Come Francesco ha superato il “dispositivo di blocco”


damuseoagiardino

Dopo la pubblicazione dell’intervista per RaiNews dedicata all’esame del volume “Nel profondo del nostro cuore”, Giovanni Grandi ha scritto: “Ho letto e apprezzato l’intervista di Andrea Grillo per RaiNews dopo le anticipazioni sul nuovo libro di Sarah e Ratzinger: al di là del nuovo “caso”, aiuta a mettere a fuoco alcuni temi importanti, su cui riflettere in questa stagione della Chiesa cattolica. Sugli snodi più densi segnalati a fine intervista – in particolare sull’idea di “tradizione” e sul suo “blocco” – Andrea Grillo ha pubblicato un saggio che merita di essere letto: “Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il dispositivo di blocco”. Al volume appena citato lo stesso Giovanni Grandi ha contribuito con un pregevole “Invito alla lettura”. Qui vorrei pubblicare uno stralcio di quel libro, nel quale provo a definire il “dispositivo di blocco” e a descriverne la portata e il superamento da parte di papa Francesco.

Credo che la discussione che si deve condurre sui “due papi” e sui “conflitti” interni alla Chiesa debba riconoscere, con molta onestà, che papa Francesco, rimettendo in auge la logica del Concilio Vaticano II, ha rotto un equilibrio ecclesiale che aveva gradualmente “bloccato” ogni possibile riforma. Per questo mi sembra utile provare a presentare meglio questo “dispositivo di blocco”, contro cui Francesco lavora ormai da quasi 7 anni. Un discorso istituzionale deve necessariamente chiarire questo punto, sul quale spesso le analisi sono evasive o piene di rimozioni. Riprendo per questo integralmente la Introduzione del mio volume “Da museo a giardino”, dedicato precisamente al chiarimento di questo “dispositivo”.

 

Introduzione

Nelle attuali condizioni della società umana, essi (i profeti di sventura) non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale,  alla giusta libertà della Chiesa”

Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia

Da qualche tempo rifletto su un paradosso che mi sembra davvero curioso. Abbiamo un tradizione recentissima che offre uno spettacolo davvero sorprendente. Vi è un papa che, sulla base di una teologia pienamente ispirata al Concilio Vaticano II, chiede una nuova e strutturale “apertura” alla Chiesa. Una cosa di tale forza non si sentiva da 50 anni e più. Accanto a lui e intorno a lui, oltre all’entusiasmo popolare e alla larga collaborazione pastorale e accademica, diversi pastori e teologi mostrano di avere paura di questo progetto e alzano barriere per evitare ogni apertura. E mentre il papa sa che la apertura, la uscita, è vitale per l’essenza stessa della Chiesa, i suoi avversari identificano la Chiesa con la chiusura, con l’autosufficienza e con il giudizio. In questo libro vorrei provare a interpretare meglio questo paradosso. E a ragionare sulla evoluzione della “forma ecclesiae”, a quasi 60 anni dal Concilio Vaticano II, nella benedetta contingenza del papato di Francesco, ma anche nella prospettiva di una ripresa della ricerca teologica, alla volta di soluzioni finora neppure prevedibili, e con un nuovo slancio di immaginazione e di creatività.

