Riforma della chiesa e inceppi sinodali: gli equivoci sulle cose più elementari
I giudizi su ciò che è accaduto tra il 31 marzo e i 3 aprile, a Roma, nella Assemblea sinodale, sono evidentemente differenziati. Nessuno dubita che si sia trattato di un passaggio importante e di un segno forte di vitalità e di speranza. Sarebbe però oltremodo utile non cadere in un equivoco che facilmente può essere alimentato da titoli o da impostazioni forzate. Non vi è dubbio, infatti, che la attenzione di molti osservatori, interni o esterni alla Chiesa, potesse rivolgersi solo su alcuni “punti caldi” del dibattito ecclesiale contemporaneo: sulla partecipazione delle donne al governo della chiesa, sulla inclusione ecclesiale di ogni diversità, sul modo di gestire la autorità o sul rapporto tra gerarchia e laicato. Certamente anche su questi punti le Proposizioni non offrivano una ricostruzione fedele del percorso compiuto dal cammino sinodale italiano. Ma il problema più macroscopico di quel testo, a mio avviso, si collocava altrove. Non sul piano della riforma da fare, di cui riconoscere le possibili aperture, ma su quello delle riforme già fatte e che nel testo non venivano riconosciute.
Per farmi capire voglio citare soltanto due punti particolarmente scabrosi: la considerazione della liturgia come “linguaggio comune” e la acquisizione della “iniziazione cristiana” come terreno di rielaborazione della identità. Il linguaggio delle proposizioni, evidentemente ignorando i numerosi testi del cammino di preparazione, riproponeva una sorta di “azzeramento” della esperienza ecclesiale, riavvolgendo il nastro agli anni 50, e parlando di “ars celebrandi” riferendola soltanto ai chierici o commentando la iniziazione cristiana come se si trattasse di un ambito in cui “chiedere ai vescovi” una parola di indirizzo. Sono 40 anni che vescovi e comunità lavorano sul campo: come è possibile dimenticare tutto questo? A questi due punti si può aggiungere un terzo, per certi versi più tecnico, ma ancora più scandaloso. La liturgia, si dice, non parla la lingua dei giovani: occorre creare un ufficio che permetta di tradurre, con criteri comunicativi nuovi, le “formule e i canti” perché siano fruibili da parte di tutti. Anche qui, abbiamo 60 anni di dibattiti ecclesiali, di cui negli ultimi 20 abbiamo subito passivamente le ideologie della “fedeltà al latino” e abbiamo promosso ufficialmente una traduzione del messale che si è impoverita proprio a causa di queste ideologie nostalgiche, e ora nel testo di una proposizione, di pensa di affrontare il problema traducendo ulteriormente una traduzione fatta con criterio forzati?
Questi piccoli esempi possono farci comprendere due cose importanti: la prima cosa è che la reazione della assemblea (di cui facevano parte molti vescovi, ricordiamolo bene) è partita dal buon senso di una esperienza ecclesiale che merita l’onore della memoria. La redazione delle 50 proposizioni è caduta in una sorta di “amnesia” che la assemblea ha immediatamente riconosciuto e segnalato, come una cosa grave. La seconda cosa, altrettanto importante, è che si è potuto verificare che un testo nuovo non potesse scaturire dalle correzioni di un testo tanto lacunoso. Occorreva una sintesi diversa, dotata di memoria, di respiro e di lungimiranza. Per questo occorreva uno spazio di tempo considerevole, proprio perché la natura processuale di un sinodo implica una elaborazione più profonda e più armonica dei testi e delle proposizioni.
E’ evidente che ciò che di nuovo attende la Chiesa italiana può essere accolto e riconosciuto solo a patto che si siano acquisite e assimilate quelle novità già deliberate e già scritte, che nel testo delle Proposizioni venivano dimenticate, rimosse o contraddette. Su questo punto, a mio avviso, si deve puntare l’attenzione: un atto di resistenza contro l’oblio e un atto di non indifferenza a favore delle acquisizioni che arricchiscono da decenni il cammino ecclesiale italiano è un segno importante di vitalità. Il fatto che un testo deciso da parte di un Ufficio venga bocciato dalla assemblea, ricordiamolo, ha inaugurato il cammino di elaborazione di parecchi testi del Concilio Vaticano II. Sul momento può essere un trauma per qualcuno. Ma è il passaggio obbligato, ieri come oggi, per aprire la chiesa a nuovi linguaggi e a nuove procedure. Riconoscere i segni dei tempi non è mai una operazione indolore.