A proposito di “Summorum Pontificum”: una lettera di Zeno Carra
Una cosa buona è che si possa dialogare, con calma e con chiarezza, di cose teologiche e liturgiche. Già altre volte è accaduto su questo blog e sempre è stato molto utile. Ho ricevuto da Don Zeno Carra questa lettera che reagisce ai miei ultimi post sul tema del Motu Proprio Summorum Pontficum. Don Zeno scrive cose importanti, pensate e appassionate, che propongo alla lettura di tutti. E alle quali vorrei rispondere in un prossimo post. Buona lettura.
Madrid, 24.02.2019
Gentile professore,
Seguo con interesse gli articoli sul Suo blog, ed in particolare gli ultimi interventi che ha pubblicato in merito al motu proprio Summorum Pontificum.
Non faccio mistero di aver appreso, anni fa, a celebrare secondo il rito liberalizzato da tale documento, per rispondere alla richiesta di alcuni fedeli negli anni del ministero parrocchiale, ed anche per interesse personale.
Gli anni dello studio a Roma mi hanno aperto gli occhi sugli aspetti più propriamente teologici della questione: senza rinnegare il beneficio ricevuto dalla pratica di tale esperienza celebrativa, su alcuni aspetti non marginali ho dovuto, seppur con fatica, cambiare idea. Vedo ora con chiarezza che, in alcuni tratti, le due forme celebrative non sono giustapponibili, ma si escludono reciprocamente. Resto convinto, per quel che conosco, che la sezione del racconto di istituzione, come ho avuto modo di scrivere1, sia punto cruciale che impone l’aut aut tra due teologie, due ontologie diverse.
Per questo, devo ammettere che – lo dico dal punto di vista della spiritualità che la celebrazione ingenera nei laici e clero celebranti – il passaggio da una forma all’altra impone il passaggio da un orizzonte di riferimento ad un altro, con solo due esiti possibili: a. una certa “schizofrenia” spirituale; b. la riduzione forzata di un rito all’altro (e qui è possibile solo ridurre il novus ordo al vetus ordo, celebrando il primo dentro l’alveo ermeneutico del secondo). Per questo giungo a concordare con Lei che la misura del motu proprio abbia ingenerato una situazione abbastanza tensionale, rispetto alla possibilità già esistente precedentemente, in via di indulto.
Detto questo, mi sono preso la libertà di scriverLe, per sottoporLe alcune osservazioni nate dalla lettura del Suo blog, ed in particolare dall’ultimo articolo a commento della pagina autobiografica di J. Ratzinger2.
Io sono del parere che la questione, tra come lucidamente la pone Lei, e la provocazione che offre lui, evidenzi al suo interno più piani che spesso – mi sembra – non si incontrano.
I Suoi interventi, da come capisco, si incentrano sul piano dell’epistemologia intrinseca del fatto giuridico “riforma”: una riforma sussiste se il suo esito sostituisce l’oggetto riformato.
La dura provocazione di Ratinger, invece, mi sembra colpire non tanto tale livello, quanto entrare nei meriti contenutistici specifici di ‘questa’ riforma. Egli cioè non va a discutere il fatto in sé di aver riformato il rito romano, ma il modo in cui ciò si è fatto. Quantunque questo non resti senza effetti sul primo livello, i due non coincidono. Si può essere d’accordo che ci volesse la riforma, e che sia stato un bene che essa sia avvenuta, ma si può dissentire in merito ad alcune scelte materiali di tale riforma.
Per questo, pur essendo pienamente d’accordo con Lei sul piano epistemologico-giuridico, non posso non continuare a nutrire delle questioni sul piano specificamente materiale del problema.
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L’immagine di Ratzinger della distruzione e ricostruzione di un edificio evoca l’uso della medesima metafora edile con cui Annibale Bugnini interpreta l’opera intrapresa nella riforma liturgica: i lavori del consilium vengono qua e là descritti come un cantiere in cui si edifica una costruzione nuova3. Credo che tale immagine risentisse certamente dell’entusiasmo del lavoro in corso, però, se confrontata con quella della crescita organica suggerita da SC 23, suscita qualche perplessità. Senza mettere in discussione l’acribia scientifica dei periti4, ci si può però chiedere: con che “spirito” si condussero talvolta i lavori? La lettura un poco archeologista della storia della chiesa (che fa dell’epoca patristica l’età aurea e dello sviluppo successivo una fase involutiva), quale ruolo ha giocato?
