L’invenzione della “forma straordinaria” del rito romano


Non sorprende che, quando fu presentata alla stampa la Costituzione Praedicate Evangelium, nel marzo del 2022, fu subito chiaro che nel testo, per un refuso, si continuava a parlare di “forma straordinaria” del rito romano, nonostante il fatto che, l’anno prima, il magistero avesse provveduto a cancellare quella espressione, con il MP Traditionis custodes. Ci si rese conto, allora, che occorreva correggere il testo, che evidentemente era stato scritto ancora sotto il regime precedente e non era stato più aggiornato. Così la espressione scomparve dal testo definitivo.

Poiché in interviste recenti ci sono ancora cardinali che utilizzano la espressione “forma straordinaria” sarà bene precisare che cosa si è inteso con quella espressione e perché oggi non si possa più utilizzarla.

Il termine “forma straordinaria del rito romano” (che può essere anche detta “uso straordinario del rito romano”) è una locuzione inventata dal MP Summorum Pontificum, che non ha alcun precedente in 2007 anni di storia della chiesa e della teologia. Questa è la prima cosa che bisogna riconoscere: per far “rivivere” un uso del rito che il Concilio Vaticano II ha esplicitamente voluto riformare, si è coniato un termine del tutto nuovo e senza precedenti. Prima del 2007 nessun papa, nessun vescovo, nessun teologo aveva mai parlato ufficialmente di “forma straordinaria del rito romano”. La consapevolezza del fatto che si tratta di una invenzione può aiutare a capire la audacia e la temerarietà della espressione, la sua inaudita novità.

Come si è costruita la locuzione? Credo che il procedimento possa essere così ricostruito. E’ pacifico, infatti, che lungo la storia il rito romano ha assunto diverse forme: in una sostanziale continuità, ha conosciuto diverse discontinuità. Soprattutto ha acquisito, lungo la storia, la esigenza di una progressiva unità, insieme a una certa differenziazione: epoca carolingia, gregoriana, tridentina e poi epoca del Vaticano II hanno determinato uno sviluppo organico, che negli anni 60-80 del XX secolo ha assunto la forma che oggi è vigente. Di volta in volta una sola era la forma vigente, e nei trapassi, la forma precedente veniva, lentamente, soppiantata dalla forma successiva. Questo è accaduto anche nell’ultima svolta. Che cosa fa la teoria della “forma straordinaria”? Paralizza la storia. Proprio all’inizio di una “terza generazione” di figli del Vaticano II, prova a bloccare lo sviluppo e a rendere “irreformabile” la forma precedente alla forma vigente. Essa costruisce e introduce surrettiziamente uno strutturale parallelismo di forme, in cui ad una forma “ordinaria”, che è il frutto della evoluzione storica, affianca una “forma strardinaria”, che si pretende di lasciare immobile, ferma, immune dalla storia.

Questa invenzione, tuttavia, non tiene conto della realtà e introduce una pericolosa finzione. In effetti questo fu chiaro fin dai primi mesi dopo il luglio del 2007. Si comprese, infatti, che un uso straordinario del rito romano aveva bisogno di punti di riferimento, ma anche di profondi ritocchi. Il messale del 1962, il rito del matrimonio, della penitenza o della unzione del 1614, erano testi che rispondevano ad un altro assetto giuridico e ad una cultura non più in asse con la storia. Fu famosa, e piuttosto penosa, la controversia che si impose subito, su quale dovesse essere la formula della “preghiera per i giudei” del venerdì santo da utilizzare nella forma straordinaria: non più quella del 1962, certo, ma neppure quella del 1969. Così nel 2008 si scrisse una preghiera per i giudei come se non fosse il 2008, ma ci si trovasse nel 1965…Lo stesso accadde per il lezionario, per l’anno liturgico, per il santorale…Ci si rese conto che, così come era, la “forma straordinaria” non poteva stare nella storia, che nel frattempo aveva potuto essere considerata e integrata, ma solo nella forma ordinaria! Fu così che, nel 2020, in piena pandemia, si arrivò al disegno folle di “riformare il rito straordinario”: fu questa, forse, la goccia che fece traboccare il bicchiere, insieme alle pretese, da parte dei (vescovi) tradizionalisti americani, di celebrare il Triduo Pasquale secondo il rito “supestraordinario” precedente non alla riforma del Vaticano II, ma a quella di Pio XII. Il bicchiere fu colmo e si arrivò, nel giro di un anno a Traditionis Custodes, ossia alla fine della finzione, alla fine della “forma straordinaria”.

La forma straordinaria non esiste. Il rito romano ha solo una forma, che nel tempo evolve. Chi vuole stare nella storia, «quella vera, non curiosa», ha solo una forma con cui confrontarsi, non due parallele. Una sola è la lex orandi. In quella lex ognuno farà valere le sue sensibilità e le sue prospettive: può farlo, perché la lex orandi che vige dopo il Vaticano II è molto più elastica e duttile della precedente. Una chiesa con due forme parallele, di cui una è nata per riformare l’altra, inevitabilmente si spacca in due fazioni. Solo un’unica liturgia comune, capace di ospitare al proprio interno tante sensibilità diverse, può garantire un cammino di vera unità. Per questo non solo nei documenti ufficiali, ma anche nelle parole dei cardinali, l’uso della espressione “forma straordinaria del rito romano” è il segnale di una grave incomprensione. La argomentazione su cui si basava quella espressione era un sofisma, mediante il quale si faceva diventare contemporaneo quello che era stato successivo, pretendendo così di fermare la storia. Uscire da quella terminologia è un modo di non alimentare illusioni. E di non costruire finzioni che abilitano qualcuno a poter pensare che la liturgia possa essere immunizzata dalla storia, una volta per tutte. La liturgia interrompe la storia, ma resta sempre bisognosa di precisazione, di orientamento, di sintonizzazione storica. Non con la velocità della cronaca, ma con il ritmo lento della coscienza che matura. Il rito romano esiste in diverse forme storiche, di cui solo una è quella di volta in volta vigente. Così è sempre stato e così sempre sarà.

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