Faremo dimora presso di lui…


VI domenica di Pasqua – C

At 15, 1-2. 22-29; Ap 21, 10-14. 22-23; Gv 14, 23-29

Introduzione

Anche nella VI domenica del Tempo pasquale la liturgia ci fa celebrare un “frutto” della Pasqua nella vita della Chiesa e dell’umanità. Dobbiamo quindi ancora una volta leggere il brano evangelico sullo sfondo della liturgia del Tempo pasquale, per poterlo comprendere pienamente e nella sua luce più autentica. Il brano tratto dall’Apocalisse (II lettura) può aiutarci ad individuare proprio la chiave di lettura da assumere nella lettura liturgica della pagina del Vangelo di Giovanni.

Gli Atti degli Apostoli (I lettura) narrano un passaggio importante della vita della Chiesa nascente, che riguarda in modo particolare la possibilità per coloro che non appartengono al popolo di Dio, Israele, di accogliere il vangelo di Gesù e di entrare nella comunità dei suoi discepoli. È una pagina significativa anche per il fatto di mostrare una comunità primitiva mentre cerca di discernere aspetti importanti della sua vita e di cogliere le novità che lo Spirito apre davanti al suo cammino.

Ruflessione

Mi mostrò la Città santa

Il brano dell’Apocalisse, che è interessante anche leggere nella sua integrità (Ap 21,10-23), riporta la descrizione della Gerusalemme celeste. In questo testo – ricco di meraviglia e di poesia – la Gerusalemme del cielo è descritta con cura e attenzione ai minimi particolari. Essa scende da cielo, cioè da presso Dio: è un suo dono, non è la conquista della storia umana. È coinvolgente e appassionante seguire la descrizione delle sue mura, delle sue fondamenta, delle sue misure impensabili, delle sue porte che sono come le perle di una magnifica corona regale; è affascinante scorrere l’elenco delle pietre preziose con cui i basamenti della città sono costruiti, immaginare lo splendore dell’oro finissimo. Ma poi questa descrizione si conclude quasi a sorpresa con qualcosa che manca, qualcosa che non c’è. Si dice tutto quello che c’è e si conclude dicendo che cosa nella Gerusalemme del cielo non ci sarà. Ed è ancor più sorprendente notare che ciò che manca è il tempio. Chi vede l’attuale città di Gerusalemme e osserva la spianata che ospitava il tempio di Gerusalemme costruito da Erode il Grande riesce a capire cosa voglia dire quando nell’Apocalisse si dice che il tempio nella Gerusalemme del cielo non ci sarà. È quasi impossibile pensare Gerusalemme senza Tempio. Eppure proprio questa realtà così importante, e così significativa nella Gerusalemme del cielo non ci sarà. La città che scende da presso Dio paradossalmente è priva dell’abitazione di Dio.

Non è una novità dell’Apocalisse. Anche in Ezechiele, quando il popolo va in esilio, la gloria di Dio lascia il tempio e Dio dice, tramite il profeta, che egli stesso sarà “il santuario” per coloro che sono andati in esilio (Ez 11,16). Così nel compimento della storia Dio stesso, senza bisogno di una “abitazione” di pietra, rappresenterà il tempio, perché sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).

Per esprimere la medesima realtà della comunione nuova che si stabilirà tra Dio e l’umanità, l’Apocalisse afferma che mancherà un’altra cosa nella Gerusalemme del cielo: il sole e la luna. Il Tempio era il luogo nel quale la Gloria di Dio abitava: era il Tempio lo splendore della Gerusalemme terrestre. Ora il tempio non c’è più, ma non ci sono neppure il sole e la luna. La mancanza del sole e della luna servono per spiegare la modalità nella quale Dio e l’Agnello saranno il tempio della Città celeste. Si dice infatti che la gloria di Dio – quella che abitava il Tempio – sarà la luce della Gerusalemme del cielo e l’Agnello la lampada. Non si tratta quindi di due realtà – Dio e l’Agnello – che hanno la medesima funzione, ma l’Agnello, Gesù, è come il “mediatore” di questa nuova presenza di Dio che caratterizza la Gerusalemme del cielo. La gloria di Dio, la sua presenza operante, la illumina, ma la lampada attraverso questa luce si diffonde è l’Agnello.

E così vediamo che l’annuncio che l’Apocalisse ci lascia intravedere alla fine della storia non è così disincarnato dalla storia stessa: infatti anche “oggi” – nell’oggi della comunità di Giovanni, ma anche nel nostro “oggi” – l’Agnello, Gesù Risorto, è già lampada ed è già nuova comunione e presenza di Dio per coloro che aderiscono a lui, vivendo la sua stessa vita e lasciandosi trasformare dallo Spirito che lo rende presenza viva e vivificante. Proprio di questa realtà nuova, che si compirà alla fine della storia, ma che è già presente e operante “oggi”, ci parla il vangelo di questa domenica.

