Specie e sostanza: e le azioni rituali? Riconoscere il Signore nella frazione del pane
In generale si può dire che i sacramenti sono la “forma visibile della grazia invisibile”. Questa espressione, di origine agostiniana, ha segnato profondamente la teologia scolastica dei sacramenti, a partire da Pietro Lombardo. Questa affermazione vale per tutti i sacramenti, ma in nessuno, come nella Eucaristia, è stata approfondita questa tensione fino al punto da creare un duplice linguaggio:
* quello che distingue le specie (pane e vino) dalla sostanza (corpo e sangue)
* quello che distingue la forma visibile, dalla verità del corpo e del sangue, dalla virtù spirituale dell’unità.
Soprattutto la prima distinzione merita un approfondimento, perché si è affermata proprio come la differenza della “sostanza” dalle “specie”, per dire che “altro si vede” e “altro si crede”. Questa teoria ha inciso profondamente sulla esperienza: vediamo come.
Le controversie sulla eucaristia
Diversamente dagli altri sacramenti, infatti, l’eucaristia ha dovuto affrontare, a partire dal IX secolo, una profonda e lunga discussione, sulla modalità con cui il Corpo di Cristo è presente nel sacramento: tutto comincia dalla domanda con cui un re (Carlo il Calvo) pone la questione in questi termini: “Quod in Ecclesia ore fidelium sumitur corpus et sanguis Christi… in mysterio fiat, an in veritate” (“Ciò che nella Chiesa viene assunto dalla bocca dei fedeli è corpo e sangue di Cristo in mistero o in verità?”. Così si è creato, con i secoli, una sorta di parallelo tra “mistero” e “specie”, tra “verità” e “sostanza”. La precisazione teologica ha perciò tradotto abbastanza presto la differenza con le parole species e substantia: la forma visibile è espressa con “specie”, mentre la grazia invisibile è detta “sostanza”. Il pane e vino decadono a “specie”, mentre il Corpo e il Sangue sono pensati come sostanza. Quindi non è del tutto vero che la sostanza si converte, mentre il pane e il vino “restano”. Il loro permanere subisce un cambiamento, almeno nel nome: pane e vino iniziano a chiamarsi “specie”. Questo per non creare un conflitto tra sostanze concorrenti: del pane e del vino resta solo la “specie”, mentre la sostanza si converte totalmente nella verità di corpo e sangue.
Che cosa indica questa parola “specie”? Nel sistema di riferimento, che S. Tommaso, nel formulare la teoria, ha poi acquisito da Aristotele, il termine correlativo a sostanza non è specie, ma “accidente”. Penso che si potrebbe imparare qualcosa da questo termine alternativo, forse comprendendo meglio i limiti della visione espressa da “specie” e recuperando il ruolo della azione.
Specie infatti significa “ciò che si vede, ciò che appare”, mentre accidente significa “ciò che accade, il contingente, ciò che mi tocca”.
Mi pare che, rispetto alla “sostanza”, la integrazione che gli “accidenti” compiono possa essere più ricca e più complessa. Cerco di spiegarmi meglio.
Chiamare “specie” il pane e il vino sottolinea esclusivamente il fatto che siano “forme visibili”: sono la parte visibile del sacramento. “Specie”, come parola, utilizza e sollecita soltanto il registro del vedere. Questo inclina naturalmente tutto il rapporto sul registro visivo e visuale. Vista (delle specie) e contemplazione (della sostanza) sono le vie principali di rapporto col sacramento, sottolineate da un linguaggio per questo molto unilaterale.
Le specie o gli accidenti?
