Sui 4 principi di papa Francesco: il dibattito prosegue


 

BergoglioMetro

Nei post precedenti le critiche ai “4 principi” di papa Francesco hanno aperto un dibattito tra G. Meiattitini, S. Biancu e chi tiene questo blog. Ho voluto riprendere, in questo post, alcuni “commenti” degli stessi autori, per dare loro il dovuto rilievo e alimentare riflessioni necessarie sul magistero di papa Francesco. Per comprenderli occorre, evidentemente, tenere presente il contenuto dei post precedenti sul tema. Segnalo inoltre su questo stesso sito di Munera l’intervento sullo stesso tema nel blog di Gh. Lafont:  http://www.cittadellaeditrice.com/munera/le-temps-est-il-superieur-a-lespace/

 

Giulio Meiattini

26 agosto 2016

Ringrazio il prof. Biancu della sua attenzione alla questione da me sollevata e delle sue osservazioni. Visto che il suo intervento viene presentato come rispsota a Giulio Meiattini, quest’ultimo si permette di intervenire ancora scusandosi di nuovo per la lunghezza.

Dopo il tentativo di Grillo di riportare i quattro postulati nell’alveo “pastorale”, adesso emerge un’altra prospettiva: il “sapienziale-biblico”. Da notare en passant che “sapienziale” è una categoria molto scivolosa, analogamente alla categoria di “pastorale”. B. Seveso, uno dei pastoralisti più preparati in Italia, ha affermato che fin dal Concilio l’idea di pastoralità è rimasta “indeterminata” (“Teologia” 37 (2012) 383-414). Affermazione preoccupante, visto che tutte le riforme post-conciliari si sono mosse sull’onda della “svolta pastorale”! Anche “sapienziale” è una categoria vaga. Sapienzia dei detti e dei proverbi popolari? Sapienza nell’accezione della letteratura biblica sapienziale? Sapienziale come la teologia dei monaci medievali (che non è meno attenta alle sfumature e al rigore di quella scolastica)? Sono accezioni molto diverse. In ogni caso resto dell’opinione che il postulato (o i postulati) di EG siano di carattere filosofico. Riporto ancora una volta la “spiegazione” con la quale papa Francesco cerca di mostrare in EG n. 222 che il tempo è superiore allo spazio:
“Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il ‘tempo’, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio” (n. 222).
Come ho scritto nel mio intervento pubblicato nel sito di Magister, queste frasi a me appaiono incomprensibili. Ho letto dei testi più difficili di EG e sono riuscito, qualche volta anche con fatica, a capirli, o almeno mi è sembrato di capirli. Ma questo numero 222 mi risulta del tutto oscuro e incongruente. Non vedo come da frasi incomprensibili possa “emergere un principio” generale. Ho già segnalato in modo particolareggiato questo aspetto e non vi ritorno. Però il linguaggio usato dal papa è filosofico, non sapienziale-biblico, addirittura vi si usa il concetto di “causa finale”, di “utopia” (?) si parla di “tensione bipolare”. Linguaggio biblico? Mah! Non si fa cenno alla “speranza teologale”, non compare nessuna citazione o reminiscenza scritturistica.
Un’ulteriore osservazione: Biancu cita la pregevole opera di Heschel, “Il sabato”, che in effetti è una specie di inno al tempo come categoria dominante della Bibbia e dell’ebraismo, a partire dalla centralità del Sabato, mentre lo spazio sarebbe una categoria secondaria o comunque dipendente dal primato del tempo. Lui sì che fa una meditazione biblica. Non c’è qui “né lo spazio né il tempo” per sottoporre ad esame il testo di Heschel. Dico solo che molte affermazioni di quel libro, sarebbero tutte da puntualizzare, non per essere semplicemente contraddette, ma completate e riequilibrate. Si leggano con attenzione alcune di queste affermazioni: “Le festività celebrano gli eventi che si sono verificati nel tempo, mentre la data del mese fissata per ogni festività è determinata dalla vita della natura” (ovvero dalla spazio cosmico). Dunque, da questa frase, si potrebbe dire che spazio-tempo sono inseparabili nel ciclo delle festività. Poi però Heschel afferma, sorprendentemente, che invece: “L’essenza del Sabato è assolutamente al di fuori dello spazio” (???), “perché esso è completamente indipendente dal mese e non ha relazione con la luna” (???). Però, osservo io, ha relazione necessaria con il sole e con l’alternanza giorno-notte che esso determina col suo movimento spaziale dando origine ai giorni della settimana e dell’anno intero. E dunque? Direi che il bel libro di Heshel è, come ho detto, un “inno” e una esaltazione del sabato, ovvero va compreso in un genere letterario affine al poetico (se vogliamo, sapienziale), che usa una certa iperbole, che per dare risalto al valore teologico e spirituale del tempo usa l’enfatizzazione (che in certi casi è legittima), incorrendo in certe unilateralità forse accettabili “in quel genere letterario”.
Detto questo, e lasciando stare gli altri postulati di EG, per non mettere troppa carne al fuoco, io chiedo ancora che qualcuno mi spieghi alfine “perché” il tempo dovrebbe essere superiore allo spazio. Solo per garantire i processi? Ripeto che basterebbe parlare di riforma e di conversione al vangelo, di non restare aggrappati a cliché ed esperienze ripetitive, per sollecitare i cambiamenti virtuosi, come più o meno in ogni tempo della chiesa si dovrebbe fare. Se poi vogliamo fare una teologia del tempo-spazio, benissimo. Ma facciamo teologia, in ascolto della scienza e della filosofia, con tutto quello che ciò implica!

