La memoria corta di “Summorum Pontificum”


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La recente soppressione della Commissione “Ecclesia Dei” riapre il necessario dibattito intorno alla radice della questione: ossia sul MP “Summorum Pontificum” e sulla difficile giustificazione della sua presenza nel corpo ecclesiale. Ripropongo un testo che ho scritto esattamente 10 anni fa, a circa un anno dalla introduzione del VO come “forma straordinaria” del rito romano. Riconsiderare oggi questi gravi limiti può essere occasione per sagge decisioni. Questo testo è comparso sulla rivista “Concilium” , 45/2(2009), 125-132.  

 

Un bilancio del Motu Proprio

“Summorum Pontificum”

Quattro paradossi e una intenzione dimenticata

Tra tutti gli atti firmati fino ad oggi (siamo agli inizi del 2009, n.d.a) da Benedetto XVI certamente il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, del 7 luglio 2007, ha concentrato su di sé una attenzione assai diffusa, in qualche caso certamente sproporzionata, ma senza dubbio non priva di alcuni buoni motivi. Senza sollevare interrogativi sulle ragioni formali addotte a giustificazione del provvedimento – cosa che, di per sé, sarebbe pure possibile – desidero però annotare una serie di “tensioni obiettive”, che il testo ha sollevato nel corpo ecclesiale e nella discussione teologica. Proviamo a indicarne quattro, più una intenzione dimenticata, per commentarle brevemente.

1) La mediazione impossibile: ossia la contraddizione tra intento pastorale e negazione di ogni pastoralità

Una prima tensione appare chiaramente profilarsi tra l’intento eminentemente pastorale – come appare dalle dichiarazioni esplicite del documento – e l’effetto di distorsione della pastorale che inevitabilmente si è prodotto lì dove il provvedimento è stato applicato senza il dovuto discernimento. Una pastorale della “riforma liturgica” non può reggere neppure per poco la presenza, accanto alla nuova forma rituale, della forma precedente, che proprio a causa dei suoi limiti ecclesiologici, teologici e strutturali ha dovuto essere profondamente rivista, emendata, migliorata. Solo l’indulto salvaguardava – sia pure a suo modo – il primato di una lungimiranza pastorale. La nuova soluzione, per la sua natura di provvedimento generale, che pretende di scavalcare la competenza episcopale in materia, rischia di disorientare “ogni” possibile pastorale, risolvendo la Chiesa in una azione rituale di carattere non pastorale, ma monumentale e museale, collocandola, in sostanza, fuori della storia o, meglio, senza alcuna storia possibile che non sia la ripetizione del passato. Se ne potrebbe dedurre, da parte di qualche sparuto e sprovveduto cristiano, che la storia, in quanto tale, risulti senza senso. E non sarebbe azzardato trovare, in questa ardita deduzione, la traccia di una ispirazione derivante da un agostinismo esasperato nel suo potenziale di disincanto e di pessimismo.

2) Realtà virtuali e finzioni giuridiche: ossia la ricostruzione ipotetica del reale per avvalorare la plausibilità dell’impossibile

Una seconda tensione è quella che viene a determinarsi quando si eccede in una ricostruzione ipotetica o congetturale della realtà ecclesiale, per costringerla ad ospitare ancora ufficialmente al suo interno ciò che da decenni è ormai oggettivamente e soggettivamente superato. Non è un caso, infatti, che proprio sul piano delle considerazioni “di diritto”, come anche su quelle “di fatto”, il MP sia stato costretto a procedere con “finzioni” non piccole e non indolori. Da un lato, infatti, il documento papale configura una “vigenza giuridica” del vetus ordo che risulta a dir poco discutibile e niente affatto ovvia: essa viene affermata, lapidariamente, ma questo non basta a fondarne la realtà e la efficacia giuridica. Qui non si può presumere alcuna “parola creatrice”! E la pretesa di una equivalenza tra “non abolito” e “vigente” è un salto mortale argomentativo che giuridicamente, nel caso specifico, non appare affatto fondato.

Sul versante opposto, invece, si ipotizza una competenza circa la lingua latina – con tutto il carico di esperienza e di pratica che essa dovrebbe comportare – che di fatto non si dà più da almeno 50 anni nel 95% della Chiesa. Un diritto congetturale e un fatto inconsistente che cosa possono promettere di buono? E quale immagine della Chiesa si può desumere dal tentativo contorto e affannoso di ricostruirne la realtà mediante finzioni giuridiche senza tradizione e/o ipostatizzando l’autorità di “fatti” puramente congetturali? Coniungando la vigenza di ciò che non vige più con l’esistenza di ciò che non esiste più, che cosa potremo mai ottenere?