0.1. Il Papa e i “segni dei tempi”

Dire che la teologia di papa Francesco è “conciliare” potrebbe essere solo un vuoto slogan. Come tale sarebbe solo una affermazione dannosa. A me pare, invece, che la conciliarità di Francesco risieda in un “approccio” che potremmo definire con una parola che ha accompagnato profondamente il percorso di elaborazione del Concilio Vaticano II: ossia la percezione di un rapporto – urgente e decisivo – della Chiesa con i “segni dei tempi”. E’ questa una delle intuizioni più feconde di Giovanni XXIII, che viene espressa con chiarezza nell’ultima sua enciclica “Pacem in terris”. Con questa espressione papa Giovanni indicava “esperienze del mondo moderno” da cui la Chiesa ha qualcosa di decisivo da imparare. Nel testo papale ci si riferisce alle condizioni dei lavoratori, alle donne nello spazio pubblico e ai popoli con pari dignità: sono eventi che si sono manifestati nel XX secolo, e da cui la Chiesa deve trarre decisivi insegnamenti. Potremmo dire che Francesco sa che la Chiesa deve essere, contemporaneamente, docente e discente. Non solo può insegnare cose decisive alla storia, ma può trarre dagli sviluppi economici, dai nuovi diritti delle donne e dalla emancipazione politica dei popoli comprensioni più profonde del Vangelo.

0.2. L’approccio “napoleonico” dei teologi e dei canonisti

Tuttavia, mentre Francesco cammina sicuro per questa via, una parte non inconsistente del corpo ecclesiale, al centro come in periferia, in campo pastorale e teologico, nelle curie come nelle accademie, resta ferma a rappresentazioni vecchie e a pratiche superate. Continua a ritenere che la Chiesa possa e debba “blindarsi” in un corpus completo e immodificabile di “leggi” e di “dottrine” che il Codice e il Magistero sarebbero destinate a custodire gelosamente. Che abbia solo da insegnare e nulla da imparare. Che possa gestire dall’interno ogni questione, senza dover mai rendere conto “a terzi”; che possa costruire una “logica parallela” al mondo, che alimenta la indifferenza: leggi diverse, tribunali diversi, comportamenti diversi, intesi non come “trascendenza escatologica”, ma come “alternativa istituzionale”. Accanto alla “Chiesa in uscita”, profetizzata dal Vaticano II e ripresa da Francesco, vediamo esprimersi e resistere una Chiesa “antimoderna” e “con porte blindate”. Una tale idea di Chiesa – ermeticamente chiusa – applica a sé, paradossalmente, proprio quell’ideale illuminista e napoleonico della “legge universale e astratta”, che per 100 anni era stato combattuto, e che poi a partire dagli inizi del XX secolo, è diventata la strategia maggiore del magistero cattolico, assunta nel Codice e nel Magistero, garantiti dal centro di autorità e di potere romano. Ideologia antimoderna e risorse giuridiche moderne si alleano per “bloccare” la tradizione.

0.3. La “libertà” della teologia secondo Francesco.

Che cosa può fare, in questo ambito, la teologia? E’ evidente che, nella prospettiva del Vaticano II e di Francesco, secondo la logica di Giovanni XXIII dei “segni dei tempi”, un pensiero teologico vivo e acuto, capace di riflessione e di preghiera, è uno degli strumenti essenziali per “aprire” la Chiesa. In molte occasioni, nel magistero di papa Francesco, questo racconto è stato proposto: è il racconto di una teologia che non sta “al balcone” o “alla scrivania”, ma “per strada”. E’ stato espresso, in modo singolarmente vivo, nel famoso discorso al Collegio degli scrittori della Civiltà cattolica (2015), come una “teologia” delle tre “i”: una teologia della inquietudine, una teologia della incompletezza e una teologia della immaginazione. Sono le tre “i” che all’inizio di “Tempi difficili” di Ch. Dickens vengono messe sul banco degli imputati dalla nuova cultura “generale e astratta”. In un certo senso possiamo dire che gli ideali del “sistema istituzionale” guardano con preoccupazione ad ogni manifestazione di inquietudine, di incompletezza e di immaginazione. Anche il “sistema ecclesiale” – se rinuncia alla propria sostanza profetica ed escatologica – esige totale completezza, tranquilla autosufficienza, rigoroso principio di realtà. E accade che il sistema ecclesiale, come ogni altro sistema, rischi di pretendere questa “blindatura” anche da quei “funzionari” che si chiamano teologi. Che dovrebbero soltanto giustificare lo status quo, senza introdurre elementi di inquietudine e di turbamento, ma ripetendo semplicemente ciò che il codice e il magistero ha storicamente affermato: come se la storia fosse finita e la Chiesa potesse essere soltanto “retro oculata”. Una teologia che producesse un pensiero ispirato soltanto da questa “paura” – e che pertanto utilizzasse la ragione soltanto al servizio di questo “affetto timoroso” o “attaccamento nostalgico” – sarebbe uno dei più gravi motivi di crisi della Chiesa.

