Vicina a te la Parola


XV domenica del Tempo ordinario – C
LETTURA: Dt 30,10-14; Sal 68; Col 1,15-20; Lc 10,25-37

Introduzione
I testi di questa domenica del Tempo ordinario ci mostrano il senso ebraico-cristiano della Legge (Torah). Ma come sempre la liturgia ci conduce non solo ad imparare dei “contenuti” – che forse razionalmente già sappiamo – ma soprattutto all’incontro con Colui che è “la Parola” di Dio, la Torah fatta carne. Nel brano del Deuteronomio (I lettura) Mosè invita il popolo ad obbedire alla voce del Signore, affermando che la legge che egli gli ha donato non è “lontana” da lui, ma nella sua bocca e nel suo cuore. Nella Lettera ai Colossesi (II lettura), di cui cominciamo con questa domenica la lettura semicontinua, incontriamo l’inno che presenta Gesù come immagine del Dio invisibile e primogenito di tutta la creazione. Nel brano di Luca (Vangelo) viene posta a Gesù una domanda circa le condizione per ereditare la vita eterna, che lo spinge a narrare la parabola del buon samaritano.

Riflessione
Nel cuore e nel desiderio
Il brano del Deuteronomio (I lettura) è molto significativo per comprendere il senso della Legge per Israele. La Torah esiste “per essere fatta”, ma questo non è un compito impossibile all’uomo. Dio non chiede a Israele di “realizzare” qualcosa di “lontano” da lui, di difficile e gravoso da raggiungere.
La parola che Mosè riferisce al popolo da parte di YHWH è un invito pressante alla conversione e tale conversione deve essere “con tutto il cuore e con tutto il proprio desiderio”. Questa “conversione” (ritorno) che tocca ogni dimensione dell’uomo, tutto l’uomo – la sua intelligenza (cuore) e la sua volontà (nephesh) – è possibile perché la Legge di YHWH è proprio nel “cuore” e sulle “labbra” dell’uomo stesso, cioè nella centro della persona, il luogo più interno, il cuore, e nel luogo più esterno, le labbra. Nei due luoghi nei quali l’uomo agisce e può compiere il bene o il male: dentro di sé e fuori di sé.
Una visione troppo “moralista” del cristianesimo ha spesso dipinto la Parola di Dio come qualcosa di irrealizzabile. Si sottolinea quasi unicamente il valore morale della Parola ma poi si raggiunge l’effetto di renderla così “lontana” e difficile da realizzare, da farla diventare anche “inutile” e “irrilevante” per la vita degli uomini e delle donne ai quali essa è rivolta.
Il testo del Deuteronomio ci dice invece che la Parola, la Legge è vicina, non è irraggiungibile. Al credente viene così sottratta ogni possibilità di scusa: chi andrà per me in cielo? Perché YHWH ha donato al suo popolo non una Parola irraggiungibile, ma una parola che custodisce il suo stesso segreto, la sua verità più profonda. La Legge è nel cuore e nel desiderio dell’uomo e della donna, cioè in ciò che essi hanno di più intimo. Potremmo dire che per “fare” la Torah l’uomo non deve andare lontano da sé, ma cercare dentro di sé, in ciò che gli appartiene in modo più intimo e profondo. Facendo al Torah Israele non è chiamato ad andare lontano da sé, ma a ritornare in se stesso, alla verità più profonda di sé.
Questo annuncio così bello e importante sconvolge – se preso sul serio – ogni lettura “moralistica” della fede ebraico-cristiana. Finché non si accoglie questo annuncio non si diventa veri credenti e in noi resta sempre quel sospetto che la Bibbia ci descrive alle origini, che Dio sia in qualche modo un nostro “antagonista”, uno che ci nasconde qualcosa, che intralcia la nostra vita di uomini e donne, che ci chiede qualcosa che noi facciamo fatica a vivere e che in fondo ci porta lontano da ciò che in realtà siamo o vorremmo essere. Il testo del Deuteronomio dice esattamente il contrario: la Legge ci riporta a ciò che è intimamente nostro, alla verità più profonda di noi stessi: essa è la “custode” della nostra “umanità”. Questo annuncio, nella liturgia di questa domenica, continua e si sviluppa nel brano evangelico tratto dal Vangelo di Luca.

