Una via nuova e vivente


Ascensione – C

At 1,1-11; Eb 9,24-28;10,19-23; Lc 24,46-53

Introduzione

Nel mistero dell’Ascensione, che la Chiesa celebra quaranta giorni dopo la domenica di Pasqua, siamo chiamati a vivere un’altra realtà che fa parte integrante del mistero pasquale. Il mistero della risurrezione di Gesù, che in questo tempo abbiamo celebrato nei suoi vari aspetti, come abbiamo visto nelle varie domeniche, non è un fatto che riguarda unicamente il tempo di Pasqua, ma lo celebriamo in questo tempo liturgico perché diventi realmente la nota di fondo di tutta la nostra vita di discepoli del Signore. Ogni aspetto del mistero pasquale che abbiamo potuto gustare e vivere nel Tempo di Pasqua è un frutto della risurrezione di Gesù da saper discernere in tutta la nostra vita, ed è per noi nello stesso tempo dono e impegno.

Se questo è vero per ogni tappa del Tempo pasquale, la solennità dell’Ascensione ci spinge ancor più a riflettere su questo tema: la Pasqua, la vita del Risorto nel tempo della sua assenza! Sì, della sua assenza, perché un concetto troppo immediato di “presenza” ci può portare a non cogliere la “serietà” del nostro tempo e la novità della Sua presenza nell’assenza, facendo venir meno la nostra attesa e la nostra tensione verso l’incontro con il Signore dell’universo che ci attende all’orizzonte della storia dell’umanità, ciò che celebreremo al termine del Tempo ordinario.

In alcune chiese in modo significativo troviamo dipinta nella contro-facciata l’Ascensione del Signore, e nel catino dell’abside, cioè al fondo della chiesa, la sua venuta ultima, la parousia. Così l’assemblea liturgica che si raduna in quello spazio sa di vivere nel tempo che sta tra questi due eventi (cfr. Eb 9,28).

Nella liturgia della Festa dell’Ascensione dell’anno C, oltre ai due testi di Atti e del Vangelo di Luca (I lettura e vangelo) che narrano l’evento stesso che è al centro della celebrazione liturgica, troviamo un testo tratto dalla Epistola agli Ebrei che è molto utile per farci cogliere il senso della celebrazione dell’Ascensione per noi oggi.

Riflessione

Il testo della seconda lettura si divide chiaramente in due parti: il lezionario liturgico volutamente ha accostato due brani tratti da due parti differenti della Epistola agli Ebrei. Può sembrare una violenza fatta al testo, ma in realtà questo “taglia-incolla” operato dal lezionario ci è molto utile, e non sembra neppure essere così lontano dall’intento dell’autore della Epistola agli Ebrei.

Tra annuncio ed esortazione

In cosa consiste l’utilità? Se noi leggiamo i versetti della prima parte tratta dal cap. 9 (Eb 9,24-28) – siamo nell’ultimo paragrafo della sezione centrale dell’Epistola agli Ebrei – vediamo subito che essi hanno un tenore “dottrinale”, cioè vogliono trasmettere ai destinatari di questo scritto del Nuovo Testamento un “insegnamento” circa la fede. In particolare, l’Epistola agli Ebrei è una “cristologia”. Vuole cioè annunciare il senso della vicenda di Gesù, della sua morte e risurrezione ad una comunità di suoi discepoli. Se invece spostiamo la nostra attenzione alla seconda parte della lettura (Eb 10,19-23), notiamo subito che il tono cambia radicalmente. Non siamo più in una parte dottrinale, ma esortativa. Cioè l’autore, basandosi sull’annuncio dottrinale, cioè su ciò che riguarda la fede in Gesù e nella sua Pasqua, vuole ora trarre le conseguenze per la vita dei suoi destinatari. La prima parte riguarda il passato, un evento fondate e decisivo che sta alla base di tutto ed è un dono, la seconda parte è rivolta al presente e al futuro, cioè alle conseguenze nella storia della Chiesa e dell’umanità di quell’evento fondante. Tutta l’Epistola agli Ebrei è costruita su questa alternanza tra annuncio ed esortazione, per affermare che la vita cristiana non è una “filosofia” come tante altre, ma si fonda su un evento ed è possibile proprio grazie a tale evento. Anzi, potremmo dire: si fonda su una persona ed è possibile proprio grazie a tale persona, cioè Gesù!