 Andrea Grillo

27 agosto 2016

caro Giulio,

nella tua risposta a S. Biancu metti in chiaro alcuni aspetti della tua critica al magistero di Francesco che meritano attenzione. Infatti se tu ritieni indeterminato il termine “pastorale” e vago il termine “sapienziale” allarghi di molto e con grandi rischi gli obiettivi della tua critica. Pastorale è termine chiave non solo di Francesco, ma del magistero di Giovanni XXIII, mentre sapienziale è il cuore dell approccio teologico di Vagaggini e Loehrer. Chi resta saldo in questo esercizio di critica filosofica? Quale teologia è veramente adeguata? Io ho il sospetto che l ideale filosofico da cui proviene la tua critica si trovi a suo agio solo con definizioni dogmatiche e canoni di condanna. E che si immunizzi dalla esigenza di conversione nel fare teologia che si è espressa proprio con quelle parole. Qui io trovo un atto intellettuale troppo sbrigativo che risolve il giudizio con le aggettivazioni di indeterminato e vago. Detto altrimenti: non ti sembra di esagerare?

Giulio Meiattini

27 agosto 2016

Caro Andrea, sono ben consapevole del rischio che tu metti in evidenza. Ma non è quella la “piega” che io intendo dare alla mia obiezione. Non metto in dubbio la “svolta pastorale” in quanto tale, né l’interesse dell’approccio “sapienziale”. La tua domanda perciò mi permette di spiegarmi meglio.
1) Il carattere “indeterminato” del pastorale è una osservazione che io ho letto nell’articolo di Seveso citato. E’ un’osservazione che mi ha sorpreso e mi ha permesso di focalizzare meglio alcuni angoli d’ombra che mi portavo da un po’ di tempo. La domanda che mi è sorta è stata: se uno specialista che ha passato decenni della sua vita a studiare e a scrivere sulla “pastorale”, giunge a dire che né il Concilio nè il dopo Concilio sono giunti a chiarire in modo soddisfacente il senso della suddetta svolta pastorale, allora in che acque navighiamo? In questo senso la diagnosi di Seveso è grave, almeno se è vera. Forse altri pastoralisti la pensano diversamente, non so… Nel campo non sono informato a sufficienza. Tuttavia, una buona dose di confusione obiettivamente c’è, ed è quella che ho segnalato nella mia prima risposta che ti ho indirizzato: si dice, per esempio, che Amoris laetitia non è dottrinale, ma pastorale. E così la si legittima. Poi si afferma, in altra sede, che il pastorale ha dei riverberi anche sul dottrinale… a questo punto scatta il corto circuito. Cos’è alla fine pastorale cosa è teologico-dottrinale?
Per questo, come ti dicevo nella mia prima risposta, il problema decisivo è quello di verificare quale tipo di rapporto tra pensiero e azione, teologia e pastorale intendiamo instaurare e promuovere. Su questo punto ho l’impressione che ci sia qualcosa di nebuloso di cui alcuni si approfittano e altri restano vittime. Prendiamo la famosa frase programmatica di Giovanni XXIII: si tratta non di cambiare la sostanza, ma la forma. Detta 55 anni fa poteva sembrare un’operazione facile. Poi la linguistica ci ha messo la pulce nell’orecchio e ci ha fatto vedere che il cambiamento di vestito non lascia intatto il corpo: se si cambia il significante, anche il significato non è più proprio lo stesso. Ti dico, con tutta sincerità, che non ho risposte da dare in merito a questo busillis, ma almeno cerco di denunciare le insidie e la povertà di strumenti di cui disponiamo per affrontare il problema. Non è assolutamente mia intenzione di tornare ad una teologia deduttiva.
