A ondate, i mezzi di comunicazione si occupano dell’uccisione di donne da parte di uomini – per lo più mariti o ex mariti, fidanzati o ex fidanzati – con una intensità tale da far pensare che sia in atto un’inquietante escalation di uccisioni di donne da parte di uomini che si sono sentiti rifiutati o non più voluti. I numeri tuttavia ci dicono che non stiamo assistendo a un aumento della violenza nei confronti delle donne. Nel 2003, quando ancora non si parlava di femminicidio, le donne uccise furono 192, il numero poi si è attestato fra i 130 e i 180 negli anni successivi fino a oggi.
Si deve allora verificare se la parola “femminicidio” sia davvero adeguata a descrivere il fenomeno e se il paradigma della vittima essa associato ci aiuti a capire la violenza sulle donne da parte degli uomini. Insomma, siamo di fronte ai colpi di coda estremi di una vecchia, e non ancora superata, cultura patriarcale o ci troviamo invece ad affrontare una situazione nuova, in cui una libertà ormai senza aggettivi lascia uomini e donne privi delle difese della mediazione simbolica e dell’autorità che insieme preservano gli esseri umani dal venire considerati solo oggetti di godimento? In altri termini, la violenza è scatenata dall’autoritarismo patriarcale o da una malintesa idea di libertà che si vuole assoluta, senza alcun vincolo o debito simbolico?