Mi ha creato all’inizio del suo operare


Trinità – C
Prv 8, 22-31; Rm 5, 1-5; Gv 16, 12-15

 

Introduzione

Con la solennità di Pentecoste si conclude il Tempo pasquale e anche quell’intenso ciclo liturgico che è iniziato con il mercoledì delle Ceneri. Con la Solennità della SS. Trinità ritorniamo invece nel Tempo ordinario. Certo ciò che i Cristiani celebrano nella liturgia è sempre il mistero pasquale del loro Signoremorto e risorto, ma la logica è differente. Per comprendere la festa della Trinità occorre quindi evitare di leggerla in continuità con la Pentecoste, quasi fosse un prolungamento del Tempo pasquale, ed entrare invece nella logica del Tempo ordinario che da questa domenica in poi ci accompagnerà nella nostra sequela del Maestro fino alla XXIV domenica nella quale lo celebreremo come Signore-Kyrios del tempo e della storia.
Seguendo questa prospettiva e leggendo la festa della Trinità nel Tempo ordinario (è il nome che le assegna la liturgia stessa: Solennità del Signore nel Tempo ordinario), dobbiamo far riferimento all’“ordinarietà” della vita della Chiesa nella sequela del suo Signore: un cammino nel quale passo dopo passo essa si scopre trasformata ad immagine di colui che segue, pur nella fatica e nella povertà di una infedeltà sempre presente. La Solennità della SS. Trinità ci fornisce lo sfondo completo di questo cammino di sequela, rivelandone il vero significato. In questa festa si celebra la vita di Dio che è comunione! Pertanto il cammino di sequela di Cristo non si presenta unicamente un “fatto umano”, non si tratta di accogliere il pensiero di un filosofo o di un saggio, di un capo politico o di un rivoluzionario, non è unicamente l’esito dello sforzo, dell’impegno e della decisione dell’uomo. Tutto questo ci rivela la Festa della SS. Trinità, che quindi ci aiuta a riprendere il nostro cammino nella comprensione di ciò che si celebra in tutto il Tempo ordinario.

 

Riflessione
All’inizio del suo operare
Nella prima lettura tratta dal Libro dei Proverbi troviamo il noto cantico della Sapienza. La Sapienza di Dio parla e canta come una realtà personale. In questo canto, che potrebbe essere approfondito in tante direzioni, si afferma innanzitutto una realtà fondamentale: con Dio, da sempre, c’è la sua volontà di comunione e di salvezza in favore degli uomini! Infatti, la Sapienza personificata altro non è che la mediazione di Dio nella creazione, il suo farsi presenza operante. Per la Bibbia Dio non si può vedere, è trascendente e “altro”, ma attraverso la sua Sapienza ordinatrice egli è operante nella creazione e nella storia. E’ interessante notare che una tale presenza, una tale volontà di comunione con l’umanità e con la creazione intera è presente in Dio da sempre. Infatti, la Sapienza è al fianco di Dio dall’inizio del suo operare!
E’ un primo dato che troviamo nella liturgia della Parola di oggi. Il Dio della Bibbia è sì “trascendente”, non strumentalizzabile, non utilizzabile come un “amuleto”, non riducibile ad un idolo, ma è anche il Dio della comunione. Una comunione che da sempre egli vive in se stesso – Dio è in “dialogo” da sempre con la sua Sapienza – ma che vuole vivere anche con l’umanità. Questa volontà non è il frutto di una decisione sorta in lui in un secondo momento, ma è “originaria”, è il suo stesso “Nome”.
Nel v. 31, cioè nella conclusione della prima lettura della liturgia di questa domenica, troviamo esplicitamente questa realtà. La Sapienza afferma: mia delizia erano i figli dell’uomo. Quindi è delizia della Sapienza stare presso Dio, al suo fianco (v. 30), ma è anche sua delizia l’umanità. La Sapienza, da sempre presso Dio, crea questo legame, che è in Dio stesso, tra lui e l’umanità. La delizia di Dio è la Sapienza e la delizia della Sapienza sono i figli dell’uomo, l’umanità (vv. 30-31).
Questo è il messaggio principale di questa lettura nel contesto della Trinità che celebriamo in questa domenica.

