La pena di morte e la Dignitas infinita. Una risposta al card. Mueller con sorprese su Tommaso d’Aquino e Romano Guardini
Andrea Tornielli, in un opportuno intervento, ricorda al Card. Mueller che il CCC ha subito una modifica, nel 2018, proprio sul tema della pena di morte. Il cardinale, infatti, aveva scritto questa affermazione:
“L’aborto significa uccidere un innocente e la Chiesa ha sempre detto che è un crimine brutale. Ma non si può mettere allo stesso livello della pena di morte verso un criminale che ha ucciso altri uomini. Anche nell’Antico Testamento si parla di pena di morte per chi ha ucciso un altro uomo. Io sono personalmente contrario a questa pena, ma ricordiamo che tra gli insegnamenti della Chiesa era accettato, entro certi limiti e in casi estremi, che l’autorità civile potesse applicarla”.
Tornielli ricorda che gli insegnamenti indicati da Mueller sono superati dal nuovo testo del CCC sul tema “pena di morte”.
Sinossi tra i due testi
Una sinossi preziosa ci aiuta a comprendere il passaggio teologico e culturale:
Il vecchio testo di CCC 2267
“L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l'ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo « sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti »”
Il nuovo testo di CCC 2267
“Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune. Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi. Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che «la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona», e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo."
La nuova visione e la inammissibilità della pena di morte
Fino a qui i dati, richiamati a buon diritto dal giornalista. Ma il teologo non può limitarsi a mostrare che il magistero ha avuto un cambiamento. Deve anche giustificarlo. E qui le cose si fanno più complesse e più interessanti. In effetti si può dire, senza troppi rischi, che sul tema della “pena di morte” è evidente come la chiesa abbia elaborato, faticosamente, il passaggio da una società dell’onore alla società della dignità. E che l’aggiornamento ecclesiale (anche del CCC) corrisponda non ad un semplice “adattamento” alle nuove condizioni culturali, ma ad una più profonda intelligenza della tradizione.
Questo è del tutto evidente se si compara la posizione di Mueller con la posizione ufficiale, sviluppatasi dopo il Vaticano II. Dove sta la differenza? Nella “dignità umana”. Dignitatis Humanae è il testo che crea la apertura del cattolicesimo al mondo della dignità infinita. Per capirlo possiamo leggere con molto frutto ciò che Tommaso d’Aquino, che viveva pienamente in una società dell’onore, pensava a proposito della pena di morte.
La giustificazione della pena di morte in Tommaso d’Aquino
Una visione della dignità umana come «dignità infinita» non è un concetto noto a Tommaso d’Aquino e in generale a tutti gli uomini premoderni. Nella grande questione 64 della II-II Summa Theologiae, collocata nella parte dove Tommaso parla di tutte le virtù e di tutti i vizi, quando si occupa dell’omicidio, l’articolo 2 giustifica l’uccisione del peccatore proprio sul piano della “mancanza di dignità”. Negli argomenti a favore viene citato il salmo: «Di buon mattino sterminerò tutti i peccatori della regione» (Sal 101,8) e nel corpus si dice: «Con il peccato l’uomo abbandona l’ordine della ragione perciò decade dalla dignità umana che consiste nell’essere liberi e nel vivere per se stessi. Così sebbene uccidere un uomo sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere non punibile, perché un uomo cattivo è peggio di una bestia». Così conclude Tommaso, citando Aristotele.
Non vi è alcuna dignità infinita universale, ma una dignità finita e subordinata ad un raffronto tra vita vegetale, vita animale e vita umana: l’uomo che pecca, per Tommaso, perde la dignità, regredisce allo stadio animale. Questa è la voce della nostra tradizione, sta dentro di noi (e con “noi” possiamo intendere non solo la comunità ecclesiale, ma l’intera compagine culturale del linguaggio comune a tutti, uomini e donne), e se la si vuole superare occorre farlo esplicitamente, argomentativamente,altrimenti, prima o poi, potrebbe tornare utile, vantaggioso e comodo rifarsi di nuovo ad essa: chiunque potrebbe citare anche questo brano per escludere dalla «dignità umana» o il disabile, o l’immigrato, o l’occidentale corrotto o l’orientale superstizioso o il non ancora nato.
Questo è il cammino doloroso e faticoso degli ultimi due secoli: riuscire a scovare nella diversità dell’altro una dignità che non può essere toccata, infranta, ridotta o violentata.
Credo che sia fondamentale, anzitutto oggi, proprio per gettare luce sui percorsi cristiani che generano violenza, e che possono arrivare alla negazione della dignità dell’altro, entrare in questo denso confronto, anzitutto con se stessi e con le proprie “zone d’ombra”, che possono ancora lasciare tracce, anche nei fedeli cattolici, di questa forma di perdita di dignità del peccatore, che per questo diventa motivo sufficiente a giustificare la sua riduzione a soggetto “senza dignità”. Una volta che un uomo venga considerato “indegno”, tutto diventa possibile. Questa legittima domanda di “dignità al di là delle circostanze” deve essere non solo affermata, ma accuratamente circostanziata e studiata da un pensiero ben articolato.
