A proposito di “Un dissidio sulla autorità” (di Giuseppe Villa)


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Una reazione di Don Giuseppe Villa al post sulla autorità, che ringrazio per la attenzione.

 A proposito di “Un dissidio sulla autorità”

di don Giuseppe Villa

La pandemia ha messo il mondo in una situazione che forse è di natura inedita. Non che non ci siano state altre pandemie prima di questa e con meno morti di questa. Quella più simile all’attuale è stata la Spagnola tra il 1918-1920, la quale ha richiesto restrizioni simili a quelle attuali, come la necessità delle mascherine, la chiusura delle chiese e l’impossibilità a celebrare i funerali. Allora in Italia morirono di Spagnola ben 400.000 persone circa. A ridosso della prima guerra mondiale, quel contagio fu assorbito internamente a quel dopoguerra.

Il fatto che questo virus si collochi negli organismi umani, trasmettendosi attraverso la loro natura relazionale, come per altro nelle precedenti pandemie, ma anche e soprattutto per il moltiplicarsi di quei contatti, grazie alla velocità in cui avvengono con gli strumenti tecnici attuali e grazie anche all’espansione della mobilità delle persone, delle cose e dei mezzi di trasporto, ci fa pensare che questa pandemia sia di natura appunto inedita, cioè propria di questi ultimi anni e della cultura attuale. D’altronde, ogni pandemia ha il suo contesto socio culturale.

Questo virus è un elemento biologico incosciente e senza volontà, che intercettando però il corpo umano ne può usufruire per trasmettersi attraverso le sue relazioni, oggi particolarmente efficienti grazie alla scienza e alla tecnica umana. Mi pare che qui si ponga il problema originario dell’autorità. Come è possibile che un essere del genere metta in crisi l’“homo sapiens”? Che senso ha “conoscere se stessi” se poi ti becchi un virus al “Tempio di Delfo”? E prima ancora si potrebbe ribaltare l’assioma delle origini: “perché il nulla e non l’essere?”

Questo virus pone domande radicali non solo alla coscienza personale, ma a tutto l’occidente, al valore concesso al pensiero, alla razionalità, ai costrutti che tengono in piedi le forme razionali del sapere come la scienza e la tecnica, “pensiero artificiale” compreso.

La polarità in cui si identifica Agamben, ossia contro l’autorità della scienza e della tecnica, riguarda in verità lo stadio successivo in cui continuano a operare oggi, limitando appunto le libertà personali. Mi pare che il suo sia un richiamo ad Heidegger nelle affermazioni più dirette contro la scienza e la tecnica di “Ormai solo un Dio ci può salvare”, famosa intervista del “Der Spiegel” del 1963.

Al di là di Heidegger mi sembra che in questo dibattito sia più opportuna la tesi della Assialità di K. Jaspers, il quale segnalava l’“epoca assiale”, come quell’epoca sorta anche con l’assioma delle origini, il principio unificatore, che dava un ordine e una razionalità al tutto. «L’asse di cui si parla» ‒ scrive Paolo Costa in “La sfida teorica dell’assialità” ‒ «è un asse di rotazione e l’immagine che la metafora dell’assialità vorrebbe evocare è il cambiamento più radicale della storia» (Academia): quella di mettere in questione il primato della scienza e della tecnica. La natura metaforica dell’assialità è però la sua debolezza, o meglio è una tesi «eccedente» ‒ scrive ancora Paolo Costa ‒, «nel senso che si colloca al di là di qualsiasi convalida o smentita puntuale». Ma è qui il punto, dove l’eccedenza della metafora dell’assialità, supportata ora dalla convalida di questa pandemia, provocata da quell’elemento biologico incosciente e senza volontà: trova qui la ragione di girare l’asse oltre quell’assioma delle origini, e quelle sue versioni moderne della ragion sufficiente.

Come girare l’asse allora, senza cadere nell’individualismo di parte? Forse è sufficiente guardare il rovescio della medaglia.

Non solo è sbagliato, ad esempio, affermare oggi che con un tasso di diffusione R 0.5 per essere contagiato debba essere avvicinato contemporaneamente da due persone già contagiate. Chi l’afferma non si accorge che c’è anche il rovescio che non si vede: ecco, forse è sufficiente guardare il rovescio di quel R 0.5, ossia il fatto che quel tasso di diffusione del contagio è il risultato di un popolo che si è dedicato a una disciplina grazie alla quale ha limitato temporaneamente la propria libertà, ha rinunciato temporaneamente alla propria mobilità. Il peggio è non riconoscere che quella disciplina di popolo ci salva dal contagio.

Il peggio è non riconoscere che quel che sono lo scopriamo “con” gli altri, grazie agli altri. Le relazioni con gli altri ci sono indispensabili per sapere chi sono. Non c’è virus che tenga, in questa gara mortale a chi sia più astuto: se per lui è una gara alla sopravvivenza e per quelli tra noi che ritengono che l’io si salva come “superuomo” o “piccolo uomo” che annega in uno specchio d’acqua. Non c’è virus che tenga per chi riconosce che passare dall’io al noi ci salva la vita. Può essere questo un segno del Risorto che passa, precedendo la nostra immaginazione e pensiero?

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