Autorità e “dispositivo di blocco”: di un certo uso della teologia di J. Ratzinger


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Ad discendum item necessario dupliciter ducimur, auctoritate atque ratione.Tempore auctoritas, re autem ratio prior est”
(Aug., De ord., II, IX, 26 [CCL, XXIX, 121, 2-122, 4].

 

Vorrei tornare con una certa precisione su un “modello di argomentazione” che a partire dagli anni ‘70 si è diffuso nel discorso magisteriale cattolico e ha assicurato progressivamente una vera e propria “paralisi” di quell’orientamento alla riforma e ai processi di aggiornamento, che il Concilio Vaticano II aveva provvidenzialmente reintrodotto nella vita della Chiesa. Altrove ho già trattato il fenomeno, identificando una sorta di “stile magisteriale”, che si basava su una strategia paradossale: negando la propria autorità, esso conserva tutta la sua autorità. (Cfr.  http://www.cittadellaeditrice.com/munera/chiesa-in-uscita-e-esercizio-dellautorita-oltre-un-luogo-comune-del-magistero-recente/…). Riprendo qui brevemente il senso di quel primo ragionamento1.

1. Il problema della autorità

Nel testo citato osservavo come, nel dibattito ecclesiale scaturito dalle parole profetiche di papa Francesco sulla “Chiesa in uscita” e sul “superamento della autoreferenzialità”, non si fosse ancora chiaramente compreso quanto questa priorità, che giustamente il papa ha enunciato fin dai primi giorni del suo ministero – e che già era chiaramente presente nel suo testo presentato alla Congregazione dei Cardinali in conclave – richiedesse una profonda revisione dello stile con cui la Chiesa pensa e agisce rispetto al tema del “potere”  e della “autorità”. Per poter “uscire dalla autoreferenzialità” e diventare davvero “eteroreferenziale” – ossia per non mettere al centro sé, ma l’Altro e l’altro –  la Chiesa deve anzitutto riconoscere di essere investita di una reale ed efficace autorità. In altri termini, essa deve poter confidare nella possibilità di intervenire autorevolmente sulla propria dottrina e disciplina – su ciò che pensa di sé e su ciò che fa di sé -, senza cedere alla tentazione di “impedirsi un ripensamento”, magari in nome della fedeltà alla tradizione.

Se la Chiesa pensa che l’unico modo di essere fedele al Vangelo sia continuare in tutto e per tutto come prima – sia dottrinalmente sia disciplinarmente – si convincerà subito di dover restare assolutamente immobile per essere pienamente se stessa. Farà dell’immobilismo la sua ossessione. A questa tentazione Francesco ha voluto rispondere con tre anni di una parola profetica, che vuole anzitutto persuadere la Chiesa e il mondo di due cose:

– che la fedeltà è mediata dal movimento, dalla conversione, dall’uscire per strada, non dalla stasi, dalla paura e dal chiudersi tra le mura;

– che per muoversi occorre riconoscersi la autorità di stare nella storia della Chiesa e della salvezza in modo partecipe e attivo, non come spettatori muti e passivi o come semplici “notai”.

Ma questa considerazione trova più di una resistenza non soltanto nella inevitabile inerzia del modello da superare, ma anche in alcuni “luoghi comuni”, di cui vorrei considerare quello che possiamo esprimere come la riduzione della autorità alla “rinuncia alla autorità”.  Si tratta di un luogo comune molto affascinante, che assume talvolta una notevole rilevanza nella esperienza ecclesiale e che il magistero può e deve utilizzare in passaggi complessi. Si traduce, formalmente, in una dichiarazione di “non possumus”. E’ questo uno dei punti chiave del “magistero negativo”, che la tradizione antica, medievale e moderna ha coltivato con attenzione e con cura. Si tratta, in ultima analisi, di una “autolimitazione del magistero”. Ma tale autolimitazione, che di per sé è a garanzia di “altro”, e che dunque dovrebbe arginare e ostacolare le forme della autoreferenzialità ecclesiale, è entrata con grande forza nella esperienza ecclesiale degli ultimi decenni, in particolare a partire dalla fine degli anni 70.

2. Il “dispositivo di blocco”

Ora vorrei identificare con maggior chiarezza il cuore di tale argomentazione in un ragionamento artificioso – che per certi versi appare come una sorta di “sofisma” – e che non è difficile attribuire a J. Ratzinger, in una parabola temporale di almeno 35 anni, che va dal 1977 al 2012. Si tratta di un “dispositivo teorico” che realizza, mediante una indiscutibile finezza retorica, un risultato prestabilito: bloccare ogni cambiamento e far prevalere, affettivamente prima che concettualmente, un primato dell’antico sul moderno. E’ un “dispositivo di blocco”, che paralizza affettivamente, “per attaccamento”, identificando la tradizione con l’affetto, ogni progetto di riforma.