Mueller e la teologia non aggiornata
E’ evidente che la distinzione tra “non uccidere” e “non uccidere l’innocente”, che Mueller fa propria, nasce proprio dalla cultura sociale per cui il colpevole di reati gravi “perde onore e dignità” e quindi, uccidendolo, si fa il suo bene. Per secoli abbiamo interpretato le parole del “buon ladrone” (Lc 23,41), come giustificazione della pena di morte. Una lettura fondamentalistica della scrittura è una delle condizioni di una teologia non aggiornata. Questo è il filo rosso che anche oggi sta al di sotto dei tentativi (di Mueller e di alcuni altri) di giustificare ciò che è diventato (per fede e per cultura) ingiustificabile. Papa Leone, diversamente da Mueller, vive nella società della dignità e concepisce una “dignitas infinita”. In questo deve confrontasi con il persistere (anzitutto nel suo paese di origine, gli USA) di un pensiero arcaico e arretrato, presuntuoso e violento, che giustifica la perdita della dignità del colpevole. E’ il sopravvivere di una società dell’onore nel cuore della società della dignità. La argomentazione di Mueller utilizza una formula molto pericolosa: “tra gli insegnamenti della Chiesa era accettato”. Se ragionassimo con questo metro, potremmo giustificare quasi tutto: il divieto di usare la energia elettrica, la bicicletta, la uccisione degli omosessuali, o anche il diviete di sedere alla stessa mensa, nello stesso palco di teatro o nello stesso banco in chiesa tra bianchi e neri. Anche questo, nella società dell’onore, era accettato dalla Chiesa…
Guardini e il travaglio intorno al Vaticano II
Ma le nuove evidenze sono recenti. Persino Romano Guardini, ancora nel 1961, sia pure in un altro contesto e con la intenzione di escludere il ritorno della pena di morte in Germania, concepiva però la insuperabilità della concezione per cui lo stato non può privarsi del diritto sulla vita dei cittadini senza perdere ogni sua autorità. Il chiarimento della “dignità infinita” è davvero una delle sfide radicali del nostro tempo, da cui dipende il modo con cui intendiamo la relazione sociale e la infinita dignità di ogni persona umana.
Nel suo testo Sul problema della reintroduzione della pena di morte (in R. Guardini, Scritti politici, ed. M. Nicoletti, Brescia, Morcelliana, 2005, 543-547) Guardini procede in tre passi. Nel primo denuncia una certa confusione nel dibattito del suo tempo, enumerando una serie di “argomenti” da considerare separatamente: la restrizione della libertà non sembra pena sufficiente a ristabilire la giustizia; l’abuso della pena di morte da parte dei regimi nazisti e comunisti l’ha resa un omicidio legalizzato; la esecuzione viene oggi percepita come disumana; non c’è accordo sul diritto dello Stato a comminare la pena di morte; non più colpa e peccato, ma deterrenza e riabilitazione giustificano la pena. “Pertanto alla pena di morte sembra mancare una fondazione sufficiente”.
Ma queste argomentazioni, ad avviso di Guardini, non colgono il “nesso decisivo”. I difensori della pena di morte partono da un presupposto metafisico-religioso: un giudizio sulla vita o sulla morte può essere pronunciato solo da uno Stato che si riconosca una autentica autorità. Non come esercizio di una funzione dell’ordinamento, ma come “rappresentante dell’autorità in quanto tale, dunque della autorità di Dio e della sua maestà”.
Per Guardini questo modo di difendere la pena di morte non deriva da motivi dispotici o sadici, “ma dalla stessa radice da cui deriva l’amore, cioè dalla convinzione che l’esistenza è determinata personalmente, in ultima istanza dalla personalità assoluta di Dio”. Ma se lo Stato rifiuta questa rappresentanza, perde quel “peso ontologico” che costituisce il presupposto di un giudizio legittimo sulla vita e sulla morte. Quando questo è perduto, il rapporto con la pena di morte diventa o utilitaristico o criminale.
Siccome Guardini riconosce che, già ai suoi tempi – ossia più di 60 anni fa – questa riconduzione della autorità alla sua base ontologica “non sembra avere più luogo”, allora una eventuale reintroduzione della pena di morte sarebbe priva di fondazione autentica.
Ma per Guardini resta come una ferita aperta: egli ribadisce, con una certa dose di nostalgia, che “l’ordinamento giuridico che punisce determinati delitti gravi con pene che prevedono soltanto una restrizione della libertà è oggettivamente insufficiente e finisce necessariamente per condurre a una disgregazione della coscienza giuridica e dell’ordine della vita”.
Conclusione
La questione bruciante per Guardini è la autorità. Forse è anche la questione che sta a cuora a Mueller, ma con argomenti molto più rozzi. Quello che oggi è certo è che il papa, che non risponde più ai tratti del Du pape di J. De Maistre, non garantisce l’autorità (anche dello Stato) se non con l’annuncio della misericordia. Ed è nella logica della misericordia che possiamo parlare, ultimamente, di una “dignità infinita” di ogni vita umana. Questo è un tema fondamentale, che va al di là delle competenze strettamente teologiche e investe tutta la cultura, se vuole diventare davvero cultura di pace.