0.4. La incompatibilità tra Veritatis Gaudium I e Veritatis Gaudium II

Questa condizione paradossale appare in tutta la sua lacerazione nel testo di Veritatis gaudium (2018) che è la nuova Costituzione Apostolica sugli studi ecclesiastici. Sarebbe difficile immaginare un più forte contrasto tra un Proemio, la cui apertura è davvero impressionante, e il successivo “articolato normativo”, di cui impressiona altamente la chiusura.  Se davvero l’assetto degli studi ecclesiastici deve assumersi il compito di un “cambio di paradigma” e di una “rivoluzione culturale” – come si afferma con toni perentori nei primi 6 numeri del documento – dall’articolato successivo sembra che questo sia possibile solo ad una Chiesa in cui questo compito sia affidato soltanto al papa, e dove poi tutti i teologi possano ripetere una dottrina già compiuta e perfettamente coerente, che ricevono dall’alto e alla quale obbediscono senza reticenze. La storia della Chiesa, però, dimostra che le cose non hanno mai funzionato così. E si deve dire, con grande chiarezza, che dare forma agli studi ecclesiastici secondo la mens di VG 1-6 non può in nessun caso seguire le normative stabilite da quanto segue. Anzi alla dottrina di una “chiesa in uscita” segue una normativa di una “chiesa senza uscite”. Il titolo – Veritatis Gaudium” – riguarda i primi 6 numeri. Tutti gli altri dovrebbero intitolarsi Veritatis Angor! E non vorrei che i teologi dovessero essere costretti a reagire con una “obiezione di coscienza” nei confronti della parte normativa, per restare fedeli alle intenzioni del Proemio.

0.5. Il monito di W. Boeckenfoerde e il silenzio imposto

Una chiesa realmente capace di “imparare anche dalla storia contemporanea” ha bisogno di un’altra libertà di pensiero e di un’altra struttura di relazioni accademiche e istituzionali. Lo aveva già segnalato, molto lucidamente, il giurista tedesco Wolfgang Boeckenfeorde quando aveva denunciato la maggiore chiusura della normativa sulla “libertà teologica” del codice del 1983 rispetto al codice del 1917. Vorrei presentare nel dettaglio la posizione del grande canonista tedesco nel II capitolo di questo testo. Qui ne anticipo solo il senso, ossia la trasformazione della normativa “negativa” del 1917, a quella “positiva” del 1983 ha ridotto pesantemente lo spazio di manovra della libera ricerca teologica. La imposizione del “silenzio” negli ambiti che meritano una discussione competente costituisce un segno di pericolosa “autoreferenzialità” su cui la normativa di VG calca ulteriormente la mano. E’ davvero paradossale che ad un Proemio in cui, per la prima volta nella storia della Chiesa, si acquisiscono prospettive di apertura e di libertà davvero consolanti e promettenti, corrisponda una normativa che risulta meno aperta rispetto a quella del 1917 e del 1983! Occorre dirlo con chiarezza: senza una modifica radicale della normativa, le parole del Proemio corrono il rischio di essere intese come una verniciata ideologica senza radice. Che non impediscono al papa di essere profeta, ma che, secondo quanto segue, proibiscono recisamente ogni sguardo profetico e escatologico a tutti i soggetti diversi da lui. E non sarebbe proprio un bel modo di onorare i “segni dei tempi”.