 

Non in un santuario manufatto

Nella prima parte abbiamo un piccolo – si fa per dire – saggio della “cristologia” della Epistola agli Ebrei. Si parla di un ingresso in un santuario non fatto da mani d’uomo, nel quale Gesù è entrato non con sangue altrui, come i sacerdoti dal culto terrestre, ma con il proprio sangue. Ora, che significa questa immagine? Non è possibile comprenderla se non facendo riferimento ad un particolare rito della liturgia ebraica: lo Yom Kippur. In quell’occasione il sommo sacerdote entrava nel “santo dei santi” – unica volta all’anno in cui era permesso entrare ad un uomo – per aspergere l’arca con il sangue dei sacrifici. Era un atto di espiazione, cioè per il perdono del peccato del popolo, e l’espiazione consisteva proprio nel portare davanti alla presenza del Signore il sangue dei sacrifici. Ma il sangue del sacrificio è la vita stessa, la realtà che per eccellenza nel Primo Testamento appartiene unicamente a Dio e non all’uomo. Riportare a Dio il sangue della vittima del sacrificio voleva dire riportare la vita alla sua fonte, all’unico suo Signore. Non si uccidevano le vittime dei sacrifici per far cadere su un innocente – cosa del tutto estranea alla idea di sacrificio della Bibbia – il peccato commesso da un altro, ma per avere il sangue che simbolicamente rappresentava la vita stessa dell’offerente, che riconduceva a Dio ciò che solo a Dio apparteneva, la vita.

L’Epistola agli Ebrei annuncia che è accaduto qualcosa di radicalmente nuovo. Gesù è entrato nel santuario del cielo, quello non fatto da mano d’uomo, per riportare a Dio non il sangue “altrui”, cioè delle vittime del culto che erano animali, ma il proprio sangue, cioè la propria vita. Il sangue rimanda alla vita di Gesù nella sua pienezza. Quindi accade qualcosa di nuovo perché un uomo per amore ha compiuto pienamente – usando la metafora del sacrificio del Kippur, come fa l’autore della Epistola agli Ebrei – il gesto richiesto dalla Legge per ottenere la remissione dei peccati. La legge non imponeva di fare un dono a Dio, perché Dio concedesse il perdono, ma di compiere quel gesto che esprimeva il perdono stesso ed era dono di Dio. Infatti, il gesto stesso del perdono era stato ordinato da Dio e quindi suo dono. Ora Gesù lo ha compiuto in pienezza, perché quel gesto, espresso con il sangue delle vittime, egli lo ha compiuto con il proprio sangue, donando la propria vita. Gesù non è stato la vittima innocente che ha pagato per i colpevoli, ma l’uomo che ha raggiunto una tale capacità di rapporto con Dio da poter presentare a lui la sua stessa vita, il proprio sangue. In questo senso, la morte di Gesù può essere detta “sacrificio”.

Avendo libertà per l’accesso al santuario

Ma quell’accesso di ordine nuovo, di cui parla la prima parte della lettura e che è detto unico per Gesù, non rimane nel passato, ma diviene possibilità nel sangue di Gesù per tutti i suoi discepoli. Gesù ha inaugurato una via nuova e vivente per noi. Quindi la via inaugurata da lui è la strada che anche i suoi discepoli devono percorrere e possono percorrere grazie a lui. La via è detta vivente, perché la via è la vita stessa di Gesù, una vita pienamente umana che è il modello della vita di ogni discepolo. Sta a noi ora entrare in quel santuario per il suo sangue, cioè per la sua vita che ora è la nostra vita: non io vivo, ma Cristo vive in me! (Gal 2,20).

Una via per noi…

Dal confronto tra queste due parti della seconda lettura tratta dall’Epistola agli Ebrei possiamo cogliere il senso più vero dell’Ascensione. Noi non commemoriamo un fatto del passato, ma lo celebriamo perché esso è la radice del nostro presente e del nostro futuro. L’Ascensione, l’ingresso di Gesù nel santuario del cielo, è la via che ora per il suo sangue, che è la nostra vita in lui, noi dobbiamo percorrere nella fede, nella speranza e nella carità (Eb 10,22-24).

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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