Prima di analizzare le tappe principali di questo interessante fenomeno, che per brevità chiamerò “dispositivo di blocco”, vorrei chiarire meglio la peculiarità del mio approccio:

a) L’apporto di questo “modello di pensiero” è assai significativo poiché riguarda prima il Ratzinger Arcivescovo, poi il Ratzinger Prefetto e infine il Ratzinger papa: è cioè il frutto non del “primo Ratzinger”, libero da impegni pastorali, ma del “secondo e ultimo Ratzinger”, impegnato con responsabilità crescenti a livello diocesano e poi, ben presto, di Chiesa universale.

b) Il cuore della argomentazione è il frutto non soltanto di una indiscutibile competenza teologica, ma anche della abdicazione alla ragione, in una forma piuttosto marcata, per dar spazio ad un “affetto”, o, ancora meglio, ad un “attachement”, ad una “attaccamento” irrinunciabile e assunto come auctoritas indiscutibile: la ratio cede ad una auctoritas affettivamente sovradeterminata, e per questo incontrollabile.

c) Per tale motivo oso attribuire al ragionamento la qualificazione di “dispositivo”: esso non spiega razionalmente, ma avvalora retoricamente e impone giuridicamente una soluzione che non ha solide basi se non in un affetto. Ciò determina l’effetto di far “evaporare” ogni legittima istanza di cambiamento, che trasforma immediatamente, e direi quasi violentemente, in una contraddizione con gli affetti e perciò in una negazione e in una minaccia della tradizione.

d) Funziona, infine o forse anzitutto, da supporto teorico perfetto, quasi da assioma indiscutibile,

per affermare un assetto resistente e immobile della Chiesa, di fronte ad un mondo minaccioso ed infido, al quale la Chiesa non deve piegarsi. Recuperando temi e motivi dell’antimodernismo di un secolo prima, il “dispositivo” funziona perfettamente da “blocco” contro un Concilio Vaticano II percepito, sempre meno come risorsa e sempre più come “deriva”.

In questo post vorrei mostrare questo “dispositivo di blocco” in 4 versioni, storicamente progressive, quasi come una “messa a punto” sempre più affinata e acuta di esso. La presentazione riguarderà, in ordine, 4 documenti ecclesiali del tutto caratteristici di questo approccio: la “Lettera sulla prima confessione” dell’Arcivescovo di Monaco, del 1977, la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 1994, la Istruzione Liturgiam authenticam del 2001, il Motu Proprio Summorum Pontificum, del 2007, a cui va aggiunta la “lettera ai Vescovi tedeschi” sulla questione del “pro multis”, del 2012. Al cuore di ognuno di questi documenti, in un arco di ben 35 anni, si trova lo stesso meccanismo argomentativo, chiaramente riconoscibile, affascinante e distraente, limpido e insieme oscuro, in cui attaccamento e ragione si fondono e si confondono. Una breve indagine sarà in grado di portarne alla luce il punto cieco, ma anche il debito che tutti abbiamo verso questo modo di ragionare e di impostare la riflessione sulla tradizione ecclesiale e dal quale, se vogliamo rileggere significativamente il Concilio Vaticano II, dovremmo prima o poi liberarci.

3. Quattro esempi del “dispositivo”

3.1. Nelle premesse è insinuata la conclusione: Lettera sulla prima confessione

Il primo “luogo dottrinale” in cui è messo in opera il “dispositivo di blocco” è il rapporto tra prima confessione e prima comunione, che l’allora Arcivescovo di Colonia reimposta “contro” la svolta impressa dal suo predecessore, card. J. Doepfner, il quale aveva spostato la prima confessione dopo la prima comunione. La pretesa è di contrastare un “uso pedagogico” della tradizione, ma la teologia che dovrebbe guidare il nuovo avviso si identifica, semplicemente, con la “evidenza affettiva” del principio di autorità. Nel testo della lettera pastorale “Prima confessione e prima comunione dei fanciulli” (1977) Ratzinger arriva a capovolgere il senso della tradizione, pur di garantire la sopravvivenza della prassi (per lui) più tradizionale, affermando un primato di un sacramento di guarigione rispetto ad un sacramento di iniziazione, in grave tensione addirittura con il Concilio di Trento e con la differenza “di dignità” che esso esige sia riconosciuta tra i sacramenti. Egli afferma infatti: “solo con la confessione personale diventano vere le invocazioni di perdono della liturgia eucaristica e questa liturgia eucaristica della Chiesa conserva la sua grande profondità personale che per altro è il presupposto della vera comunione” (9). Giunge così a subordinare la comunione eucaristica alla confessione personale, come regola di approccio originario al senso della comunione stessa, con una evidente e grave forzatura della tradizione. Tutto questo, oltretutto, argomentato con una motivazione davvero sorprendente: il nuovo Arcivescovo chiede agli operatori pastorali di “lasciare le proprie idee più care per il bene della comunità”, ma di fatto, con questa lettera, egli impone le proprie idee più care – quelle per lui affettivamente più urgenti – a scapito del cammino di maturazione della comunità. Usare la Didaché come testo-chiave per affermare il primato della confessione individuale sulla comunione eucaristica è una argomentazione molto arrischiata, con un uso della “auctoritas” del tutto anacronistico e privo di riscontro storico. Ma qui, per la prima volta, salvo errore, appare il “dispositivo di blocco”: argomentando senza vero rigore, e in modo puramente affettivo, egli ottiene soltanto una “conformazione autoritaria” del comportamento, senza motivazione teologica consistente. 