Ma questo esito paradossale è lo sbocco di uno sviluppo recente, che mi pare di poter identificare in un “assetto” del magistero cattolico segnato da un “principio”, o meglio da un “dispositivo”, che introduce un elemento di sostanziale “paralisi” o “blocco” della tradizione. La tradizione, che il Concilio Vaticano II ha rimesso in movimento, viene riletta secondo una logica che la “rinchiude in se stessa”. Il senso di questo breve scritto sta nel precisare la “forma” e le “implicazioni” di questo “dispositivo”, che definisco “dispositivo di blocco” e che faccio risalire alla influenza teologica e disciplinare del pensiero di J. Ratzinger. In esso prende figura una sorta di “resistenza ai segni dei tempi”, che diventa principio di autoreferenzialità, lettura riduttiva della cultura e esclusione di libertà.

06. Ancora un “oltre”

Circa 13 anni fa, alla vigilia di quello che oggi possiamo riconoscere come la più sorprendente applicazione del “dispositivo di blocco”, avevo scritto “Oltre Pio V”. Era questa la prospettiva che allora mi sembrava di dover rilevare, con un occhio attento anzitutto alle dinamiche liturgiche della tradizione. Ma oggi, a distanza di 13 anni, con tutto quello che si è manifestato, nel bene e nel male, lungo questo percorso, mi sembra che, in un quadro molto più complesso, resti di attualità la preposizione “oltre”. Si tratta si superare non semplicemente un “ordo” rituale, ma un modo di pensare la storia e la tradizione della Chiesa, che è il fondamento intellettuale e sentimentale di una “società chiusa”, che vive secondo l’”onore” e non secondo la “dignità”. Come è evidente, questo sguardo passa dalla “forma rituale” alla “forma ecclesiale” e scopre, come aveva già fatto G. Dossetti, più di 50 anni fa, che la forma rituale è precisamente la più radicale e viscerale delle “forme ecclesiali”. Perciò collocarsi non solo “oltre Pio V”, ma “oltre il dispositivo il dispositivo di blocco” diventa la via, inevitabilmente stretta e accidentata, per restare fedeli al Vaticano II e riconciliare dottrina e realtà, fede e cultura, autorità e libertà. In un certo senso potremmo dire che “oltre Pio V” è diventato, oggi, una applicazione specifica del dispositivo generale, entrato in vigore alla fine degli anni 70 e rimasto operante fino ad oggi, con la benedetta eccezione di papa Francesco, che se ne è largamente, anche se non completamente liberato.

0.7. Il percorso del testo

Nel libro vorrei percorrere un breve itinerario in 4 passaggi: anzitutto focalizzo la attenzione sul “dispositivo di blocco”, mostrando come, tra la fine degli anni 70 a l’inizio del secondo decennio del XXI secolo, l’autorità di J. Ratzinger (prima come Arcivescovo di Monaco-Frisinga, poi come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e infine come Papa Benedetto XVI) abbia introdotto nel magistero cattolico un “dispositivo di blocco”, per proteggere la Chiesa da ogni possibile dinamica, confermando la sua autorità mediante una “negazione di autorità” (§.1). Poi approfondirò il ruolo di “paralisi” che investe la “libertà del teologo” nel sistema affermato dal “dispositivo” (§.2) rispetto a cui troviamo una prima eccezione in “Amoris Laetitia”, che si giustifica, precisamente, mediante una “diversa comprensione del magistero”, come risulta nei suoi primi numeri. Quindi vorrei riprendere le due “tentazioni” (neo-gnosticismo e neo-pelagianesimo) che possono essere comprese come supporto della “autoreferenzialità” e del “dispositivo di blocco”, come suo fondamento teorico, finalmente superato dalle affermazioni decisive di Veritatis gaudium (§.3) e poi concludere con una breve serie di tesi, sul rapporto tra autorità e libertà nella Chiesa a 60 anni dal primo annuncio del Concilio Vaticano II e al 6^ anno del papato di Francesco (§.4).

 

 

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