L’insonnia, la vigilanza e la coscienza: intorno ad una lettera di J. Ratzinger
La notizia della lettera con cui J. Ratzinger confessava al suo biografo, poco prima della morte, che la sofferenza per la insonnia, di cui aveva iniziato a soffrire poco dopo la elezione a papa, era stato un motivo determinante nella sua rinuncia al ministero petrino, ha suscitato in me tre pensieri.
Anzitutto mi ha immediatamente fatto ricordare una dichiarazione del tutto opposta, che papa Francesco ha rilasciato all’inizio del suo pontificato, in una intervista, in cui rassicurava l’intervistatore preoccupato del carico di lavoro e di responsabilità con una risposta disarmante: “io dormo bene”. E, in un’altra occasione aveva ammesso che di tanto in tanto, tra una udienza e l’altra, seduto sulla sua poltrona, cadeva per alcuni minuti “nel sonno del cane”.
D’altra parte il compito di “vigilanza”, che spetta in primis ai vescovi, può facilmente confondersi con la insonnia. Una sorta di “costrizione alla vigilanza” può sicuramente scatenare una reazione in cui non si può più dormire. Il mutarsi della vigilanza in insonnia sostituisce, indirettamente, il “ladro” al “Signore”. E questo diventa, appunto, il problema, personale e funzionale, spirituale ed ecclesiale.
Il terzo pensiero è suggerito da una straordinaria riflessione del grande filosofo E. Lévinas, che medita con sapienza sulla relazione finissima tra “coscienza” – spesso identificata con la vigile attenzione – e la possibilità di dormire. Il ritrarsi del sonno come alimento della coscienza è così l’esito più sorprendente di questo grande testo. Ascoltiamolo:
“L’insonnia è caratterizzata dalla coscienza che questa situazione non finirà mai, cioè che non c’è più alcun mezzo per ritrarsi dalla vigilanza alla quale si è costretti. Vigilanza senza alcuno scopo. […] Ma bisogna chiedersi se la coscienza si lascia definire dalla vigilanza, se la coscienza non è, piuttosto, la possibilità di sottrarsi alla vigilanza; se il senso proprio della coscienza non consiste per caso nell’essere una vigilanza posta a ridosso di una possibilità di dormire; se il particolare modo di essere dell’io non consiste nel potere di uscire dalla situazione della vigilanza impersonale. Effettivamente, la coscienza partecipa già alla vigilanza. Ma ciò che la caratterizza in modo particolare è il fatto di riservarsi sempre la possibilità di ritrarsi ‘dietro’, per dormire. La coscienza è il potere di dormire. Questa fuga nel pieno è in un certo senso il paradosso stesso della coscienza”. (E. Lévinas, Il Tempo e l’Altro, Genova, Il Melangolo, 1997, pp.22-25).
L’ insonnia, quando diventa incontrollabile, priva chi la vive di una vera coscienza. E’ possibile vigilare solo quando si è potuto dormire. Solo in questa “fuga nel pieno”, in questo ritornare per qualche ora animali, vegetali e minerali, dormendo come “sassi”, come “pietre”, come “legni” o come “cani”, è possibile custodire una coscienza vigile. Non sorprende, perciò, che chi non riusciva più a dormire non si sentisse più in grado di vigilare.