2) A proposito del sapienziale. Tu sai che la mia tesi dottorale, e altre pubblicazioni successive, erano dedicate al chiarimento della categoria di esperienza in sede teologica, perché (in quanto monaco e in quanto teologo) ritengo che questa categoria possa servire ad uscire proprio da una teologia fatta solo di asserzioni rigide e resecate dalla vita e dagli affetti. Se ho scelto una categoria come quella di esperienza, significa anche che, pur in tutta la distanza dal modernismo, ritengo che il problema modernista vada ancora risolto. Non amo però la parola sapienziale, anche se Vagaggini l’ha usata e anche se io apprezzo quel tentativo vagagginiano, sulla cui linea mi sento del tutto in sintonia. Ma in Vagaggini , per quanto io possa averlo compreso, non c’è ambiguità nel gioco fra registro pastorale e teologico e liturgico e spirituale, che sono le quattro dimensione essenziali della sua opera maggiore.
3) La teologia dei monaci medievali (la famosa teologia monastica, detta spesso anche “sapienziale”) non rinuncia mai alla precisione “teologica”. Se per es. leggi i Sermoni di Bernardo sul Cantico, in quella esuberanza di simboli, metafore, retorica, che sembra poesia e letteratura (e lo è davvero) ci si accorge che non si cade mai in un linguaggio generico o pressapochista. Senza uscire dall’arte e dal simbolo, conserva la precisione del teologo. Lo stesso si dica di Ruperto, e di altri. Qui la dimensione mistica e esperienziale non è una scusa per abbassare il livello della riflessione. Questo abbassamento mi sembra che accada invece spesso oggi quando si dice “spirituale”, “mistico”, “sapienziale” e anche “pastorale”. E questo, come tu sai molto meglio di me, ha nuociuto anche alla liturgia. Nonostante la buona volontà e l’intelligenza dei liturgisti che hanno lavorato alla riforma, in pratica si è detto: “per esigenze pastorali facciamo così e così” e adesso abbiamo una media di celebrazioni liturgiche che infatti è proprio “così-così”, miserevole. Per esegenze pastorali celebriamo la veglia pasquale alle 18:30 (per es. nella basilica di S. Pietro), per esigenze pastorali anticipiamo la messa crismale al mercoledì sera (così tutti partecipano!!!), per esigenze pastorali posticipiamo la cresima dopo la prima comunione, per esigenze pastorali facciamo musica rock e pop nella liturgia… Scusa, se ci metto un po’ di passione, ma voi che a S. Giustina studiate la “liminalità” (e ve ne sono profondamente grato), ma perché non levate la vostra voce per dire chiaramente che nelle nostre liturgie l’esperienza della liminalità è del tutto assente, sempre “per motivi pastorali”?

