Alla scoperta di “Amoris Laetitia” (/2): Come cambia la pastorale e il diritto canonico
Una singolare ed efficace intuizione teologica alimenta la impostazione di AL: attraverso una accurata riflessione sulla delicatezza del rapporto tra “legge generale” e “caso particolare”, si riscopre la centralità del “discernimento”, che richiede l’arte dell’incontrare, dell’accompagnare, ma anche la lucidità del distinguere e dell’integrare.
Tutto questo, si deve notare, non riguarda semplicemente i “casi particolari”, o i “casi limite” sui quali si affigge l’attenzione dei più, ma ambisce ad essere principio generale di vita cristiana, ossia di “ascolto della Parola”, di “esperienza sacramentale” di “testimonianza ecclesiale” e di “rapporto con il mondo”. Tutto intero lo spettro della esperienza cristiana – che il Concilio Vaticano II ha raccolto nelle sue 4 grandi costituzioni – appare riscoperto nella sua importanza dal riemergere chiarissimo nel testo di Francesco di questo “criterio fondamentale”. Né la Parola di Dio, nel il sacramento celebrato, né la vita ecclesiale, né il rapporto con il mondo si lasciano comprendere semplicemente sulla base di una “oggettività” che si impone sul soggetto, di una “autorità” che si impone sulla libertà.
Come ha detto bene il Padre H. Legrand, esperto ecclesiologo francese, questo documento è espressione non solo del papa, ma del Sinodo dei Vescovi e per questo attesta una svolta ancora più significativa: “Vi si ritrova, come nel Vaticano II, il primato del Vangelo sulle norme”.
Ora, queste acquisizioni, di grande rilievo, e che rappresentano un “conversione e autolimitazione del magistero papale”, con una ripresa potente del magistero episcopale, conducono ad una serie di conseguenze pastorali e canoniche di assoluto rilievo e sulle quali dovremo lavorare nei prossimi mesi ed anni. Provo qui ad elencarle:
a) Dare forma “esterna” al “foro interno”
Nella recezione del dettato di AL occorre chiarire un primo punto delicato: la sottolineatura del “foro interno” – che è essenzialmente “per differenza” dal “foro esterno”, ossia dal giudizio mediato da una procedura giudiziaria – non significa affatto definire una sua marginalità rispetto alla “forma” pastorale e canonica. Se leggiamo il testo che risulta più esplicito al proposito nella Esortazione Apostolica, possiamo trarne una serie di caratteristiche preziose:
“Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che «orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non cè gradualità (cfr Familiaris consortio, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa»” (AL 300)
E’ evidente che “foro interno” non nega, ma anzi afferma:
- il carattere di “itinerario” che la conversione assume, con elementi di ascolto della parola, di riscoperta della preghiera, di partecipazione alla celebrazione (a parti e progressivamente alla sua integralità), di recupero di logiche gratuite, caritative, generose;
- i “passi” che fanno crescere la partecipazione alla vita della Chiesa;
- la accresciuta coscienza delle esigenze di verità, ma anche le forme del comportamento che la comunione richiede (umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa…)
b) Ridare spessore al primato del tempo sullo spazio: necessità di itinerari e accompagnamento
Bisogna considerare che il grande principio che brilla già in Evangelii Gaudium e che ora è ripreso in AL (il primato del tempo sullo spazio) introduce una “variabile temporale della comunione” che rappresenta non solo una grande risorsa per la pastorale (b), ma anche un principio ermeneutico decisivo per la rilettura della tradizione canonica (c). Iniziamo a considerare qui il primo di questi due “effetti”.
La pastorale diviene “luogo di elaborazione della comunione”. Questo, ovviamente, non è nulla di nuovo. Ma la novità consiste nell’aver liberato la pastorale dalla “ossessione di una conformità immediata alla comunione”. Con una mentalità giuridica tardo-moderna, la verifica della comunione veniva pensata e concepita solo “nello spazio”, e quindi “fuori dal tempo”. Questo procedimento aveva due conseguenze deleterie:
- paralizzava la pastorale, che non aveva più alcun margine di movimento autorevole rispetto alla “legge generale e astratta”;
- trasformava facilmente la dottrina in pietra, e non in pane, perché non solo poteva, ma doveva prescindere dalla relazione.