3.2. Documenti non infallibili e prassi infallibili: la spiegazione di Ordinatio Sacerdotalis

Molti anni dopo, nel 1994, con Ordinatio sacerdotalis, di cui Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede fu il grande ispiratore, sul tema della “ordinazione delle donne al sacerdozio”, Giovanni Paolo II riprende con forza questo stile, dichiarando che “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”. Con una dichiarazione di “non autorità”, e di cui lo stesso Prefetto chiarisce più tardi, la natura “non infallibile”, si vuole chiudere la questione, pur non escludendo che “altre ordinazioni” siano percorribili. La negazione della autorità determina la conferma della forma classica del potere ecclesiale e addirittura pretende di riconoscere, non infallibilmente, una tradizione infallibile. Sposta la infallibilità dal documento alla tradizione, con un salto mortale argomentativo assai azzardato. Senza assumere alcuna nuova autorità, si riconosce autorità soltanto al passato, senza tematizzazione alcuna delle novità culturali, antropologiche ed ecclesiali che l’ultimo secolo aveva recato, come se la storia non fosse. Nel cuore del documento, e della sua esplicazione successiva, appare con chiarezza, di nuovo, il “dispositivo di blocco”: affetto, attaccamento e autorità sostituiscono la ragione teologica. Sentimento e potere, al posto della ragione. Anzi, la ragione dovrebbe, a posteriori, limitarsi a giustificare il sentimento di attaccamento e il principio di autorità. Ratzinger sa bene, con Agostino (cfr. esergo iniziale di questo post), che il solo principio di autorità non basta, che occorre anche trovare una “ratio”, ma auspica un lavoro razionale solo “a valle”, non “a monte”.

3.3 Per contraddire l’esperienza: traduzione letterale, anche senza destinatario in “Liturgiam authenticam” e nella lettera sul “pro multis”

Alcuni anni dopo, nel 2001, fu Ratzinger l’ispiratore della V Istruzione sulla Riforma Liturgica Liturgiam authenticam, dalla quale scaturiva una nuova versione del “dispositivo di blocco”, con la assoluta affermazione del “primato del latino” sulle “lingue vernacole”. L’effetto di questa teoria sulla traduzione, priva di fondamento storico – nella quale si arrivava a stabilire la irrilevanza della lingua dei destinatari e la pretesa di “traslitterare le figure retoriche latine” – era duplice: la paralisi del rapporto tra periferia e centro nella gestione delle traduzioni liturgiche e la dimenticanza che la “vita ecclesiale” non pulsava più nelle vene del latino, ma in quelle delle lingue nazionali, che non erano più, ormai da 50 anni, lingue di traduzione, ma lingue di esperienza e di creazione. Una ripresa successiva, nella Pasqua del 2012, da parte di papa Benedetto, di una lettera ai Vescovi tedeschi, sulla questione del “pro multis” metteva in luce, ancora una volta, la forza del “dispositivo di blocco”: la traduzione letterale “fuer viele” (per molti) doveva imporsi “affettivamente” e “autoritativamente”, mentre sul piano concettuale doveva essere smentita da una catechesi accurata, che spiegasse come “per molti” significhi “per tutti”. Una immagine di singolare evidenza della contraddizione interna al “dispositivo di blocco”.