La parola “accidenti”, per quanto sia altrettanto astratta, potrebbe aiutare a comprendere qualcosa di più grande e di più profondo. Pane e vino non sono meri “supporti” della sostanza, ma entrano con essa in una relazione più complessa: pane e vino non sono solo “visti”, ma sono presi, portati all’altare, fatti oggetto di preghiera di rendimento di grazie e di benedizione, il pane viene spezzato, entrambi vengono dati e mentre vengono mangiati e bevuti ricevono la parola autorevole che predica il loro carattere di corpo dato e di calice del sangue versato. Dire accidenti, anziché specie, può permettere di tener conto, in modo più completo, della pluralità di azioni di cui fa memoria la celebrazione eucaristica.
Il pane e il vino non sono anzitutto “apparenze” di una sostanza diversa. Sono gli accidenti che permettono un accesso alla sostanza non solo visivo, ma “contingente”, dove contingente indica una pluralità di azioni, che campeggiano al centro della memoria ecclesiale. Il testo che spesso definiamo riduttivamente “consacrazione” è costituito da queste ricche parole:
Egli, consegnandosi volontariamente alla passione, prese il pane, rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse:
Prendete, e mangiatene tutti:
questo e il mio Corpo
offerto in sacrificio per voi.
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice, di nuovo ti rese grazie, lo diede ai suoi discepoli e disse:
Prendete, e bevetene tutti:
questo e il calice del mio Sangue,
per la nuova ed eterna alleanza,
versato per voi e per tutti
in remissione dei peccati.
Fate questo in memoria di me.
Tutti i termini scritti in corsivo indicano le “azioni” che vengono compiute con pane e calice: per questo chiamare “specie” il pane e il vino influisce molto sulla esperienza e li riduce a “enti solo visibili”: la categoria di “accidenti”, invece, pur essendo altrettanto formale, custodisce meglio la funzione delle azioni che riguardano il pane e il vino in modo strutturale.
La forma precedente delle formule
Un altro aspetto che deve essere considerato è il contributo che a questo ampliamento di esperienza ha saputo dare la riforma del Messale Romano. Fino al 1969, infatti, le formule delle parole sul pane e sul calice erano costruite diversamente (ho imparato questa importantissima distinzione dal bello studio di Zeno Carra, Hoc facite, Assisi, Cittadella, 2018). Ecco il testo del messale tridentino, nell’ultima versione del 1962:
Qui pridie quam paterétur accépit panem in sanctas ac venerábiles manus suas et elevátis óculis in coélum, ad te Deum Patrem suum omnipoténtem, tibi grátias ágens, fa bene díxit, fregit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et manducáte ex hoc ómnes.
HOC EST ENIM CORPUS MEUM.
Símili modo póstquam cenátum est accípiens et hunc præclárum cálicem in sanctas ac venerábiles manus suas: item, tibi grátias ágens bene díxit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite et bibíte ex eo ómnes.
HIC EST ENIM CALIX SÁNGUINIS MEI,
NOVI ET ÆTÉRNI TESTAMÉNTI:
MYSTÉRIUM FÍDEI:
QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS
EFFUNDÉTUR IN REMISSIÓNEM
PECCATÓRUM.
Come è evidente anche dai caratteri utilizzati dai testi citati, la “formula” nella versione precedente alla Riforma liturgica era concentrata soltanto sulla predicazione dell’’EST riferita al pane e al calice del vino, che così erano identificati con il corpo e sangue di Cristo. La assenza del contesto di azioni, presenti solo nella preghiera, ma non nella formula, ha reso più facile identificare per secoli il sacramento soltanto sul piano di una “conversione della sostanza”, lasciando che pane e vino degradassero a “specie”, ad apparenze. Ciò che accade con esse, nella nuova formula, fa parte della formula stessa: sia il prendere, sia il mangiare, sia il “dare per”. Il verbo “est” non è riferito ad un oggetto, ma ad una azione: questa è la grande novità recuperata dai primi secoli e restituita alla coscienza ecclesiale dal nuovo Ordo Missae.