Dietro a questo sviluppo opportuno promosso da AL possiamo scoprire anche il trasformarsi della comprensione del valore della norma rispetto alla vita. La lettura “soltanto pedagogica” della norma era divenuta principio di incomprensione della esperienza. Le norme mantengono sempre un innegabile valore pedagogico, ma non si esauriscono in esso: esse sono sempre anche forme di “riconoscimento della realtà”, della sua “meravigliosa complicatezza”, sempre più complessa e ricca del valore che al suo interno occorre incoraggiare e difendere in modo oggettivo.
In tal modo possiamo scoprire che il dischiudersi di uno “spazio di ricostruzione di una possibile comunione” mette in gioco non solo le coscienze, ma le forme dell’ascolto reciproco, della mediazione, della elaborazione del lutto e della memoria. Sono, di fatto, “itinerari” in cui si esercita l’esame di coscienza, la penitenza e la ripresa delle virtù. Cammini temporali di nuova iniziazione alla comunione, mediati dalla parola ascoltata, pregata, meditata, praticata.
c) Recuperare la distinzione tra “seconde nozze” e “adulterio”
Il secondo versante interessato da questo sviluppo è precisamente il versante strettamente “canonico”. E’ evidente, infatti, che la nuova “abnegazione pastorale”, se deve superare la tentazione di “auto-negazione pastorale”, alla quale spesso ci eravamo ormai rassegnati, deve trovare “sponda” in una nuova coscienza giuridica e canonica, che non preveda di “sequestrare l’intero orizzonte” della questione. Si noti che proprio questo era formalmente – e rimane praticamente – un ostacolo di non piccola entità. Cerco di presentarlo nel modo più chiaro possibile, in tre passi:
- Dove eravamo rimasti fermi?
La disciplina anche successiva a Familiaris Consortio continuava a proporre una identificazione immediata e diretta tra “seconde nozze” e “adulterio”. La condizione di “scomunica sacramentale” poteva essere superata solo o dalla “nullità delle prime nozze” o dalla “riduzione al nulla delle seconde”. Il criterio della “oggettività” costituiva il criterio decisivo, di fronte al quale la “coscienza” e il “tempo” non avevano alcuna autorità, né secondo Familiaris Consortio, né secondo la Lettera Annus internationalis Familiae, della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1994, né secondo la Dichiarazione circal’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposatiche il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi aveva pubblicato il 24 giugno 2000. Mentre FC e la Lettera della Concregazione sono di fatto superate dalla approvazione di AL, occorre aggiornare questa ultima autorevole dichiarazione, che dal 19 marzo si trova in aperto contrasto con il dettato di AL. Essa infatti proponeva una interpretazione del can. 915 del Codice di Diritto Canonico. Detto canone recita:
«Non siano ammessi alla sacra Comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto»
La interpretazione fornita dalla Dichiarazione intendeva spiegare che il canone, nella sua seconda parte, doveva essere applicato alla condizione dei “divorziati risposati” e che, se di discernimento si doveva parlare, lo si doveva applicare non per integrare, ma per escludere. Si parlava infatti – letteralmente – di “discernimento dei casi di esclusione dalla Comunione eucaristica dei fedeli, che si trovino nella descritta condizione”.
D’altra parte la condizione dei divorziati risposati è compresa con queste parole pesantissime:
“ricevere il corpo di Cristo essendo pubblicamente indegno costituisce un danno oggettivo per la comunione ecclesiale; è un comportamento che attenta ai diritti della Chiesa e di tutti i fedeli a vivere in coerenza con le esigenze di quella comunione. Nel caso concreto dell’ammissione alla sacra Comunione dei fedeli divorziati risposati, lo scandalo, inteso quale azione che muove gli altri verso il male, riguarda nel contempo il sacramento dell’Eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio. Tale scandalo sussiste anche se, purtroppo, siffatto comportamento non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende più necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli”.