3) Un intreccio di logiche provinciali: ossia la differenziazione del mondo e una certa tendenza a “provincializzarsi” della curia romana

Vi è poi da considerare la singolare alleanza che è venuta a crearsi tra alcune regioni particolari dell’universo ecclesiale cattolico e pratiche mai abbandonate nelle consuetudini non scritte della curia romana. Infatti, se dovessimo recensire i luoghi di pratica resistente del “vetus ordo” – ovviamente escludendo i circoli aristocratici che sopravvivono a se stessi senza più nessun rapporto effettivo né con la chiesa né con il mondo – dovremmo mettere insieme alcune periferie della chiesa con il suo nucleo istituzionale più centrale. Ossia luoghi in cui – di fatto – è possibile o ridurre ancora la pastorale alla sola pratica rituale, oppure fare a meno della relazione pastorale, traducendola integralmente in “pratiche d’ufficio”. In tali regioni – così differenziate – la vita degli uomini può strutturalmente prescindere dalla riforma liturgica: in alcuni uffici romani come in alcuni villaggi della Cina, della Francia o dell’Africa, è possibile illudersi che il “rito di Pio V” possa costituire il presente e il futuro della Chiesa. Ma questa singolare alleanza rappresenta un pericoloso fenomeno di “provincializzazione della coscienza ecclesiale”, di cui ci si rende conto non appena si aprano gli occhi sulla realtà effettiva (tanto della reale esperienza di vita di quelle stesse provincie periferiche, quanto della faticosa crisi di identità e di rilevanza di settori non esigui di quella provincia che si chiama “curia romana”).

4) La resistenza ad oltranza al Vaticano II: ossia una buona occasione offerta ad ogni forma di strutturale (e/o patologica) nostalgia del pre-concilio

Non era difficile prevedere, prima ancora della sua approvazione, che questo testo sarebbe diventato il vessillo – sproporzionato sia rispetto alle intenzioni, sia rispetto alle intelligenze – per tutte le forme di resistenza alla Chiesa voluta dal Concilio Vaticano II? Forse non si è valutato a sufficienza il valore simbolico di una “rivitalizzazione” della pratica liturgica pre-conciliare, come supporto simbolico ad ogni nostalgia dell'”ancien régime”, di carattere ecclesiale, politico, etico, catechistico, disciplinare o estetico, che sarebbe garantita dall’autorità più alta. Insomma, una sorta di segreta riscossa nei confronti del mondo moderno, della “libertà di coscienza” e della uscita dallo stato di minorità. Ma in tutto questo non si è adeguatamente considerato un altro fatto: che il messale di Pio V entra oggi nel “nuovo uso” come un testo del tutto “moderno”, che presuppone come soggetto l’individuo e che propone una lettura tradizionalistica della tradizione, come fanno tanto facilmente gli uomini moderni e postmoderni. Rispetto ad esso, il progetto del messale di Paolo VI appare invece autenticamente “antico”, poiché desidera recuperare una esperienza vitale e non museale della tradizione, col fatto di riaffidare al presente e al futuro un ruolo non solo reduplicativo del passato nella ridefinizione della tradizione cristiana. Il richiamo al messale tridentino come una forma di “utopismo tipicamente moderno” non è affatto una ipotesi da scartare a priori nel valutare le attese sproporzionate e l’impatto deludente del documento papale.

5) Una intenzione dimenticata: la “riforma” di Giovanni XXIII nel 1962

A quanto detto fin qui si deve aggiungere, per completezza, una ulteriore considerazione: infatti, non solo dal testo Conciliare di “Sacrosanctum Concilium” non è possibile desumere alcuna “vigenza parallela” di due forme rituali dell’unico rito romano1, ma piuttosto appare evidente il contrario, ossia la chiara intenzione di istituire un percorso di “adeguamento” e “sostituzione” dell’assetto rituale preconciliare2. Vi è poi da aggiungere che moltissimi provvedimenti attuativi della Riforma, emanati da Papa Paolo VI, rivelano una non equivoca intenzione di sostituire con il regime rituale nuovo quello precedente (come del resto è sempre stato nella storia della Chiesa). E tuttavia – paradossalmente – si deve anche riconoscere che una tale intenzione può essere desunta persino dalle intenzioni del predecessore di Paolo VI, ossia da Giovanni XXIII, il quale, nel documento che introduce e rende possibile la “nuova edizione” del Messale tridentino del 1962, sottolinea non soltanto di aver voluto continuare (e portare a termine) il progetto di Pio XII di una completa revisione delle rubriche del Breviario e del Messale Romano, ma di aver fatto ciò per lo spazio di tempo – ancora non facilmente calcolabile nel 1960 – tra la convocazione del Concilio Vaticano II, la sua celebrazione e l’opera di Riforma Liturgica che già si prevedeva sarebbe stata compiuta in seguito al Concilio3. Ne risulta perciò, con una certa sorpresa, che il Messale del 1962 – del quale oggi si vuole rendere “sine die” parallela la vigenza rispetto a quello di Paolo VI – era stato approvato da Giovanni XXIII non come una “grande riforma” – per riprendere la temeraria definizione che oggi isolati soggetti ecclesiali pretendono di utilizzare – ma come un “testo provvisorio” in attesa della celebrazione del Concilio e della riforma liturgica che già nel 1960 si prevedeva ne sarebbe scaturita!

