Pace senza canto e senza gesto? Problemi di un documento poco chiaro
UNA PACE SENZA CANTO E SENZA GESTO?
I problemi di una circolare poco opportuna e male argomentata
Un recente documento della Congregazione per il Culto Divino e per la Disciplina dei Sacramenti – L’espressione rituale del dono della pace nella messa, “Lettera circolare” datata 8 giugno 2014 – affronta la questione della collocazione, del senso e dell’adeguata celebrazione del “rito della pace”, incluso nei riti di comunione della celebrazione eucaristica. Vorrei presentare il contenuto del breve documento – di soli 8 paragrafi – per sollevare poi alcune questioni, che riguardano la opportunità e la forma argomentativa del documento.
1. Le istanze del Sinodo dei Vescovi e la risposta della Congregazione
Dopo aver sommariamente presentato il senso teologico del “rito della pace” all’interno della celebrazione eucaristica (1-2), il documento chiarisce di intervenire su una questione che era sorta dal Sinodo sull’Eucaristia e di cui l’esortazione postsinodale Sacramentum Caritatis parlava al n.49, delegando alla Congregazione competente di affrontare la questione successivamente, sia per quanto riguarda la collocazione del gesto nella sequenza dei riti eucaristici, sia per quanto riguarda le sue modalità, invitando comunque a recuperare una certa sobrietà. E’ da notare che questa indicazione deriva proprio dalla urgenza di una adeguata testimonianza della pace, in un mondo carico di conflitti e di discordie (3-4). Dopo la consultazione delle Conferenze Episcopali la Congregazione stabilisce che il rito della pace rimanga nella collocazione classica per il rito romano, ossia all’interno dei riti di comunione, tra il Padre Nostro e la frazione del pane (5). Dopo aver ribadito l’importanza della testimonianza della pace, il documento offre una serie di “suggerimenti pratici”: a) il rito della pace “possiede già il suo significato di preghiera e di offerta della pace nel contesto dell’Eucaristia”. Quindi può anche essere omesso! b) In base a cio è possibile prevedere che al posto di “gesti familiari o profani di saluto” si prevedano altre modalità; c) vengono esplicitamente indicati come “abusi”: l’ introduzione di un ‘canto per la pace’, lo spostamento dei fedeli dai loro posti, l’allontanamento del presbitero dal presbiterio, la sovrapposizione tra scambio della pace e auguri, congratulazioni, condoglianze…d) Si invita a preparare opportune catechesi sul significato e sulle modalità del rito liturgico (6). Il documento si conclude con un auspicio: che una maggiore chiarezza sul piano liturgico possa contribuire ad una più efficace testimonianza sul piano della testimonianza esistenziale, tra gli operatori di pace (7): la pace del Risorto è annunciata e realizzata nella celebrazione “anche attraverso un gesto umano elevato all’ambito del sacro” (8).
2. Il “rito della pace” in quanto tale: una argomentazione confusa e contraddittoria
La prima impressione che si ha, leggendo il testo di questo documento, è quella del disagio e della sproporzione. Il rito della pace è, infatti, frutto del recupero di una prassi celebrativa che la grande tradizione medioevale e moderna aveva quasi totalmente emarginato o perduto. Nella tradizione che precedeva il Concilio Vaticano II era presente soltanto nella Messa Solenne e con una limitazione sostanziale ai chierici. Veniamo, dunque, da secoli nei quali il “rito della pace” o non era presente o era ridotto ad un gesto brevissimo, anche se significativo. Da meno di 50 anni lo abbiamo recuperato ed è sorprendente che le resistenze siano, anzitutto, contro la sua “eccessiva visibilità e durata”. E’ vero, accade, talvolta, che il “rito della pace” esca dagli argini, coinvolga la reciprocità dell’intera assemblea, con movimenti e migrazioni e spostamenti e saluti…ma questo è solo negativo? Per chi, mai, il modello del rito eucaristico deve essere una assemblea assolutamente immobile? Quale ufficio burocratico può avere questo come un ideale?
Dunque, se è ragionevole pensare che ordinariamente il “segno di pace” possa riguardare lo scambio con chi mi sta vicino, non c’è alcun bisogno di definire “abuso” una pratica diversa, più ampia e più articolata. Avrei preferito che si dessero linee interpretative organiche, piuttosto che elenchi di abusi. Questa logica, vecchia e superata, di favorire gli “usi” con elenchi di abusi deve essere segnalata come poco efficace e poco lungimirante. E’ una strategia di retroguardia.
Vorrei inoltre segnalare un grave problema di “ordine logico” del documento. Forse la sua stesura è frutto di troppi compromessi, ma è certo che la versione finale doveva tener conto che una lingua ha bisogno di una grammatica e di una sintassi attendibile. Il testo della circolare presenta diversi “refusi” che si concentrano, in particolare, al paragrafo 6. Lo riporto integralmente per farne l’analisi:
“Va definitivamente chiarito che il rito della pace possiede già il suo profondo significato di preghiera e offerta della pace nel contesto dell’Eucaristia. Uno scambio della pace correttamente compiuto tra i partecipanti alla Messa arricchisce di significato e conferisce significatività al rito stesso. Pertanto, è del tutto legittimo asserire che non si tratta di invitare “meccanicamente” a scambiarsi il segno della pace. Se si prevede che esso non si svolgerà adeguatamente a motivo delle concrete circostanze o si ritiene pedagogicamente sensato non realizzarlo in determinate occasioni, si può omettere e talora deve essere omesso” (6, a)
Questo testo avrebbe avuto bisogno di una buona risistemazione, prima di essere pubblicato. Così com’è appare di difficile comprensione, se non si vuole cadere in continue contraddizioni. In esso si afferma che:
– il rito della pace ha già senso per il contesto in cui è collocato;
– il rito della pace prende senso dal modo con cui è compiuto (e non dal contesto)
– lo scambio della pace non può essere ridotto ad un atto meccanico
– lo scambio della pace deve essere compiuto solo quando può assumere significato, e quindi può o addirittura deve essere omesso perché non è necessario!