Il testo permetteva soltanto le eccezioni previste, quasi 20 anni prima, da Familiaris Consortio, ma era evidente come continuasse a pensare i “divorziati risposati” con la categoria classica di “infami”. Si deve notare, inoltre, che la argomentazione messa in campo utilizzava il “luogo comune” della “mancanza di autorità” della Chiesa di fronte ad una “legge divina”:
“La proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa”.
- Dove sta la novità?
In AL leggiamo, a chiare lettere, una comprensione nuova e una prospettiva che si libera da una concezione “solo pedagogica” della legge. Il testo di papa Francesco, infatti, esercita l’autorità, con piena coscienza e con grande equilibrio, intervenendo sulla interpretazione della tradizione e – a fortiori – del canone 915. Si legge, infatti, in AL 310
“Per comprendere in modo adeguato perché è possibile e necessario un discernimento speciale in alcune situazioni dette irregolari, c’è una questione di cui si deve sempre tenere conto, in modo che mai si pensi che si pretenda di ridurre le esigenze del Vangelo. La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta irregolare vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale» o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, «possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione»”.
Questa formulazione fa saltare l’automatismo oggettivo e normativo, che identifica “situazione irregolare” e “peccato mortale”. In qualche modo non identifica più – in generale e necessariamente – il “divorziato risposato” con l’”adultero”. Ma questo, per di più, corrisponde ad un “principio generale” che viene espresso così: “È meschino soffermarsi a considerare solo se l‘agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell‘esistenza concreta di un essere umano” (AL 304).
- Quali conseguenze “canoniche”?
Se AL supera sul piano formale l’autorità di pronunciamenti precedenti – e sarebbe contraddittorio pensare che debba essere AL ad essere corretta da FC e non viceversa – occorre oggi adeguare anche i principi di una “ermeneutica giuridica” che potrebbe, da oggi, ostacolare la traduzione pastorale del nuovo principio. Mi riferisco, in modo particolare, alla citata “interpretazione autorevole” che il Pontificio Consiglio per la Interpretazione dei testi legislativi aveva dato del canone 915.
Dal 19 marzo il criterio di interpretazione del canone 915 è mutato, almeno per quanto riguarda la sua applicabilità al caso di “seconde nozze”. Tale caso deve essere valutato con una forma nuova di discernimento. Mentre prima il discernimento era inteso solo “ad excludendum”, ora, invece, il discernimento sta nell’orizzonte di una scelta complessiva ispirata alla luce della misericordia e alla via caritatis: “due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare. La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione” (Al 295).
Di qui discende un compito urgente: occorre quanto prima offrire una interpretazione aggiornata e illuminata del can 915 e della sua applicabilità al caso dei “divorziati risposati”. La applicabilità sussiste ovviamente anche oggi, come ribadisce anche AL, ma a condizioni profondamente rinnovate e con uno stile e un linguaggio da adeguare alla nuova visione, che non può più autorizzare le espressioni inadeguate, rozze e irrispettose del testo interpretativo del 2000.
d) La profezia del Vescovo-avvocato J.-P. Vesco, allievo di S. Tommaso
S. Tommaso di chiedeva se fosse giusto che la legge civile dovesse perseguire tutti i vizi. E rispondeva di no. Una certa “differenza” tra diritto e morale era percepita, nella Chiesa medievale, come una felice necessità. La Chiesa moderna, per diverse ragioni, ha potuto trasformare la propria visione, inclinando, non di rado, verso un certo massimalismo. Che ha assunto, soprattutto nell’ultimo secolo, un volto ufficiale, soprattutto a partire dal Codex del 1917. Se non esiste alcuna “distinzione possibile” tra contratto e sacramento, questa sovrapposizione immediata uccide ogni possibile discernimento, preclude lo stesso ragionamento sia sul “male minore”, sia sul “bene possibile”. La estensione del concetto di “intrinsece malum” – che ha assunto un ruolo assai forte a partire da Veritatis Splendor (1993) – permette di ridurre il potere della Chiesa e quindi di escludere tutte le mediazioni possibili. Trasforma ogni mediazione concreta in “disobbedienza alla legge universale e astratta”, ma in tal modo ottiene l’effetto di assolutizzare le mediazioni classiche, pretendendo così di renderle immutabili. E confonde la fedeltà con la rigidità.