Cosa devo fare, Maestro?
Nel testo del Vangelo la domanda che il dottore della legge pone ha Gesù riguarda il fare: cosa devo fare. La risposta alla quale Gesù lo conduce, invece, invitandolo a riflettere su quale sia il contenuto della Legge, riguarda ancora tutto l’uomo nelle sue dimensioni più profonde. Troviamo ancora cuore e desiderio, con l’aggiunta (presente in altri passi del Primo Testamento) delle forze (cioè i beni materiali) e della mente.
Il messaggio, o uno dei messaggi, di questo testo lo si può cogliere percorrendo le domande che troviamo al suo interno. Procedere nell’argomentazione attraverso domande era tipico delle discussioni rabbiniche del tempo di Gesù.
Le domande presenti nel testo sono quattro e si corrispondono a due a due. Troviamo infatti una contro-domanda di Gesù, per ogni domanda del dottore della Legge. Vediamo queste due coppie di domande.
La prima coppia di domande riguarda il “cosa fare per ereditare la vita eterna”. La contro domanda di Gesù invita il suo interlocutore a identificare nella Legge, cioè nella Parola di Dio, la “norma” per raggiungere la vita. Gesù rimanda alle Scritture del suo popolo. Dalla prima copia di domande quindi ricaviamo che la via per giungere alla vita eterna è racchiusa nelle Scritture e si realizza nel compierle, nel dare loro conferma nella nostra vita. Qui si afferma che la Parola è una realtà che aspetta una conferma, una realizzazione in noi. Quando la Parola si realizza in noi allora noi siamo nella vita eterna, cioè la vita stessa di Dio.
Nella seconda copia di domande notiamo, se facciamo attenzione, una discrepanza tra la domanda del dottore della legge e la contro-domanda di Gesù. Il dottore della Legge chiede a Gesù “chi è il prossimo”. Invece Gesù chiede al dottore della legge “chi è stato prossimo” per colui che era incappato nei briganti. In realtà la prospettiva è capovolta. Il dottore della Legge si interroga su chi sia il suo prossimo, Gesù lo invita invece a riflettere sul suo essere prossimo agli altri: a chi sei prossimo tu? Spesso questa diversità non si nota, ma è fondamentale per comprendere il nostro testo. Il problema che Gesù sottolinea nell’adempimento del comandamento dell’amore non è tanto quelle di chi sia colui che è nostro prossimo, quando a chi noi siamo prossimi.
La risposa del dottore della Legge fornisce un elemento in più, se letta nel cotesto del Vangelo di Luca. E’ prossimo colui che usa misericordia. Ma se leggiamo il Vangelo di Luca, scopriamo che il termine misericordia compare 6 volte in tutto. Una volta ha per soggetto il samaritano del nostro brano, le altre volte ha per soggetto Dio e riguarda la storia della salvezza nella quale Dio si è mostrato misericordioso nei confronti di Israele e dell’umanità (Lc 1,50.54.58.72.78). Quindi il primo ad essere prossimo è Dio stesso. Ma c’è di più! Nei testi del Vangelo di Luca in cui è Dio ad essere colui che fa la misericordia si parla sempre del tempo particolare della venuta di Gesù (o di Giovanni Battista). Quindi Gesù stesso è la manifestazione della misericordia di Dio per Israele e per l’umanità. Quando Luca termina il suo racconto riportando le parole di Gesù «va’ e anche tu fa lo stesso», in fondo non vuole dire altro che per essere prossimi occorre imitare Gesù, fare proprio il suo stile di vita.
Proprio per questo possiamo dire che il brano del Vangelo di Luca non è lontano del messaggio della prima lettura. Anche qui si afferma che la parola non è lontana, ma anzi vicinissima. Mai come in Gesù, il Verbo fatto carne, la Parola di Dio, la Torah è stata tanto vicina all’uomo, mai si è rivelata come realizzabile; mai ha scardinato così in profondità ogni tentazione di lettura moralistica che conduce la Parola all’irrilevanza per la nostra vita. La Legge è la via alla vita e questa via è percorribile perché è talmente “vicina” a noi da aver assunto la nostra carne, da aver posto in mezzo a noi la sua tenda.

Uno è il necessario
Nel Vangelo di Luca dopo il nostro brano troviamo il racconto di Gesù che va nella casa di Marta e Maria. Un testo molto bello spesso letto attraverso categorie che non gli corrispondono, come quella dalla contrapposizione tra contemplazione e azione.
Qui vediamo Maria che si pone ai piedi di Gesù, si fa discepola del Maestro – stare ai piedi di qualcuno significa riconoscerlo Maestro – e ascolta la sua parola. Infondo in questo brano Luca ci mostra l’icona che ci indica dove possiamo trovare il modello della realizzazione della Legge e della via che conduce ad ereditare la vita. E’ Gesù stesso! Dobbiamo sederci hai suoi piedi, ascoltare la sua Parola, seguire i suoi passi. Egli è la Parola vicinissima e realizzabile, l’immagine del Dio invisibile!

Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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