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Da uno sguardo meramente fenomenologico sui due riti (non ho le conoscenze per un’analisi diacronica degli elementi, delle loro origini, del perché si introdussero o si tolsero…), si vede come, in taluni aspetti, il novus ordo abbia cancellato elementi del vetus che in germe contenevano sviluppi teologici e spirituali quanto mai in sintonia con il rinnovamento conciliare. Aspetti certo “atrofizzati” dalla prassi, ma pur esistenti. Alcuni esempi:
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I riti di ingresso prevedevano che il presidente salisse all’altare soltanto dopo che l’assemblea (effettivamente, o per bocca del ministrante) gli avesse indirizzato la formula del misereatur tui. Non si insediava cioè nel suo ruolo di mediazione presidenziale innanzi al popolo fedele immediatamente (come accade nel novus ordo), ma lo faceva uscendo dalle fila di questo popolo e solo dopo che esso gli avesse attestato il perdono di Dio. Questo rito, purtroppo nascosto nella prassi celebrativa dal tono sommesso della voce, o dal canto dell’antifona, avrebbe potuto essere conservato e sviluppato ed avrebbe forse giovato oggi a smorzare un certo stile celebrativo diffuso alquanto clericale.
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Per quanto l’inversione dell’orientamento celebrativo (e l’introduzione dell’idea di celebrare “versus populum”) non sia elemento vincolante della riforma5, le norme applicative (vedansi le norme CEI6) ve lo hanno incluso, tanto che nel sentito elementare si sogliono identificare i due riti in base alla posizione del celebrante all’altare. Non entro nell’ampia discussione in merito. Mi limito a riportare un’acuta osservazione di L. Bouyer7 per cui l’esigenza di “far vedere ai fedeli” quello che accade sull’altare (così lo si è recepito) tradisce il presupposto implicito che essi debbano vedere, a mo’ di spettatori, quello che l’unico attore fa davanti a loro e per loro. Tale scelta ha sorretto una ermeneutica della celebrazione (e pure un certo stile architettonico) in tal senso, palco e platea, conferenziere ed ascoltatori, … da cui si fatica ad uscire. Gli spazi e i movimenti conformano lo spirito.
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A seguito del Suo post dello scorso anno sui riti del triduo pasquale pre-riforma di Pio XII, parlando con un confratello8, sono venuto a conoscenza della presenza, in quel rito, di un residuo che attestava una teologia della consacrazione pretomista e pretridentina. Al venerdì santo il presidente si comunicava anche da un calice di vino non consacrato in cui immetteva un frammento di ostia consacrata il giorno prima9. Tale gesto viene interpretato in modo da arginarne la portata ‘eversiva’, escludendo cioè che il vino venisse in tal modo consacrato10. L’atto rituale, però conservava una possibilità per la teologia sacramentaria, che la sua soppressione ha decisamente compromesso. Se in molte cose le riforme hanno aperto possibilità teologiche nuove, in altre cose (come in questa) hanno adeguato la prassi all’ermeneutica teologica ufficiale (il tomismo). Operando nella direzione intellettualista di quegli anni per cui non tanto “legem credenti lex orandi statuat”, ma viceversa (secondo l’esegesi fatta da Pio XII di questo adagio in Mediator Dei11). Una certa cautela più conservativa, forse avrebbe permesso di tenere aperte porte che ora risultano murate.
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Una considerazione invece sul livello più giuridico della riforma. Mi sembra storicamente vera l’osservazione di Ratzinger per cui la riforma di Pio V – almeno nella norma12– lasciava un maggiore spazio di autonomia alle chiese rispetto alla riforma del 1969. Forse de facto la possibilità concessa da Pio V rimase ampiamente lettera morta perchè gran parte dell’orbe latino per vari motivi si adattò al centralismo romano13. Però ciò non toglie che tale centralismo liturgico romano abbia trovato una forte sanzione anche de iure con la costituzione apostolica che promulgava il messale del 1969. Si muove spesso l’accusa (non infondata) di un certo qual incremento del centralismo romano nel periodo postconciliare, nonostante l’ecclesiologia conciliare aprisse vie in altro senso. Forse ci si può domandare se la normativa liturgica non possa essere storicamente letta anch’essa dentro questo movimento?