Ora Francesco – non da solo, ma in comunione con il Sinodo dei Vescovi – ci riconduce ad una logica più complessa e più ricca: non accetta più che la logica massimalistica – per la quale vale solo il bene massimo garantito dalla norma generale e astratta – sia l’unica via coerente con la fede e con la comunione ecclesiale. Anzi, mostra quanto rischiosa sia questa convinzione.
La strada intrapresa era stata additata, sia pure con linguaggio diverso, dal Vescovo di Oran, J.-P. Vesco. Egli aveva sollecitato la Chiesa a “rivedere la categoria del reato di adulterio”. Egli sosteneva che da reato continuato l’adulterio dovesse essere considerato reato istantaneo. Di fatto, con AL, possiamo dire che la “svolta pastorale” ha operato, indirettamente, questa nuova ermeneutica del concetto giuridico. Nel suo bel testo – Ogni amore vero è indissolubile – Vesco sosteneva che un serio confronto tra la tradizione cristiana e le forme di vita contemporanee imponeva un ripensamento del rapporto tra “seconde nozze” e “adulterio”. Ma questo neppure in Vesco si basava su una nuova descrizione delle patologie bisognosa di cura, quanto su una rinnovata comprensione della fisiologia dell’amore, come esperienza originaria di un “legame per sempre”: anche per Vesco, come per Francesco, è una nuova ermeneutica non giuridica della fisiologia del matrimonio che permette di pensare, con fedele libertà, i rimedi migliori per le sue vecchie e nuove patologie.
“è una nuova ermeneutica non giuridica della fisiologia del matrimonio che permette di pensare, con fedele libertà, i rimedi migliori per le sue vecchie e nuove patologie”.
Mi scusi, ma a questo punto non valeva liberalizzare il divorzio (o ripudio o scioglimento o… come lo si chiami), tenendo conto che peraltro Cristo stesso lo aveva giustificato in precedenza “per la durezza dei nostri cuori”?
Perdoni, ma proprio non continuo a capire il senso di tutto lo “sproloquio” bergogliano, che francamente mi sembra alquanto tentennante, in alcuni passi spregiudicato (numeri 2 e 3) in altri estremamente vigilato … Se si vuole intervenire sull’unicità e unità del vincolo, riconoscendo che le situazioni odierne da un punto di vista culturale e sociologico non sono più le stesse di secoli fa, perchè non parlare apertamente e ammettere le possbilità di convolare a nuove nozze? Perchè allora non stabilire che la comunione sacramentale è solo simbolica? Da questo punto di vista sono rimasto un po’ deluso, mi sarei aspettato più coraggio. Eppure, a ben vedere, sono questi i punti in ballo. E scommetto che l’Eucarestia sarà la prossima testa a cadere…
Lei stesso, caro Grillo, con i suoi interventi (assieme a quello di molti suoi esimi colleghi) conferma di fatto una realtà di fondo: l’insieme nebuloso di un’esortazione che dice e non dice, che pretende adempimento ed esige interpretazioni. Chi è il padre della confusione?
Gradirei risposte non convenzionali, grazie. Il documento l’ho letto.
Non capisco perché si debba parlare di sproloquio quando un papa assume la complessità…mi pare ingiusto.
Non do mai risposte diverse da ciò che penso. Ma il parallelo con la eucaristi mi pare forzato.