Faremo dimora presso di lui…

Il brano del vangelo, tratto dal discorso di addio di Gesù nel Vangelo di Giovanni, si apre proprio con una affermazione di Gesù che annuncia un tempo futuro – siamo prima della sua passione e della sua risurrezione (cfr. v. 28. 29) – in cui i discepoli diventeranno luogo presso il quale Gesù e il Padre prenderanno dimora. Non si parla qui dei discepoli in senso collettivo – è tipico di Giovanni – ma del singolo discepolo. Presso il singolo discepolo Gesù e il Padre prenderanno dimora. Noi penseremmo più alla Chiesa, alla comunità dei discepoli come luogo della presenza di Dio. Ma Giovanni ci parla – senza negare questa realtà – di una dimensione personale del rapporto tra il singolo discepolo e Gesù.

La dimora di Gesù e del Padre presso un discepolo di Gesù viene descritta nel vangelo prima in positivo (v. 23) e poi in negativo (v. 24). Giovanni quindi afferma che, dopo la Pasqua di Gesù, dopo la sua risurrezione, ci sarà un tempo, ancora una volta da non situare alla fine della storia ma nella storia, nel quale si potrà realizzare una nuova comunione tra Dio e l’umanità. Questa nuova possibilità di comunione passa attraverso l’adesione a Gesù. Il Vangelo di Giovanni ci elenca le tappe che possono condurre a vivere già ora la comunione, che è la meta che Dio ha pensato per l’umanità fin dalla fondazione del mondo.

Se qualcuno mi ama

Innanzitutto occorre “amare” Gesù: Se qualcuno mi ama. Questo primo dato ci dice che l’uomo può vivere già ora ciò che attende per il compimento della storia, in base alla sua adesione a Gesù. Un’adesione che non è solo di tipo “istituzionale” – fare parte del “gruppo di Gesù” – ma è molto di più, cioè aderire a lui nella stessa logica di vita, diventare sacramento del suo amore per l’umanità.

Quindi, il primo passo consiste nella relazione con Gesù: amarlo. Il che significa condividerne la missione, la vocazione, l’esito della vita. Amare qui non è un dato solo affettivo, ma indica proprio l’adesione ad una persona, la conoscenza profonda, il legame che si ha nei suoi confronti.

Custodirà la mia parola

Il secondo passo consiste nell’ascolto della parola di colui che si ama: custodirà la mia parola. È naturale che questo sia un secondo passo: noi ascoltiamo solo chi amiamo e soprattutto colui dal quale ci sentiamo amati. E dopo Pasqua, i discepoli sapranno che c’è qualcuno che liberamente li ha amati fino al dono della vita. Uno che è misericordioso e fedele, come definisce Gesù l’Epistola agli Ebrei.

La dimora di Dio nell’uomo attraverso l’adesione a Gesù si realizza dunque nell’ascolto della sua Parola e nel custodirla. Per questo il discepolo di Gesù non può fare a meno di ascoltare la Parola di Dio nelle diverse forme in cui essa si comunica e in particolare attraverso la lettura delle Scritture. In questo ascolto che non serve per aumentare la conoscenza razionale, ma per alimentale la comunione e quella conoscenza che è presupposto della relazione vera. Per questo è significativo l’uso del verbo “custodire”, che è di più che “osservare”.

Il Padre mio lo amerà

Il terzo momento di questo percorso è l’amore di Dio Padre per colui che ama e ascolta il Figlio. Questo non vuol dire che l’amore di Dio per l’umanità sia legato all’osservanza di precetti e nemmeno condizionato all’amore dal parte dell’uomo. Qui si parla di “amore” come di “compiacimento”. L’uomo che aderisce a Gesù e ascolta la sua parola diviene partecipe di ciò che accadde a Gesù nel suo Battesimo quando la voce dal cielo disse: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). In Gesù che accetta la sua missione messianica il Padre si compiace, perché egli diventa manifestazione del volto dell’uomo secondo il progetto originario di Dio. Così anche l’uomo che aderisce a Gesù e ne custodisce la parola diventa partecipe della stessa esperienza: il Padre si compiace di lui e gioisce perché vede sul suo volto il volto del Figlio e la realizzazione del suo piano originario sull’umanità, la realizzazione della “vocazione originale” dell’uomo.

 

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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