Identikit della VI Istruzione (/10): COME DIRE COSE ANTICHE IN MODO NUOVO
L’onore che la Chiesa rende alla lingua latina non deve mai essere idealizzato. Ogni idealizzazione nasconde sempre una aggressione. Spesso noi idealizziamo il latino perché non sopportiamo che la vita di fede e la sua espressione rituale sia implicata nella complessità delle lingue vive, popolari, incompiute, aperte, in divenire. Le lingue “volgari” non sono sicure, non sono “certe”, non sono bloccate. Ogni bambino/a che nasce, e inizia a parlarle, le cambia, le modifica, le arricchisce. Il latino, da tutto questo, risulta irrimediabilmente escluso. Nessun bambino potrà più modificarlo, arricchirlo, metaforizzarlo, farlo “suo” come “lingua madre”. Il latino non genera più al rapporto immediato col mondo. Ma questo limite di esperienza, che preclude al latino l’accesso alla esperienza viva dei popoli, ormai da molti secoli, appare anche come il suo fascino e la sua autorità. Può sembrare più adeguato al culto perché separato dalla vita. In questo sta la nostra tentazione di “usarlo per aggredire”.
Liturgiam authenticam partecipa di questo rischio di “idealizzazione aggressiva”. Le parole sapienti di Francesco Pieri identificano, in questa piccola antologia del suo libro, una serie di punti-chiave del complesso rapporto tra “lingua di tradizione” e “lingua di traduzione”. Il loro rapporto non può essere “di trasposizione”: per tradurre bisogna comunque interpretare. Questo punto in LA viene oscurato, nella presunzione/disperazione che si possa “tradurre senza interpretare”. Questa scelta – la rinuncia a interpretare – è nei fatti non solo una interpretazione a sua volta, ma spesso appare come la interpretazione peggiore.
1) Tradurre non è solo trasporre
“L’istruzione Comme le prévoît del 23.1.1969 […] rappresentò il primo intervento interamente dedicato alla tematica delle traduzioni nelle lingue nazionali. Significativamente stesa in una lingua corrente – il francese – Comme le prévoît offriva non tanto una serie di norme vincolanti, quanto piuttosto di criteri orientativi per i traduttori nei quali si rifletteva la consapevolezza di alcune facili insidie e la preoccupazione di evitarli. [Troviamo espressa al par. 12] la chiara consapevolezza di come il lessico e le caratteristiche morfo-sintattiche conferiscano ad ogni idioma mezzi e limiti espressivi propri, che non sono mai a priori sovrapponibili con quelli di un altro sistema linguistico, se non in misura assai circoscritta. […] Conseguenza immediata di questa semplice osservazione è che l’adozione di semplici meccanismi di trasposizione, la ricerca di una stretta corrispondenza tra termine e termine – alla stregua di quanto avviene nelle versioni parafrastiche o interlineari a uso scolastico – non rappresenta affatto una garanzia di fedeltà all’originale, ma piuttosto una scorciatoia ingannevole rispetto al laborioso processo di decodificare un testo in tutte le sue valenze, per esprimerlo nuovamente in un codice distinto e distante rispetto a quello originale”.[F. Pieri, Sangue versato per chi? Il dibattito sul pro multis, Giornale di Teologia 369, Queriniana, Brescia 2014, pp. 39s]
2) Equilibrio tra significanti e significati
“Liturgicae instaurationes del 5.9.1970 [riprese] le tematiche connesse alla messa in atto della riforma liturgica, tra cui l’utilizzo della lingua volgare. [Al par. 11] si raccomanda di non disgiungere nella traduzione dei nuovi libri liturgici la dignità e proprietà della forma dalla fedeltà nel contenuto: «Le traduzioni siano documenti di riconosciuta bellezza, che possano sfidare l’usura del tempo con la proprietà, l’armonia, l’eleganza, la ricchezza dell’espressione e della lingua, in piena corrispondenza con l’interiore ricchezza del contenuto». Ci sembra essere qui ben espresso il principio del rispetto dei valori della lingua di destinazione: in una traduzione liturgica che intenda essere davvero efficace, pur restando basilare la fedeltà al messaggio originale, all’ambito dei significati, essa deve di necessità contemperarsi con l’ambito dei significanti, rappresentati dai valori formali ed espressivi del linguaggio in cui il tenore originale del messaggio viene a riversarsi”.[F. Pieri, Sangue versato per chi? , pp. 43s]
3) Il senso cristiano delle parole si radica nel loro senso ordinario.