 

Per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo
Nella seconda lettura tratta dalla Lettera ai Romani di Paolo possiamo fare un passo in più identificando in modo preciso il volto di quella Sapienza il cui canto abbiamo ascoltato nella prima lettura. Infatti qui scopriamo che il volto del desiderio originario di Dio di fare comunione con l’umanità ha un nome, il nome del Figlio e dello Spirito. Paolo infatti afferma che noi abbiamo pace-shalom con Dio «per il nostro Signore Gesù Cristo». E’ Gesù, il Figlio la via che il Padre ha scelto per avere pace con noi, con l’umanità.
Il desiderio di comunione originario in Dio concretamente si realizza nella logica del dono e non della coercizione, della libertà e non dell’obbligo. Nel suo desiderio di comunione Dio giunge a donarsi nel Figlio: egli non ci chiede di colmare la nostra lontananza da lui, ma lui la colma raggiungendoci proprio sulle vie della nostra lontananza da lui.
In Gesù “la speranza della Gloria”, cioè la speranza della comunione con Dio, di divenire irradiazione della sua stessa vita, diviene possibilità concreta anche nella tribolazione, proprio perché nel dolore e nella tribolazione possiamo trovare il “luogo” dove far emergere quell’amore, cioè il senso stesso della vita di Gesù, che grazie allo Spirito è stato effuso nel nostro cuore. Pazienza, virtù provata e speranza sono quelle virtù che si sono manifestate nella vita di Gesù e che ora i suoi discepoli possono fare proprie. Per questo, perfino nella tribolazione, nessuno ora potrà separare i discepoli di Gesù dalla comunione con Dio, perché in nessuna condizione umana sarà possibile impedire loro di amare come Gesù ha amato (Rm 8,35), con quell’amore cioè che per mezzo dello Spirito è dato loro in dono.
Dalla seconda lettura allora scopriamo che il desiderio originario di comunione che da sempre vive in Dio si manifesta concretamente nella storia dell’umanità per mezzo del Figlio e dello Spirito.

 

Vi guiderà in tutta la verità
Infine nel brano di Vangelo, che diverse volte è risuonato nel Tempo pasquale, ci viene detto quale relazione c’è tra i due “mediatori” della comunione dell’umanità con Dio, cioè il Figlio e lo Spirito. Nel Vangelo vediamo come in realtà non si tratta di due mediazioni separate tra loro, ma l’una in funzione dell’altra. Se infatti il Figlio è il Verbo per mezzo del quale Dio si è comunicato e donato all’umanità, affinché l’umanità potesse ritornare a lui, lo Spirito è colui che rende “interiore” a noi il Verbo. Grazie allo Spirito donato nei cuori il Vangelo, che è Gesù stesso, non è più qualcosa di “esterno”, ma di “interno”.
Il Figlio è il Verbo, il “Progetto” di Dio; lo Spirito è la Sapienza, cioè l’attuazione nella storia e nell’umanità di un tale “Progetto”. S. Ireneo, un padre della Chiesa, già nel secondo secolo vedeva l’unità tra il Figlio e lo Spirito, tra il Verbo e la Sapienza e li chiamava “le mani di Dio”. Egli affermava che attraverso le sue mani, cioè il Figlio e lo Spirito, Dio aveva creato ogni cosa. Il Verbo «è rivelatore del Padre fin dall’inizio, perché è con il Padre fin dall’inizio… il Verbo divenne dispensatore della grazia paterna a vantaggio degli uomini, per i quali ha stabilito così grandi disegni salvifici, mostrando Dio agli uomini e presentando l’uomo a Dio». Lo Spirito invece è colui che guida l’uomo alla verità tutta intera, portandolo al pieno compimento di ciò che Cristo ha realizzato «mostrando Dio agli uomini e presentando l’uomo a Dio».

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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