Caro Matteo buone cose
Caro Grillo,
vedo che Lei riesce magistralmente ad eludere i punti spinosi. L’esortazione mi è parsa uno sproloquio, perchè la giudico troppo tentennante, non coraggiosa nella sua prolissità. Assumere la complessità non significa esprimersi in forme contorte e a volte autocontraddittorie. Che il documento scatenerà una ridda babilonica di interpretazioni divergenti è scontato: per lei è la bellezza del pensiero cristiano (uso questo aggettivo,visto che “cattolico” non Le sta per nulla simpatico), per me il pericolo e il segno della disgregazione di questi tempi. Vedute? Sarà, vorrà dire che anche noi facciamo parte di questi tempi.
Sul parallelo da Lei contestatomi con l’Eucarestia: lo capisce anche un bambino che, se in nome di una non meglio definita “misericordia dall’odore delle pecore” (=umana), mettimo in dubbio nei singoli casi la presenza del vincolo matrimoniale, accettiamo che non ci sia più situazione di peccato che non possa essere giustificata (il discernimento, da questo punto di vista, è la geniale furbata inventata per coprire forme di autogiustificazione? non lo so, domando a Lei). Allora non capisco più a cosa possa servire la comunione, se non a dimostrare con atto simbolico la mia simbolica appartenenza ad una non meglio specificata comunità cristiana. Ribadisco che l’Eucarestia sarà la prossima testa a cadere, se già non è caduta, vista la generale disaffezione di quello che ancora qualcuno si ostina a chiamare popolo dei fedeli (basta vedere la partecipazione alla Sacra Liturgia)…
La ringrazio comunque per questo spazio, non scontato, di confronto.
Caro Matteo,
io ascolto con attenzione le sue parole. E mi metto nei suoi panni. Da un lato lei vorrebbe parole più chiare. Sono convinto che in astratto molti nella Chiesa vorrebbero lo stesso. E non credo di esagerare se penso che anche il papa sarebbe di questa idea. Ma per camminare tutti insieme occorre assumere, anche nel linguaggio, tutta la complessità del reale. In questa complessità anche il linguaggio si fa necessariamente complesso. Ma non solo per “risolvere i problemi”, ma per dire la bellezza della grazia. Lo vede bene nella stessa struttura del testo. I diversi capitoli hanno stili, fonti, linguaggi diversi. Potremmo avere nostalgia della lapidaria forma espressiva del lateranense IV o del tridentino. Ma quello era non solo un mondo, ma una chiesa diversa. Oggi siamo 5 continenti, allora eravamo pochi stati europei…
Quanto alla eucaristia, non vedo teste che cadono, né ora né domani. Certo, forse ha letto che Fellay, a capo dei lefebvriani, mette a paragone il discernimento sugli irregolari con la “comunione nella mano”…se restiamo legati a questa percezione della eucaristia leggiamo gi ultimi secoli come decadenza. Ma io vorrei che tenessimo conto che la comunione, nell’ultimo secolo, ha guadagnato moltissimo spazio, a partire da Pio X e poi con il Vaticano II e la Riforma Liturgica. La nuova sfida, oggi, è correlare il fare la comunione con il “fare penitenza”, che non si identifica semplicemente con la confessione. SU questo punto anche AL può essere una occasione per “capire meglio la tradizione”. Così, come vede, più che teste che cadono, io vedo una chiesa che “mette la testa a posto” e “con la testa sulle spalle”…ma questa diversità di giudizio non ci impedisce di dialogare e di apprezzare la passione con cui lei segue gli sviluppi della prassi e del pensiero ecclesiale. Un caro saluto
[…] Pubblicato il 11 aprile 2016 nel blog: Come se non […]
Ho sempre sostenuto che il peccato contro l’indissolubilità del matrimonio fosse il divorzio (non separi l’uomo quel che Dio ha unito…), non le seconde nozze. Peccato gravissimo, certo, ma perdonabile – a seguito di opportuno discernimento, come ha ora ben spiegato il Papa in AL – come tutti i peccati. Forse perchè anch’io, come il Vescovo Vesco (che però non conoscevo), sono avvocato e la categoria della permanenza nel peccato (una sorta di infelice estensione alla dottrina canonica del “reato permanente” di elaborazione giurisprudenziale) mi è sempre sembrata una forzatura: il peccato dell’uomo è sempre puntuale, solo la Sua grazia è permanente! Sono felice che AL abbia abbandonato questa invenzione, sottolineando giustamente come essa non abbia alcun fondamento evangelico, anzi contraddica la misericordia. Concordo che, per ancora maggior chiarezza, con la revisione del canone 915 andrebbe rivista anche la definizione delle seconde nozze come “adulterio”, termine che infatti non a caso non compare affatto in AL.
