Davanti al suo volto


XIV domenica del Tempo ordinario – C

LETTURE: Is 66, 10-14; Sal 65; Gal 6, 14-18; Lc 10, 1-12. 17-20

Introduzione

Nel brano di Lc 10,1-12.17-20 la missione dei settantadue discepoli può essere letta come annuncio del compimento di ciò che viene cantato in Isaia 66, 10-14 (I lettura). Siamo nel contesto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme iniziato in Lc 9,51 e la missione del settantadue discepoli può essere letto attraverso il canto del profeta Isaia che vede ormai vicina la consolazione. L’inizio del v. 1 (Dopo questi fatti) rimanda proprio al contesto del racconto di Luca, cioè all’inizio del grande viaggio verso Gerusalemme.

Nella Lettera ai Galati (II lettura) Paolo richiama ai cristiani la centralità nella sua esperienza di fede della croce del Signore Gesù, che diventa l’elemento capace di interpretare la sua vita.

Il brano evangelico di questa domenica si può dividere in due parti: l’invio dei discepoli e il loro ritorno pieni di gioia. Sembra quasi un riferimento al Salmo 126,5-6, dove leggiamo: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni». Anche nel testo di Isaia troviamo questo stesso linguaggio: «sfavillate di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto» (Is 66,10).

Riflessione

I settantadue inviati in missione (I parte)

Il primo elemento da prendere in considerazione è proprio il numero dei discepoli che Gesù invia davanti a sé «in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10,1). Nella versione greca della Bibbia (LXX), a cui Luca sembra spesso fare riferimento, le nazioni pagane nella Genesi (Gn 10,1-32) sono settantadue e non settanta come nel testo ebraico. Nella tradizione di questo brano è chiaro il riferimento alle nazioni straniere come compaiono nel Libro della Genesi (cf. Bovon).

Settanta inoltre, secondo la tradizione rabbinica, sarebbero stati i popoli che ascoltarono la promulgazione della legge al Sinai. Settanta furono gli anziani scelti come collaboratori di Mosè (Nm 9,16-17). Sempre settanta sarebbero stati i membri del Sinedrio di Gerusalemme escluso il sommo sacerdote.

Un altro riferimento non è insignificante: settantadue (o settanta) sarebbero stati secondo la tradizione i saggi che avrebbero tradotto la bibbia in greco, chiamata per questo “dei Settanta”. La bibbia sarebbe stata tradotta da questi settanta (settantadue) saggi in settanta giorni.

Questi molteplici riferimenti al numero settantadue/settanta ci aiutano a comprendere la prospettiva del racconto dell’invio di questo gruppo di discepoli (il secondo nel Vangelo di Luca dopo quello dei Dodici). Si tratta di una “prospettiva” universalistica che già qui, durante il ministero di Gesù prima della Pasqua, si manifesta. E’ probabilmente un tentativo della primitiva comunità cristiana di proiettare già nella vita di Gesù i “germi” di quelle realtà – in questo caso la missione presso i gentili – che sarebbe fiorita dopo la sua Pasqua.

Oltre alla universalità della missione che il numero degli inviati e altri particolari del brano sembrano indicare (cf. il riferimento alla messe che è molta), c’è un’altra prospettiva che emerge circa il senso dell’invio dei settanta/settantadue discepoli: la prospettiva escatologica. Questo emerge dalla urgenza della missione, dalla decisività dell’accoglienza e della non accoglienza degli inviati, la testimonianza, il riferimento alla messe e quindi alla mietitura. Ciò che possiamo notare quindi dai tratti di questa missione è che si tratta di un evento universale.

Questi discepoli Gesù li inviò “a due a due aventi a sé”. Due è il numero della testimonianza: ciò che i discepoli compiono è un “atto decisivo”. Devono rendere testimonianza ad un evento che deve essere accolto con urgenza perché – come si vedrà alla fine della prima parte (Lc 10,8.10) – ha a che fare con la “prossimità” del Regno di Dio. I discepoli poi sono inviati “avanti a sé” (lett.: davanti al suo volto). E’ un’espressione certamente semitica per indicare il mandare avanti, il farsi precedere, ma non è comunque insignificante in questo contesto del Vangelo di Luca l’uso del termine volto. Infatti nel v. 51 del c. 9, nel momento di svolta del racconto del terzo evangelista l’espressione “si diresse decisamente verso Gerusalemme” potrebbe essere tradotta “indurì il suo volto”. Anche questa è una espressione che richiama un modo di dire ebraico, tuttavia il fatto che venga ripreso in greco il termine “volto” crea un legame tra il viaggio di Gesù, la sua missione, e il viaggio dei settantadue/settanta discepoli inviati davanti a lui.

