sono perché celebro?)
Testo un po’ “da addetti ai lavori”, ma grazie, vale la pena fermarsi un po’ a leggerlo se si ha voglia di capire cosa succede nella Chiesa in questo tempo…
Il fatto che “la situazione è occasione” di crescita anche spirituale e cristiana lo stiamo vivendo in tanti, laici, tanti religiosi e sicuramente il Papa. Con fatica, è evidente, ma provandoci.
Ogni giorno: offrendo e soffrendo.
Alcuni altri sono invece ancorati alla visione che si sono costruiti negli anni (ma nemmeno troppi, alcuni sono giovincelli) della prassi religiosa -santissima sì, ma anche comoda e rassicurante- e quindi oggi si sentono spaesati, senza “nulla da fare”, addirittura in affanno sul Senso, e si aggrappano a qualcosa che hanno letto, ma forse mai vissuto negli ultimi 60anni.
Oltre che di alcuni fedeli, si tratta ahimè di vari vescovi e preti, per i quali sembra valere il “sono cristiano perché celebro” e non piuttosto il “celebro perché sono cristiano”. Non tantissimi, ma purtroppo nemmeno pochi.
Credo davvero che questa crisi possa e debba essere per noi purificatrice di tante abitudini svuotate di senso, non perché le spazziamo via, ma piuttosto perché chiediamo allo Spirito di tornare a riempirle del Suo senso e della Sua creatività.
Gentile prof.,
ad un credente laico la questione suscita almeno due sentimenti: desolazione e irritazione, chiamiamola così.
Anche da queste parti su tali argomenti non si scherza, con tanto di incoraggiamento alla messa privata.
Per quanto possa comprendere tecnicamente chi fa un altro mestiere, non si può che condividere i contenuti delle sue parole e apprezzare la loro ruvidità, in risposta a quella del testo.
Tuttavia resta un dubbio, che, in modo riduttivo, potrebbe essere reso così: si ragiona giustamente dell’offerta, ma c’è una domanda, per così dire, efficace? Questo cosiddetto popolo, chiamato alla libertà nell’attiva partecipazione e azione eucaristica, quanto effettivamente vuole assumersi questo onere? E quanto vuole che la fatica della condivisione di pane e vino inizi dalla messa e prosegua oltre?
C’è sempre di fronte la terribile accusa che il Grande Inquisitore rivolge a Gesù, ritornato a Siviglia: non sei tu che hai amato quest’uomo, che è vile e ribelle, perché gli hai chiesto ciò che sembra non possa dare, ma noi, perché sappiamo che egli non vuole tanto la sua libertà quanto… il mistero, il miracolo e l’autorità.
Ognuno recuperi la propria libertà e responsabilità di laico, costruisca una domanda efficace e, forse, anche le messe «senza il popolo» o quelle consumate privatamente passeranno.