Appare francamente paradossale che si scriva una intera circolare per ricordare che il rito, che comporta problemi, può essere facilmente celebrato omettendone la parte più delicata, ossia lo scambio della pace. Di fatto, se seguissimo punto per punto questo paragrafo faticoso e contraddittorio, rischieremmo di arrivare ad un esito paradossale: ossia allo svuotamento del “rito della pace”, ritornando al regime preconciliare, ovviamente solo “pro opportunitate”!
3. Pace, rito e canto: una difficoltà a stare nella logica della Riforma Liturgica
Una seconda difficoltà, ancora maggiore, si deve rilevare quando il documento presenta l’elenco degli “abusi”, in cima ai quali brilla il divieto di introdurre “un canto per la pace, inesistente nel Rito romano” (6). Qui si deve sostare e meditare. Che cosa significa l’espressione “inesistente nel Rito romano”? La cosa sembra a tutta prima abbastanza chiara. Non esiste tradizione canora riferita al rito della pace. Bene. Questo è certo. Ma domandiamoci: esisteva davvero, nella Chiesa medioevale o nella Chiesa moderna un rito della pace che potesse suscitare una tradizione di canto? Anche in questo caso, purtroppo, dobbiamo rispondere: no. Ed è questo il punto più delicato. Se la storia millenaria della pax Domini, come attestano Jungmann, Raffa e tanti altri studiosi, aveva perso ogni evidenza rituale per l’assemblea, come è possibile invocare la “inesistenza della tradizione” per impedire che oggi, di fronte ad un rito che ha acquisito una sua nuova consistenza e potenza, possa sorgere una tradizione di canto? Perché mai dovremmo far dipendere la tradizione futura da una “tradizione non sana”? E se la tradizione non era più sana, nel “legittimo progresso”, dovuto proprio alla sua qualità decaduta, non dovrebbe essere compresa anche la esperienza di un rito della pace non solo agito, ma sentito, cantato e vissuto? Perché mai “cantare la pace” dovrebbe essere qualificato, senza mezzi termini, come un “abuso”? Non è forse, proprio questo, il peggior abuso? Non è restare chiusi, in modo autoreferenziale, nelle pratiche già conosciute, senza lasciare allo Spirito di poter soffiare con libertà, attraverso le nuove forme di esperienza e di espressione ecclesiale?
Oltretutto a me pare che una “tradizione di canto della pace” sia ben presente nella grande tradizione dell’Agnus Dei. “Dona nobis pacem” è una espressione che si è arricchita di mille melodie e mille armonie diverse. Perché mai non dovrebbe accadere la stessa cosa anche per la “Pax Domini”?
4. Il rapporto tra “rito della pace” e “vita di pace”: una correlazione del tutto estrinseca
Una terza difficoltà, iniziale e finale, deriva dal rapporto ambiguo che nel documento si istituisce tra “pace esistenziale” e “pace rituale”. L’insistenza con cui il documento parla della esigenza di una più adeguata “formazione alla pace” della intera compagine ecclesiale appare singolarmente in tensione con questa “minimizzazione” del rito della pace. Sembra quasi che una vera “catechesi di pace” possa essere assicurata solo da una marginalizzazione, da una contrazione, fino ad una parziale omissione, del rito della pace. Questo è forse uno degli aspetti più paradossali di questo strano documento. Che si preoccupa solo di limitare il rito della pace, indicando come abusi tutte le forme di “esplicitazione simbolica” e di “correlazione alla vita” del rito stesso, salvo poi pretendere che proprio questa contrazione e rimozione del rito di pace possa assicurare a tutta la Chiesa una testimonianza luminosa nel costruire la pace nel mondo.
Non vi è dubbio che i riti introducano una certa stilizzazione nella esperienza quotidiana. Scambiarsi la pace, nell’assemblea eucaristica, è espressione di un dono ricevuto, di una ulteriorità gratuita, che poi il banchetto eucaristico sigilla. Ma la pretesa che la celebrazione eucaristica si immunizzi dai gesti di pace ordinari, non acceda alle simboliche corporee, canore, spaziali e personali del “vissuto di pace” appare il segno, preoccupante, di una grave incomprensione della tradizione. Tanto di quella umana quanto di quella liturgica. Il che appare sorprendente quando viene proprio da una Congregazione romana.
5. Conclusione
Questa lettera circolare si inserisce in una catena di documenti che sollevano da anni troppe perplessità. Si è cominciato, nel 2001, con Liturgiam Authenticam; si è continuato, nel 2004, con Redemptionis Sacramentum e oggi si arriva, quasi in tono minore, a questa infelice circolare. E’ molto difficile sostenere che per “raggiungere un serio impegno dei laici per la pace” occorra ridurre ogni impatto simbolico e rituale del gesto di pace. Una cosa è evitare la confusione, altra cosa è trasformare una messa con il popolo in una messa privata, cosa che talvolta sembra sottesa alla circolare. Si tratta di un intervento sostanzialmente clericale e che rischia di irrigidire la celebrazione ad una modalità fredda e autoreferenziale.
Se anche ci sono problemi, nell’attuale celebrazione del “rito della pace”, ciò non di meno il rimedio qui suggerito appare, francamente, peggiore del male.