Infine vorrei chiederLe se, dato che nel paragrafo 297 il Papa dice espressamente di riferirsi non solo ai divorziati risposati, ma a tutte le situazioni finora considerate “irregolari”, l’accesso ai sacramenti a seguito di discernimento previsto dalla nota 351 possa considerarsi possibile anche per conviventi e coppie gay. Con riferimento a queste ultime, infatti, mi sembra che il Papa si sia limitato a negare giustamente alle unioni fra omosessuali, giuridiche o no, la stessa portata del sacramento del matrimonio, non condannando però, diversamente che nel Catechismo, gli atti omosessuali in quanto oggettivamente ed intrinsecamente errati, nè ribadendo l’obbligo per i gay di vivere in castità (altrimenti verrebbe contraddetta l’apertura per i divorziati risposati, che infatti, così sembrerebbe dalla nota 329, non sono più tenuti a vivere come fratello e sorella). Grazie per le Sue preziose osservazioni e fin d’ora, se potrà, per la Sua risposta. Un saluto con stima
Gentile Raffaella,
mi pare che le sue considerazioni siano di grande utilità. Da un lato, infatti, la rielaborazione della categoria di “seconde nozze” permette di distinguerle dall’adulterio e quindi di rendere possibili “processi di integrazione” attraverso il discernimento. A me interessa che si esca da una logica “definitoria” e “metafisica” e si entri nel tempo, nei processi e nella storia. Anche la estensione del par. 297 credo che non sia esclusa. In particolare dal momento che la logica che AL utilizza prescinde dall’affidare tutto a “leggi oggettive”, ma pretende sempre una mediazione tra “legge” e “circostanze”. Lo spazio del discernimento è chiuso soltanto da espliciti divieti. Quando non sono espressi, non vincolano il discernimento e il suo esito. Un cordiale saluto
gentilissimo Andrea Grillo
leggo qui come altrove, una sarabanda di interpretazioni e di vituperi contro l’AMORIS LAETITIA.
A parte che parecchie volte mi viene fortemente da dubitare che alcuni commentari,qualche volta , sproloquianti, abbiano letto con calma tutto il documento, cercando di capire, di collegare le varie affermazioni, di stare al testo ecc ecc che è una faticaccia – che merita.
Scusate la premessa.
Io sono un laico che fa catechesi agli adulti in parecchie parrocchie.
E qui trovo (mi scuso se cambio i nomi ) che Maria qualche anno fa ha ricevuto una telefonata da suo marito da Napoli che gli comunicava che il giorno dopo non sarebbe venuto a casa perchè andava a vivere con la segretaria.
Oppure Giuseppina che scopre per caso la solita email inviata al marito dalla Carlotta con cui sta per avere un figlio.
Oppure Giulia che scopre che il marito in Crocerossa se la faceva con Olga ( con cui ora vive).
Oppure di Pietro che già nel primo mese ha una moglie che non vuole aspettare per cenare con lui, nè gli cucina niente, nè gli prepara vestiario e altro ecc
Oppure tanti altri casi di uomini e donne che sono stati lasciati perchè lui o lei si sono innamorati di altri.
Tutto questo ( e ce ne sarebbe molto da raccontare ) per chiedermi se la vita di queste donne e questi uomini possa sempre rientrare nei precisi e stretti canoni generali.
Che si fa? Ognuno si arrangi ?
oppure vediamo insieme che possiamo fare umanamente e cristianamente? con fatica, approssimazioni, tentativi, barcollamenti, …..
un saluto e scusate la lunghezza
una preghiera
paolo