Spero ora di essermi spiegato. Io non sono per una teologia fuori dalla sensibilità dell’esperienza (spirituale) e dalla prassi pastorale (che è inseparabile dall’esperienza, ma non identica). Purchè questo non sia una scusa per accettare linguaggi confusi e pensieri non pensati. Ora il linguaggio e il pensiero di molta parte di questo magistero pontificio non è all’altezza di questo compito, cioè del compito di mantenere una reciprocità feconda fra elaborazione teorica e impatto pastorale-spirituale.
Per finire! Vuoi un esempio in positivo di come questo possa essere attuato: si rileggano gli scritti di p. Mariano Magrassi e li si confronti col suo magistero episcopale, la sua meditazione liturgica, teologica, pastorale e la sua sensibilità sociale. Ma p. Mariano era formato alla scuola dei padri, che erano “pastori e dottori”, i due aspetti insieme. Oltre all’ odore delle pecore, avevano il profumo di Cristo. Questo è il titolo di un articoletto senza troppe pretese che da qualche tempo medito di scrivere: “Dal comune dei pastori e dei dottori…”.
Come vedi mi appassiono un po’, mi accendo, ma senza risentimenti, neanche verso il tempo…

Andrea Grillo

28 agosto 2016

Caro Giulio,

ho deciso di mettere anche questi tuoi commenti all’interno di un ulteriore “post” proprio a causa delle questioni che sollevano, con tutta la sincerità e la parresia con cui tu le fai emergere. E sono anche contento che tu, alla fine dell’ultimo commento, voglia prendere le distanze da letture che molto facilmente possono essere tratte dalle prime parole che tu hai scritto sul tema. In altri termini: se tu definisci “linguaggi confusi e pensieri non pensati” i termini del magistero di Francesco, questo mi preoccupa, anche se tu affermi di appassionarti e di accenderti senza risentimenti. Ma le contrapposizioni che introduci, ad esempio tra “odore delle pecore” e “odore di Cristo” non fanno che confermare le perplessità. Se davvero sei consapevole dei rischi di una critica della teologia “pastorale” e “sapienziale” – e io non ho ragioni per non crederti – perché devi sempre dubitare del nuovo come pericoloso e ti rifugi sempre solo nell’antico? Ti faccio un esempio, solo uno, ma molto chiaro: la tua discussione sulla definizione di “pastorale”, nei termini di una distinzione tra “forma” e “sostanza”, sembra considerata solo dal punto di vista dei rischi, e non dei vantaggi. Tu dici: la svolta linguistica ci ha messo la pulce nell’orecchio…in realtà ha cambiato il rapporto tra pensiero e linguaggio. E questa era la grande intuizione di papa Giovanni, che giustificava il Concilio Vaticano II proprio su questo piano. Di fronte al quale tu sembri solo esitare, restare in dubbio, confidando su “altro”. E anche il giudizio sulla Riforma Liturgica che lasci cadere nel tuo commento dipende da un concetto debole e basso di “pastorale”, come se fosse la negazione di “spirituale” e di “profondo”. E di certo le motivazioni della Riforma non hanno nulla a che fare con ciò che tu hai descritto come “riduzione pastorale”. Tu cerchi sempre “altro” da quello che è stato. Ma che cosa è, questo “altro”, se non la teologia precedente? Era forse il “rubricismo” la garanzia di una buona liturgia? Sei anche tu convinto che una “liturgia oggettiva” debba resistere ad ogni Riforma? Non credo.

Infine, e te lo dico davvero con cordialità, affermare che il “magistero pontificio” (di Francesco) non è all’altezza di questo compito mi sembra davvero troppo “sopra (o sotto) le righe”. Ripeto, in altri termini, sia pure all’interno di molte parole di chiarificazione, che pure tu hai scritto e che mi soddisfano in parte: non ti sembra esagerata questa richiesta di coerenza e di rigore al magistero, quando tu stesso – che sei molto più libero del magistero – non sapresti come uscire dagli imbarazzi “pastorali” e “sapienziali”? Non ti sembra che qui, davvero, iniziare processi di confronto con esito incerto sia superiore ad occupare spazi logicamente certi e garantiti?

 

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