Profezie di coniugi e resistenze di celibi: un cambio di paradigma in atto
Proseguendo una riflessione più ampia, sollecitata dalle recenti prese di posizione in materia di “intercomunione”, ritengo opportuno sviluppare in modo più complessivo le questioni che riguardano la comunione ecclesiale e la comunione sacramentale in relazione ad identità cristiane appartenenti a diverse confessioni. Lo sviluppo della dottrina implica una “cambio di paradigma”, per usare una delle espressioni più suggestive e coraggiose della Costituzione Apostolica “Veritatis Gaudium”. La teologia accademica, proprio in virtù di questo compito di “rivoluzione culturale” fissato dalla citata Costituzione Apostolica, deve coraggiosamente aprire nuove strade, per consentire ai pastori di riflettere intorno alla tradizione sulla base di categorie e di nozioni davvero di ampio respiro, senza restare costretti in concetti troppo angusti, e pensati in orizzonti ristretti, superati e chiusi nel passato. Vorrei pertanto riprendere sommariamente quanto presentato nel mio post precedente (qui) e sviluppare poi, in una serie di punti, alcune linee di riflessione su di un piano nello stesso tempo più antico e più nuovo.
1. Una impostazione inadeguata della questione
Come appare evidente, la esigenza di collegare le questioni della “condivisione della mensa eucaristica” con la “condizione matrimoniale dei soggetti” appare una strada feconda e promettente, ma solo purché venga affrontata con gli strumenti realmente più adeguati. Qui, come è evidente, costatiamo un primo punto di debolezza del dibattito in corso: il riferimento dal can. 844, 3-4, appare particolarmente fragile e determina una comprensione inevitabilmente marginale ed eccezionale della esperienza di comunione. Va detto, infatti, che il can. 844 pensa la “possibile comunione” come esperienza di singoli individui (non di coniugi), in stato di necessità (e non in forma stabile di vita), e disposti a far propria la “fede cattolica” (e non a restare nella loro differenza confessionale). Queste tre determinazioni, di fatto, appartengono ad un altro orizzonte mondano ed ecclesiale, e comunque si riferiscono a circostanze assai diverse. Sperare di costringere la realtà coniugale dentro queste categorie è una pretesa azzardata, tipico frutto di un approccio molto clericale. A me pare, infatti, che la proposta avanzata dalla maggioranza dei Vescovi della Conferenza Episcopale Tedesca, certamente dettata da ragioni pastorali serie ed urgenti, sia stata argomentata e motivata con ragioni troppo marginali, e all’interno di un quadro dottrinale e disciplinare che risulta sostanzialmente inadeguato. Il fondamento della nuova possibilità non può stare nel canone 844, ma solo nell’approfondimento che del matrimonio e della eucaristia sono stati fatti negli ultimi decenni.
2. Matrimonio, convivenza e comunione originaria
Un grande aiuto, per una impostazione convincente della questione della “intercomunione”, dovrebbe essere riconosciuto nella condizione di “coniugi” dei soggetti implicati nella nuova possibilità. La loro natura di “sposi nel Signore”, sia pure con un profilo diverso dal punto di vista sacramentale, costituisce una condizione privilegiata nel cammino ecumenico. I Vescovi implicati nella discussione potrebbero facilmente riconoscere che la Chiesa, da molti secoli, ha ripetuto una verità che oggi stentiamo a riconoscere: ossia che dove un uomo e una donna, in una comunità di vita e di amore, iniziano ad esistere uno per l’altro, a generare, a comunicare, a gioire e a sopportare, lì si realizza un mistero di grazia che costituisce “il segno più limpido” della alleanza tra Cristo e la Chiesa. La teologia medievale ha saputo riconoscere che il matrimonio è l’unico dei sacramenti ad esistere, in origine, prima della caduta nel peccato. Esso, a differenza degli altri sacramenti, compresa l’eucaristia, dice una comunione di grazia che sta prima di ogni caduta. S. Tommaso ha detto che “ratione significationis” è il più importante dei sacramenti. Questa antica verità ha portata radicale: si colloca alla base della esperienza e la Chiesa deve collocarla nel suo luogo proprio, prima della legge ecclesiale, e anche prima della legge civile. Se il “matrimonio naturale”, in altre parole se la “convivenza” porta in sé questo mistero, è evidente che quando un cattolico e una protestante vivono insieme, insieme generano, e “non sanno più dove comincia uno e dove finisce l’altro”, lì la Chiesa deve mettersi in ascolto: sono loro i “magistri” e gli altri diventano “ministri”. Anche se sono vescovi.
