Munera 1/2023 – Editoriale

Le società contemporanee sperimentano una diffusa crisi di fiducia. Le istituzioni politiche, economiche, scientifiche, educative e religiose ne sono toccate in maniera sempre più rilevante. Le contestazioni contro la vaccinazione per il Covid-19, l’astensionismo in occasione degli appuntamenti elettorali, la sempre più diffusa messa in discussione della parola degli esperti, la crescente fortuna delle varie teorie complottiste, la polarizzazione tra avversari divenuti ormai nemici, l’attitudine di sospetto sempre più diffusa nei confronti degli insegnanti o dei medici, con la conseguente proliferazione di denunce e ricorsi, sono solo alcuni segnali di una crisi trasversale e radicale, potenzialmente capace di minare le basi stesse della convivenza civile: le nostre esistenze individuali e collettive si fondano, infatti, sulla fiducia.

Intento di questo numero di Munera è così di avviare qualche pista di riflessione su un tema sempre più urgente e ineludibile, sul quale, non a caso, ricerche e pubblicazioni si moltiplicano velocemente.

Tre caratteri della fiducia appaiono particolarmente importanti: il suo rapporto con il tempo, tra speranza e vulnerabilità; il suo carattere supererogatorio, che la rende al contempo non esigibile e necessaria; il suo rapporto con l’autorità.

La fiducia ha una struttura essenzialmente temporale. Essa si radica nel passato: nell’esperienza di un’affidabilità sperimentata. Ma, proprio a partire dall’esperienza del passato, la fiducia apre al futuro. Dal terreno cognitivo traguarda così in campo etico: implica e sollecita la libertà. La fiducia consente la decisione, e dunque l’impegno della libertà. Un impegno che è sempre a rischio, perché non è mai del tutto garantito. In questo senso, la fiducia intrattiene un nesso inscindibile con la vulnerabilità. Non è priva di ragioni, dato che si fonda su un’esperienza precedente di stabilità, di solidità, di senso e di bontà dell’esistente. Non è dunque irrazionale. Eppure, la fiducia implica sempre un salto, che non può che essere compiuto a rischio di sé. Accordare fiducia significa rendersi vulnerabili: qualcuno o qualcosa di cui mi fido possono deludermi o ferirmi. Per questo accordare fiducia richiede, in termini morali, una buona dose di fortezza e, in termini psicologici, una certa autostima: sono pronto ad accordare fiducia nella misura in cui so che un’eventuale delusione o tradimento non mi manderanno in frantumi.

Prendere sul serio la dinamica temporale della fiducia, tra speranza e vulnerabilità, permette di rivedere criticamente molte delle pretese securitarie che pervadono tanti aspetti della nostra vita sociale, a partire dall’utopia di realizzare un controllo totale e di eliminare così ogni rischio. La fiducia non è solo un fatto cognitivo, ma un fenomeno antropologico ed etico: implica e rende possibile una libertà che vive essenzialmente di rischio e, dunque, di fiducia. La fiducia, poi, è tipicamente supererogatoria. Supererogatorie sono quelle azioni e quelle attitudini moralmente positive ma non strettamente esigibili. Non posso esigere fiducia, né alcuno può esigerla da me. E tuttavia faccio l’esperienza che devo fidarmi, altrimenti non vivo. La fiducia non soltanto mi semplifica cognitivamente la vita, di- spensandomi dalla necessità di dover controllare tutto, ma è anche la condizione di possibilità di alcune tra le esperienze fondamentali dell’esistenza umana. Certamente tra esse vi sono l’amicizia, l’amore, la fede in un oltre. La fiducia rende vulnerabili: qualcuno può deludermi e ferirmi. Tuttavia, l’indisponibilità alla fiducia rende impossibile proprio quella esistenza che essa vorrebbe preservare. La fiducia non è esigibile e tuttavia è necessaria: è in qualche modo dovuta, a sé e all’altro. Da ultimo, la fiducia è strettamente legata all’autorità. Non è certo un caso che la crisi dell’una vada oggi a braccetto con la crisi dell’altra. Tutte le forme di autorità sono oggi in crisi, in quanto incapaci di ottenere quella fiducia di cui vivono, e senza la quale muoiono. È il caso delle istituzioni politiche, educative, scientifiche, religiose. Per riprendere una celebre distinzione di Max Weber, si potrebbe dire che sono oggi in crisi tutte le autorità di tipo tradizionale (nell’ambito della famiglia, della scuola, della religione…), ma anche quelle fondate su procedure più o meno razionali (nell’ambito della scienza, della politica, della giustizia…). Tutto questo non comporta, tuttavia, una scomparsa dell’esperienza dell’autorità, quanto piuttosto una spasmodica ricerca del terzo idealtipo: quello delle autorità a legittimazione carismatica. È quanto emerge in ambito politico con i populismi: essi istituiscono un rapporto diretto tra il leader e una massa informe che chiamano popolo. Ma è anche quanto emerge, in ambito scientifico o religioso, con il cosiddetto effetto-guru (l’espressione è di Dan Sperber): ci si affida ciecamente a leader carismatici sulla base del loro potere di fascinazione. Possono essere leader religiosi, fondatori di movimenti, scienziati alternativi, filosofi in cerca di originalità, ma troppo spesso carenti di senso di responsabilità. Non ci si fida più di autorità tradizionali (le chiese, per esempio) e neppure di autorità razionali e procedurali (in ambito democratico o scientifico), ma si continua ad aver bisogno di qualcuno in cui ripor- re fiducia. Ci si affida così al personaggio più alternativo al sistema stabilito o al più fascinoso o misterioso. Tutto questo pone la questione di un’etica dell’autorità: questione che riguarda tutti coloro che rivestono un ruolo di autorità e che, con i loro comportamenti, rischiano di contribuire alla corrosione dell’autorità che incarnano. Si tratta – per riprendere un titolo famoso di Julien Benda – del tradimento dei chierici.

 

Già da questi pochi cenni si intuisce quanto il tema della fiducia sia cruciale per il nostro presente e quanto, sempre più, lo sarà per il nostro futuro. Ritrovare e ricostruire le buone ragioni della fiducia è probabilmente il compito più arduo e più urgente che ci attende.

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