Forse queste domande ed osservazioni peccano un poco di quel “revisionismo” storico che affetta la mia generazione, o i tempi presenti… però io credo che in questioni tanto sentite si possa e debba accettare una certa discussione, che al momento io non percepisco. Vedo una forte polarizzazione (pro/contro…) che impedisce di tagliare le questioni in modo meno netto.
Da una parte la miopia di chi sostiene (contro ogni evidenza della realtà) che si debba “tornare” tout court a forme precedenti per salvare la fede! Dall’altra chi fa della riforma liturgica postconciliare l’ultima indiscutibile parola. Che sia un punto di non ritorno è abbastanza chiaro (la chiesa ci si è impegnata solennemente), ma ciò non vuol dire fare dei suoi risultati il punto di arrivo insuperabile. Non comprendo la fortissima avversione al concetto di “riforma della riforma”, se questo vuol dire prendere atto dell’aggiustabilità di alcuni aspetti, della rivedibilità di talune scelte e della prosecuzione del lavoro. Anche facendo tesoro di forme che sono state messe da parte, tornando a riconoscerne i potenziali sopiti.
Mi permetta una similitudine: negli stessi anni della riforma liturgica, nelle campagne del nord Italia si cominciava ad uscire dalla miseria e a sperimentare i benefici del boom economico. Molti della generazione dei miei bisnonni e nonni, forse per lasciarsi dietro anni duri, buttarono o vendettero un patrimonio di beni con cui avevano vissuto sino ad allora (mobili, case…) per entrare con cose nuove, pratiche, funzionali, in uno stile di vita nuovo, certo più vivibile.
Oggi i nipoti, che mettono su casa, vanno da antiquari e a mercatini a cercare ciò che i nonni hanno buttato… si possono custodire le conquiste dei nostri nonni, la vita più vivibile che ci hanno procurato, anche andando a recuperare cose ai nostri occhi preziose e che per loro non avevano più alcun valore?
La ringrazio per l’attenzione dedicatami nel leggere questi fogli e per i suoi stimolanti contributi che tengono vivo il dialogo critico in tempi di polarizzazione e acriticità.
AugurandoLe buon proseguimento,
d. Zeno Carra
1 Cf Z. Carra, Hoc facite. Studio teologico-fondamentale sulla presenza eucaristica di Cristo, Assisi 2018.
2Cf «https://www.cittadellaeditrice.com/munera/autobiografia-di-summorum-pontificum-la-riforma-liturgica-incompresa/».
3 Cf A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 1983, 78: “Terreno, piani, strutture, operai: tutto era ormai pronto. Non c’era che da cominciare a costruire”; parlando poi delle varie proposte ed osservazioni in merito al nuovo rito della messa: “Al costruttore fu lasciato il compito di selezionare e scegliere nel coacervo di materiali ammassati e procedere con estrema oculatezza per edificare la casa della preghiera”: ibidem, 351.
4 E senza induguare in dietrologie e complottismi di nessuna utilità al dialogo, come quelli che tentarono di screditare la riforma gettando fango sui suoi autori: cf A. Bugnini, La riforma liturgica, 98-105.
5 Mi rifaccio in questo all’interpretazione delle norme vigenti sostenuta in U. M. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Siena 2006.
6 Conferenza Episcopale Italiana, L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, 1996, nn. 16-17.
7 Cf Architettura e liturgia, Magnano 20072, 39-53.
8 Padre Aleksander Iwaszczonek C. R., che ringrazio per l’informazione.
9 Cf Missale Romanum. Editio princeps, 1570 (ed. anastatica a cura di M. Sodi – A. M. Triacca, Città del Vaticano 2012, nn. 1258-1270: pagg. 251-253).
10 Cf la sezione sulla riforma dei riti del venerdì santo in: «http://disputationes-theologicae.blogspot.com/2010/03/la-riforma-della-settimana-santa-negli.html».
11 Acta Apostolicae Sedis 39, 538-541.
12 Cf Pius V, Quo primum tempore, 4-5.
13 Cf S. Rosso, Un popolo di sacerdoti. Saggio di liturgia fondamentale, Roma 1999, 232-236.