“[Negli anni Sessanta era viva] la consapevolezza di come la maggior parte degli idiomi contemporanei stessero nascendo come lingue liturgiche solo a partire dalla riforma conciliare e si dovesse quindi iniziare a costruire con esse nuove vie espressive, in grado di coniugare la fedeltà al messaggio con la comprensibilità e ancor più con l’espressione orante delle comunità concrete. «In generale, si otterrà un risultato migliore adottando parole ordinarie e usuali che si caricano di senso cristiano, anziché ricorrere a parole rare ed erudite. (…) Sovente non sarà sufficiente, nella liturgia, aver tradotto con esattezza puramente verbale e materiale testi formulati per un’altra epoca e cultura. La comunità riunita deve poter fare del testo tradotto la sua preghiera viva e attuale, e ciascuno dei suoi membri deve poter ritrovarsi in essa ed esprimersi mediante essa. Per questo, traducendo i testi liturgici, sovente è necessario fare dei prudenti adattamenti.»[Comme le prévoît, 20s] La preferenza per «parole ordinarie e usuali che si caricano di senso cristiano» rispetto ad altre «rare ed erudite» esprime il carattere basilare riconosciuto all’istanza comunicativa entro l’azione liturgica”.[F. Pieri, Sangue versato per chi? pp. 39s]
4) Un’operazione mai definitivamente conclusa
“In Vicesimus quintus annus, 20[datata al 4.12.1988, Giovanni Paolo II preannunciava per la prima volta una stagione di revisione delle traduzioni liturgiche] con parole di questo tenore:«Le conferenze episcopali hanno avuto il grave incarico di preparare le traduzioni dei libri liturgici. (…) Ma è ora giunto il tempo di riflettere su certe difficoltà emerse successivamente, di porre rimedio a certe carenze o inesattezze, di completare le traduzioni parziali, di creare o di approvare i canti da utilizzare nella liturgia, di vigilare sul rispetto dei testi approvati, di pubblicare finalmente i testi liturgici in uno stato da considerarsi stabilmente acquisito e in una veste che sia degna dei misteri celebrati».
Sia consentito esprimere le più franche riserve sulla possibilità di portare qualsivoglia traduzione ad uno stato che possa mai considerarsi “stabilmente acquisito”. Trattandosi di mediazione culturale, non c’è da farsi illusioni sul fatto che tale lavoro cessi di essere passibile di revisione e perfezionamento. Né potrà mai esservi, nelle lingue viventi, quel grado di fissità che solo un testo tipico latino, una lingua ormai non più esposta al cambiamento vitale, può possedere.Proprio la custodia della Parola e la fedeltà ad essa comporta quindi la necessità di riformare periodicamente i testi tradotti della rivelazione e le formule celebrative, non altrimenti da quelle dogmatiche e catechetiche, per impedire che espressioni del tutto normalmente usurate o addirittura mutate dal tempo non siano più in grado di veicolarne il significato autentico”. [F. Pieri, Sangue versato per chi? pp. 45s]
5) Un registro stilistico solenne anche nelle lingue di traduzione
“Anche a prescindere dalla pretesa quantomeno ingenua di una revisione definitiva, è senz’altro condivisibile l’esortazione di Liturgiam authenticam a non temere una certa, equilibrata distanza dalla lingua corrente che contribuisca a conferire solennità alla celebrazione. Esemplificando i casi cui può applicarsi tale criterio, l’istruzione ritiene che arcaismi, semitismi, stilemi caratteristici del linguaggio biblico debbano contribuire ad arricchire l’espressività delle stesse lingue viventi di un registro propriamente liturgico e sacrale. Si raccomanda quindi ai traduttori di ispirare la revisione non soltanto alla fedeltà al senso, ma di cercare di creare in tutte le lingue uno stile propriamente liturgico, correggendo così la tendenza a introdurre nella liturgia espressioni di tono psicologizzante, sociologico e in genere ogni sorta di terminologia culturalmente in voga, fatalmente esposte a divenire ben presto logore e fruste. […]
Sia consentito tuttavia osservare che l’istanza di conferire solennità e sacralità al linguaggio liturgico nelle lingue vernacole non comporta di per sé in modo automatico l’adozione del letteralismo e del calco linguistico del latino come mezzo e criterio stilistico privilegiato, né tanto meno unico […]. Ogni lingua può attivare molteplici strumenti – lessicali, sintattici, retorici – suoi propri per caratterizzare un registro stilistico più elevato rispetto a quello del parlare corrente, i quali non possono certo ricondursi e ridursi all’imitazione di un modello latino retrostante”.[F. Pieri, Sangue versato per chi? pp. 47-49]
6) La tradizione arricchisce il linguaggio, ma ne rispetta i limiti espressivi
“L’invito [di Liturgiam authenticam] a una traduzione più aderente dei testi liturgici, a un linguaggio dalla tonalità più semitizzante e sacrale, può essere salutato come un valido criterio di massima, e così in generale ci sembra sia stato fatto dagli esperti in materia. Del resto in ogni epoca della cultura occidentale Bibbia e liturgia non sono stati soltanto ricettori del linguaggio e della cultura corrente, ma anche fonti da cui il linguaggio e la stessa cultura sono stati costantemente fecondati e arricchiti di nuove possibilità espressive, a livello simbolico, lessicale e persino grammaticale. […]. [Tuttavia] non ogni espressione o costrutto può sempre essere trasferito mediante calco linguistico da una lingua all’altra, avendo un limite intrinseco nelle capacità e nei mezzi espressivi della lingua di destinazione”. [F. Pieri, Sangue versato per chi? pp. 48]