Ma vediamo meglio in cosa consiste la missione per la quale sono inviati i settanta/settantadue discepoli.

I discepoli come abbiamo già detto devono andare avanti a Gesù, lo devono precedere. E’ un fatto abbastanza strano nei vangeli che si dica che i discepoli devono precedere Gesù, solitamente avviene il contrario.

Luca vuole sottolineare che la missione dei discepoli, la loro “venuta” in città e villaggi non è fine a se stessa, ma in vista della venuta di un altro, cioè Gesù stesso: Gesù li invia nei luoghi nei quali stava per recarsi. La missione dei discepoli, potremmo quindi dire, è preparatoria, è in vista della venuta di Gesù: il discepolo deve preparare la strada ad un altro che viene.

L’oggetto che i discepoli sono chiamati a portare è innanzitutto “la pace”. Nella stessa direzione va l’altro riferimento a ciò che gli inviati devono annunciare: la vicinanza del Regno di Dio. Due volte si ripete che gli inviati devo annunciare che il Regno di Dio si è fatti vicino. Una volta in positivo, rivolti a coloro che li accolgono (Lc 10, 9), una volta in negativo, in riferimento a chi non accoglie gli inviati (Lc 10, 11). Questa vicinanza del Regno non è come la vicinanza di un “esercito” che avanza per la conquista, è la manifestazione di una nuova logica nel proprio rapporto con Dio.

Il segno di guarire i malati (Lc 10,9) è il gesto che rivela la concreta vicinanza del Regno. Ugualmente si può dire dei demoni che si sottometto e di Satana che cade dal cielo che troviamo nella seconda parte del brano (Lc 10,17-18).

Se l’annuncio riguarda l’urgenza e la novità del tempo che in colui che sta per venire si è fatto vicino, anche lo stile degli inviati deve andare in questa linea. Qui siamo nella logica della necessità di estrema coerenza tra annuncio e stile dell’annunciatore. Come Gesù è nello stesso tempo soggetto e soggetto dell’evangelo, così anche i suoi discepoli inviati devono “essere” il vangelo che annunciano.

E’ interessante come venga descritto l’equipaggiamento del missionario: il suo equipaggiamento consiste nel non essere equipaggiato. Non si dice cosa egli deve portare, ma cosa non deve portare con sé nella missione che gli è affidata. Molte di queste indicazioni potrebbero riflettere la concreta situazione dei predicatori itineranti che conosceva la comunità di Luca con tutti i rischi di deviazioni e di abusi che erano possibili.

L’ultimo riferimento riguarda l’accoglienza e la non accoglienza con il gesto dello scuotere la polvere dai calzari: i discepoli, proprio per l’urgenza e la decisività del loro annuncio, dichiarano di non avere nulla in comune con chi lo rifiuta.

Il ritorno degli inviati (II parte)

Alla prima parte riguardante l’invio in missione corrisponde la seconda parte che descrive il ritorno dei discepoli. In questa seconda parte il linguaggio è un po’ oscuro ed è di colore apocalittico. La caduta di satana dal cielo è sempre legata alla vicinanza del Regno e così pure i demoni che si sottomettono ai discepoli inviati. Ma ciò che maggiormente è interessante è l’affermazione che Gesù rivolge ai discepoli che ritornano pieni di gioia (Lc 10,20). Il motivo della gioia per i discepoli non sta nel successo della loro missione. Il motivo della loro gioia è semplicemente la consapevolezza della medesima novità che essi sono andati ad annunciare, cioè la vicinanza del Regno. Essi sono portatori di una gioia che deve già abitare prima il loro cuore. Qui si rivela la medesima cosa che era affermata nella prima parte: questi camminano davanti a Gesù non per essere loro i maestri e il termine della missione, ma per aprire la strada ad un altro che sta per venire. La loro gioia sta semplicemente nell’essere questi “poveri servi” (Lc 17,10).

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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