Il dibattito dell’ultimo mese sembra aver dimenticato totalmente questo lato tanto promettente. Ha preferito considerare i singoli coniugi astrattamente rispetto al loro vincolo, assumendoli come individui che rispondono alle regole dottrinali di apparati ecclesiali, gestite da funzionari celibi che, pur con tutta la buona volotà, non riescono a cogliere le dinamiche di comunione implicate nella condizione coniugale. Questo mi pare un difetto che, sia pure in modo differenziato, accomuna molte delle parti in gioco. Su questo occorre un autentico lavoro di approfondimento, che richiede un coraggioso cambio di paradigma. Non si tratta di approfondire il can 844, ma di lasciarlo da parte, in modo risoluto e senza ulteriori esitazioni. Il canone, evidentemente, continua a essere uno strumento prezioso, ma per altre questioni e secondo altre priorità. Esso non riguarda direttamente le vicende dei coniugi cristiani di diverse confessioni, la cui vita chieda di esprimere la comunione coniugale nella comunione ecclesiale e sacramentale.
3. Eucaristia, penitenza e unzione: non per la morte, ma per la vita
Un secondo aspetto non riguarda il matrimonio, ma l’eucaristia e in generale i sacramenti considerati dalla normativa vigente. Anzitutto si deve dire che il codice, nel momento in cui propone “aperture” alla amministrazione della eucaristia (come anche della penitenza e della unzione) pensa la realtà sacramentale in una forma minimale, e ciò almeno in due sensi: pensa alla ricezione e non alla celebrazione, pensa in vista della morte del soggetto e non in vista della vita. Questi sono i limiti strutturali del punto di vista normativo, che rischiano di compromettere ogni valorizzazione dei sacramenti nella strutturazione della vita dei coniugi, nella loro dinamica di vita e di preghiera, di sacrificio e di lode. I sacramenti sono risorsa anche per il cammino ecumenico solo se vengono pensati secondo la logica del Concilio Vaticano II, non secondo le logiche minimaliste che spesso i giuristi e i buracrati impongono alla realtà ecclesiale. I coniugi cristiani, sia pure appartenenti a diverse confessioni, se entrano nella dinamica dei sacramenti cattolici, devono aver ben chiaro che cosa la tradizione cattolica propone loro in questi sacramenti: non semplicemente “fare la comunione”, non semplicemente “ricevere la assoluzione”, non semplicemente “morire con i conforti della fede”. Ciò che oggi dobbiamo considerare, nella esperienza dei matrimoni tra un coniuge cattolico e un coniuge cristiano non cattolico, è la possibilità di offrire la celebrazione eucaristica, il fare penitenza e la preghiera nella malattia grave anche alla esperienza del cristiano non cattolico. Questa ricchezza di parola e di preghiera, di “ritus et preces” deve essere considerata strutturale per la vita di comunione dei coniugi. Nella loro comunione originaria dovrebbe diventare ordinario potersi accogliere reciprocamente nelle diverse Chiese, valorizzando in modo differenziato il bisogno di comunione, di conversione e di consolazione che la loro vita materiale e spirituale esige.
4. Autorità episcopale e altre autorità
Per concludere, ciò che i Vescovi dovrebbero riconoscere, anche con una certa comprensibile fatica, è che nei matrimoni misti le diverse Chiese fanno una esperienza di déplacement assai salutare. Si trovano scavalcate da una comunione reale, che alle loro categorie appare impossibile. Quando la realtà che hai davanti ti sembra impossibile, sempre è in questione una “teoria inadeguata”. Quando la realtà supera la possibilità, è in atto una profezia che, presto o tardi, deve essere onorata. Oggi il magistero episcopale deve riconoscere un magistero familiare. Non solo quando teorizza sulla famiglia, ma anche quando si occupa di ecumenismo. Deve riconoscere che, dove un cattolico e una protestante mettono su famiglia, lì si crea una esperienza ecumenica di dialogo, di confronto e di reciproco apprendimento che aiuta tutta la Chiesa a camminare. Ridurre tutta questa ricchezza alle categorie asettiche del Codice, alle sensibilità formalistiche di celibi senza famiglia, alle paure di pastori incapaci di esercitare quella “vigilanza” che spera sempre in un futuro davvero migliore, ciò sarebbe non solo una grave occasione perduta, ma forse anche potrebbe rappresentare – se così posso dire – una forma particolarmente insidiosa di peccato contro lo Spirito Santo.






























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