Antropologia e bioetica “crocifisse”: ancora sul libro “La comunione che viene” (/4)


Comunionecheviene

Secondo gli autori di “La comunione che viene”, una antropologia “crocifissa” parte dalla “irriducibilità” dell’uomo, cosa che può essere espressa dal termine “persona”. A dispetto del termine “individuo”, persona conosce il primato della relazione sulla sostanza. “Il concetto di persona rifiuta ogni definizione dell’essere umano che lo sottometta a un potere.” (84) La difesa dell’essere umano dal “controllo del potere” richiede una definizione non funzionale dell’uomo. Di qui la presa di distanza formale da ogni liberalismo come “inizio autonomo”. Solo la dipendenza da Dio rende liberi. Ma la dipendenza da Dio non giustifica le dipendenze umane, dalla famiglia o dalla autorità. “Attribuendo la sua preferenza all’ordine invece che alla libertà, un certo conservatorismo tradisce il cristianesimo.” (85) D’altra parte il “mito della autofondazione” è anche responsabile di gravi ingiustizie. “Non è l’autonomia che bisogna inseguire, ma relazioni libere dal dominio e dall’oppressione.” (87). I richiami “alla natura umana” sono vani se non tematizzano che la natura dell’uomo è precisamente di non avere una natura fissa, ma di trovare se stesso nelle relazioni che cura e coltiva. Il richiamo alla natura è spesso un modo di sfuggire alla storia. “Difendere la famiglia patriarcale in nome della natura non è nient’altro che proiettare in un paradiso perduto e di fantasia una norma che riteniamo insuperabile.” (88)

L’orizzonte “di genere” viene oggi percepito come un disordine. Ma questa è una buona notizia. Come per l’uomo e la donna non si tratta di “aderire ad una natura”, a fortiori essi non hanno un modello di natura maschile o femminile: “la difesa degli stereotipi di genere non ha nulla di cristiano” (95). D’altra parte la costruzione sociale dei generi si basa su una differenza gerarchica, che oggi deve essere contestata: tra uomo e donna non vi è gerarchia. La teologia della “complementarità” spesso cade in questa trappola gerarchica. Tutta la sezione dedicata alla discussione della “teoria gender” è strutturata con lucidità e forza.

La parte dedicata a bioetica e famiglia è forse quella dove gli autori sono più reattivi rispetto alla loro identità di provenienza: “Possiamo tramutarci in campioni dell’embrione, della sua vita e dei suoi diritti mentre chiediamo la chiusura delle frontiere di fronte alle richieste di aiuto degli stranieri, di cui siamo in parte responsabili in quanto beneficiari dell’ingiusto ordine del mondo.” (107). Questo non impedisce, certo, una “fede nella famiglia”, ma con la consapevolezza del carattere “disfunzionale” dei figli e del carattere necessariamente politico del generare. Anche la “bioetica” è una domanda mal posta. Perché fatica ad identificare non le “responsabilità individuali”, ma i dispositivi politici che producono certi comportamenti. Vengono presentati tre “dispositivi” da decostruire (108-110). Il primo è il “mondo del lavoro”, nel quale si riduce l’essere umano alle sue prestazioni. Lo stesso vale per il “governo del mondo tramite logiche di calcolo”, mentre il terzo è la “famiglia”, come luogo di trasmissione e riproduzione del patriarcato. Ci sono “effetti distorti” di ciascuno di questo dispositivi. La bioetica fallisce se non riesce a desacralizzare questi dispositivi. Interessante è il fatto che gli autori, alla fine della parte dedicata alla bioetica, ritornino brevemente sulla esperienza di “opposizione” al governo, a causa delle “leggi sul matrimonio per tutti”. Qui la dialettica tra destra e sinistra, che pure è stata anche pesante, ha messo in luce logiche nuove, nuove forme di lotta politica e ripensamenti profondi delle identità. Questo sviluppo, per un movimento cattolico, appare un elemento di grande interesse e che può risultare fecondo.

Così può emergere una lettura della “famiglia” come principio di disordine (114ss): “ parlare di «famiglia cristiana» ha un senso, non lo ha nei termini di un ordine, ma di un disordine nelle tradizioni e nelle logiche di dominio” (115). Così anche l’interesse per la sessualità non è “ordinato”, ma “disordinato”: concepisce la condizione “ordinaria” di eunuco e perciò rilegge il “bonum prolis” in modo nuovo. Gli imperativi sociali della famiglia non sono, nel cristianesimo, così centrali, se non in rapporto ad altro: il primato non è del sangue e del focolare, ma della parola e dell’amore. Contro ogni ossessione per la morale sessuale.

Il rispetto per la tradizione passa per la possibilità, la volontà e la capacità di ripensarla in radice. Non per fare teologia con orgoglio, ma per rispondere alla vergogna di un pensiero che non è più all’altezza della fede che pure vorrebbe mediare. E che, perciò, fa passare per fede il pregiudizio e per tradizione il museo. Il coraggio di questo volume non è piccolo, insieme al rischio di giudizi secchi, a forme di pensiero molto veloce, talora avventato, e spesso fondato su una lettura dei testi biblici un po’ troppo ad effetto, scavalcando secoli di lenta mediazione. Se tutto questo è vero, cionondimeno la buona configurazione di una lettura “forte”, “cattolica” e “da parrocchiani” vale la fatica della lettura. Mi pare molto istruttivo che, alla fine, i “dispositivi” messi sotto osservazione siano il “lavoro”, il “governo” e la “famiglia”, proprio in quanto letti come dispositivi, ossia al di là e al di qua della “dottrina sociale” e della “bioetica”. Gli autori dicono: il superamento della dottrina sociale e della bioetica dipende dal riconoscere che “noi stessi” siamo parte del dispositivo, se non ce ne liberiamo con una analisi critica nuova ed urgente. Se al centro del mondo c’è un “trono vuoto”, la politica dei cattolici confina con una “antipolitica”, dedita in modo quasi certosino a disinnescare i “dispositivi” con cui il potere tarpa la libertà dell’essere umano. Perché il Signore “ha le vesti della regalità, ma senza la gloria del trono. Egli regna solo a distanza dal potere. E se il trono è vuoto è perché la presenza di Dio è altrove. Se ogni potere viene da Dio, i troni sono vuoti.” (121).

Per il lettore cattolico italiano questa estraneità della chiesa al potere può suonare sorprendente e può essere percepita addirittura come deviante e pericolosa. Ma è un giusto correttivo per mediazioni e identificazioni che in Italia diamo spesso per scontate, sacrificando ad esse non solo la autenticità della fede, ma anche la qualità della politica. E non è detto che non sia proprio questa “antipolitica”, di stile cattolico e senza concessioni populistiche, a salvare la politica da nuove servitù e la fede da antichi pregiudizi.

(Dalla Prefazione a “La comunione che viene”, Milano, Paoline, 2022)

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