L’azione rituale come linguaggio della memoria
Per questo un ampliamento della esperienza può passare anche attraverso la correzione di una espressione troppo semplice, troppo astratta, di cui facciamo uso in modo troppo disinvolto, come accade al termine “specie”. Allo stesso modo, anche la “sostanza” viene arricchita per il fatto di essere in relazione non soltanto con una “apparenza”, ma con un “accidente”, un “accadere” che nella sua contingenza costituisce un elemento insuperabile per comprendere e vivere il senso teologico del sacramento. La parola “specie” induce solo a guardare e facilita la separazione della eucaristia in due parti scollegate: il sacramento, come sostanza, e il suo uso relativamente autonomo. D’altra parte, come abbiamo già scoperto, proprio considerando la nuova formula introdotta dalla riforma liturgica, è evidente che la espressione “questo è” non sia riferita ad un “oggetto”, ma ad una “azione”: tutto ciò che Gesù ha fatto nell’ultima cena (prendere il pane, rendere grazie, spezzare, dare e dire) costituisce il referente di quella identificazione con il suo corpo e il suo sangue. Per questo la memoria di lui non è soltanto nelle “parole sul pane e sul calice”, ma anzitutto nelle “azioni col pane e con il calice”, che trovano la loro forma più compiuta in tutta la sequenza rituale della messa: ossia, dopo la liturgia della parola, essa inizia dalla “presentazione dei doni” (“prese”), prosegue nella “preghiera eucaristica” (“rese grazie”), nella frazione del pane (“lo spezzò”), nel rito di comunione (“lo diede ai suoi discepoli”) e nelle parole che il ministro della comunione dice consegnando la particola (“Corpo di Cristo”). Tutta questa sequenza è il “questo” che viene identificato come corpo e sangue del Signore..
Una scissione da superare
Se siamo consapevoli di questa ricchezza, possiamo evitare di usare quella brutta espressione, che suona “fare la comunione SOTTO una (o due) specie”. La comunione, come rito che compie ogni eucaristia, non avviene mai “sotto” una specie, bensì “mediante” pane e vino, nell’accadere della verità sostanziale attraverso il prendere, il pregare, lo spezzare, il dare e il dire, con e su pane e vino: nel mangiare e nel bere questo ente che qualifica un “dare per”, una pro-esistenza, che è vita con Cristo, per Cristo e in Cristo: la comunione permette il passaggio dal Corpo di Cristo sacramentale al Corpo di Cristo ecclesiale. In questo modo non si separano i due effetti del sacramento, e non si affida soltanto agli occhi un eccesso di responsabilità, che può arrivare alla speranza di “vedere la sostanza”. Come insegna l’episodio dei due discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-53) quando nella frazione del pane riconoscono che quel pellegrino è il Signore, egli viene sottratto ai loro occhi. Invece la pretesa di vederlo, dovuta ad uno sguardo unilaterale che cerca il miracolo, distoglie dalla azione rituale, legata invece a molteplici azioni di partecipazione attiva al mistero della incarnazione e della redenzione in Cristo. Forse questa inclinazione al vedere, e all’attendersi magari di “vedere il mistero” come un miracolo, deriva anche dalla contrapposizione che il Concilio di Trento ha introdotto in modo apologetico, assumendo gli avverbi “vere”, “realiter” e “substantialiter” come antitetici a “segno”, “figura” e “virtù”. La natura segnica, figurale e virtuale di pane e vino non sono antitetiche alla verità, realtà e sostanzialità del corpo e del sangue. Il Movimento Liturgico e la riforma conciliare ci hanno consegnato una esperienza più ricca e più articolata della presenza del Signore nella sua chiesa, che ci libera dalla ossessione del “vedere” come prova della sostanza. Ogni volta che mangiamo il pane benedetto e spezzato, e ogni volta che beviamo del calice condiviso della nuova alleanza, annunciamo che il Signore risorto è veramente morto e che il Crocifisso vive per sempre nel corpo della Chiesa, che ne attende il ritorno alla fine dei tempi.
Gracias, de nuevo, prof. Grillo.