3.4. Parallelismo rituale, con effetto anarchico: Summorum Pontificum, monstrum romanae curiae

L’ultima tappa di questo percorso efficace del “dispositivo” si incontra nel 2007, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, mediante il quale, mentre si creava un parallelismo di forme rituali del medesimo “rito romano”, ci si spogliava della autorità di orientare la liturgia ecclesiale lungo le linee della Riforma Liturgica e si rimettevano in pieno vigore i riti che la Riforma stessa aveva voluto superare, denunciandone i limiti e le distorsioni. Anche in questo caso il Magistero “si autolimita”, perde potere, poiché non avrebbe la autorità di orientare la tradizione e le scelte dei singoli ministri ordinati, ma in tal modo restituisce autorità a forme di esperienza preconciliare. Il “dispositivo di blocco” qui argomenta di nuovo in modo astorico: “ciò che è stato santo una volta, deve poterlo essere sempre”. Dunque la Chiesa non si riconosce alcun potere di Riforma. Ciò che è stato di per sé si perpetua senza alcuna possibilità di orientamento o conversione. E un principio argomentativo, di per sé negativo e puramente astorico, dà causa ad effetti storici assai gravi: perdita di controllo dei Vescovi diocesani sulla prassi liturgica, accentramento del controllo in un organo “affettivamente condizionato” – la Commissione Ecclesia Dei -, il diffondersi di una rilevanza “politica” – in senso ecclesiale e in senso mondano – della “forma straordinaria” come “forma reazionaria”. Il “dispositivo di blocco” non ha fermato le cose: ha sicuramente bloccato lo sviluppo della Riforma e ha generato un vero e proprio “monstrum romanae curiae”, con conseguenze laceranti facilmente prevedibili e oggi finalmente superate.

4. Francesco e il superamento del “dispositivo di blocco

Come è evidente, tutti questi impieghi del “dispositivo”, sia pure nella loro diversità di contesti e di intenti, fanno ricorso ad un “luogo comune” del magistero. Hanno tutti in comune una sottile dialettica tra “perdita di potere” e “assunzione di potere”: nel momento in cui il magistero dice di “non avere autorità”, lascia in una autorevolezza assoluta e indiscussa solo lo “status quo”. Esso tende ad identificare ciò che è con ciò che deve essere. E pertanto blocca il dibattito sulla relazione tra iniziazione e guarigione, sul ruolo ministeriale delle donne, sulle forme della inculturazione liturgica e sul cammino organico della riforma liturgica. Non è difficile notare come questo “non riconoscimento di autorità” si identifichi con una conservazione del potere acquisito, spesso diventando principio e alimento di una rischiosa inclinazione alla autoreferenzialità. E, come abbiamo visto, nel “dispositivo di blocco” questo risultato è ottenuto mediante una originale sintesi tra “attaccamento affettivo” e “ragione teologica ridotta al principio di autorità”.

In paragone a ciò, il “ritorno al Concilio” di papa Francesco appare segnato dalla esigenza di “ridare autorità” all’azione ecclesiale. Così di fatto è avvenuto su tutti e 4 i fronti che ho tentato di presentare: a partire dal 2017, una serie di documenti, che hanno la forma di Lettere “motu proprio”, hanno modificato profondamente sia la relazione tra lingua latina e lingue parlate (Magnum principium), sia la “riserva maschile dei ministeri istituiti” (Spiritus Domini e Antiquum ministerium) sia il parallelismo rituale tra diversi “ordines” del rito romano (Traditionis custodes), Solo così si può uscire dalla “tentazione della autoreferenzialità”. Ma per farlo occorre assumere un diverso approccio verso la tradizione. La Chiesa non si riconosce come una “storia chiusa”, come un “museo di verità da custodire”, ma come un “giardino da coltivare”. Per questo sarebbe molto utile rileggere il pontificato di Francesco, a quasi 10 anni dal suo inizio, non come una forma incerta e “soft” di ministero pastorale, ma come un ripensamento della forma della tradizione con cui la Chiesa non rinuncia ad esercitare la autorità e perciò supera il “dispositivo di blocco” che J. Ratzinger aveva messo a punto con tanta finezza per 35 anni. E’ una visione della tradizione che crea una discontinuità tra Francesco e i suoi predecessori. Francesco assume la esigenza di esercizio della autorità che i suoi predecessori avevano come sospeso, determinando spesso degli esiti caratterizzati da “paralisi”. Non è azzardato affermare che Francesco ha iniziato a  disinserire il dispositivo di blocco, cambiando sia il ruolo dell’attaccamento affettivo, sia il ruolo della ragione teologica, sia la destinazione ecclesiale del magistero. Qui, a me pare, si colloca un elemento di profonda continuità con il Concilio Vaticano II e di inevitabile discontinuità rispetto al regime controllato dal “dispositivo di blocco”. La cui incidenza, tuttavia, non è ancora tramontata, neppure su alcuni aspetti dello stesso magistero di Francesco.

 

1Ho svolto più ampiamente il mio ragionamento nel volumetto A. Grillo, Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il “dispositivo di blocco”, Assisi, Cittadella, 2019.

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