6) Conclusioni

Lo “sviluppo organico” della tradizione liturgica comporta inevitabili “svolte”, con una continuità che ha bisogno di alcune vitali discontinuità. Come accade alle generazioni – dove il figlio è pienamente figlio solo quando il padre non gli è più vicino – un rito di Paolo VI, che avesse sempre accanto il rito di Pio V, resterebbe perennemente infantile e fragile, non crescerebbe mai fino alla maturità; mentre un rito di Pio V che non si rassegnasse a perdersi e a ritrovarsi nel figlio, cadrebbe in un paternalismo invadente e in un moralismo senza vera fiducia.

Forse ciò che oggi ci manca in misura maggiore è proprio la coscienza di una tale dimensione generazionale e pedagogica del Concilio Vaticano II, che era ancora cosciente di avere bisogno di figli e di nipoti perché la tradizione antica potesse avere un seguito e che pertanto poteva considerare il proprio munus come “inizio di un inizio” e non semplicemente come “continuazione di un traditum”, senza la pretesa di “cominciare ex novo”, ovviamente, ma anche senza la presunzione di poter “continuare senza novità”.

Il conflitto di interpretazioni che oggi attraversa pericolosamente la coscienza ecclesiale “in re liturgica” dipende in larga parte dalla mancanza di questa autentica preoccupazione tradizionale “per i figli e per i nipoti”, che noi oggi possiamo recuperare riscoprendo accuratamente le evidenze che hanno guidato il Movimento Liturgico originario e la Riforma Liturgica ad impostare una seria risposta alla “questione liturgica”: che la liturgia cristiana possa ancora “generare fede”, possa ancora essere “fons” di azione ecclesiale e di spiritualità personale, questa è l’unica speranza che la Riforma liturgica aveva come obiettivo e che noi non possiamo né ignorare né sottovalutare.

Tale istanza non ha cessato di interrogarci e di provocarci, purché non abbiamo deciso – ad un tempo disperatamente e presuntuosamente – di essere gli ultimi cristiani ancora fedeli ad una grande tradizione (solo) antica, ridotta alla figura di un passato prezioso da chiudere in un museo, con aria condizionata e sistemi di sicurezza, ma senza vita e senza figli.

1    Si raggiunge qualche magro risultato in tal senso solo al prezzo di letture talmente forzate e implausibili, da condurre il lettore non solo sulla soglia dello sbigottimento, ma ben oltre il limite del buon gusto: cfr. ad es. il Dossier, a cura di N. Bux e A. Vitiello, Il Motu Proprio di Benedetto XVI “Summorum Pontificum cura”, della Agenzia FIDES, datato 1 agosto 2007 e reperibile sul sito internet www.fides.org.

2    Per fare un esempio, si consideri attentamente il dettato di SC 25 e 128: “I libri liturgici siano riveduti quanto prima, servendosi di persone competenti e consultando vescovi di diversi paesi del mondo” (SC 25); “Si rivedano quanto prima, insieme ai libri liturgici, a norma dell’art. 25, i canoni e le disposizioni ecclesiastiche che riguardano il complesso delle cose esterne attinenti al culto sacro, specialmente per la costruzione degna e appropriata degli edifici sacri, la forma e l’erezione degli altari…Quelle norme che risultassero meno rispondenti alla riforma della liturgia siano corrette o abolite; quelle invece che la favoriscano siano mantenute o introdotte” (SC 128, corsivo mio). Si deve notare come la mens del Concilio non faccia alcun riferimento a “tradizioni parallele”, ma esplicitamente parli di “correzione”, “abolizione”, oltre che di “nuove introduzioni”. D’altra parte, la fragilità della teoria del “doppio uso parallelo” appare chiara quando si consideri oggi l’esigenza di “adeguamento” dello spazio liturgico, voluta esplicitamente dal Concilio e promossa con forza dal post-concilio, e che invece una teoria del “parallelismo di forme rituali” potrebbe rendere non solo difficile di fatto, ma addirittura impossibile per principio.

3    Il documento in questione è il Motu proprio “Rubricarum Instructum” di Giovanni XXIII del 25 luglio 1960, con il quale si dà seguito al progetto di Pio XII, il quale, mentre maturavano il disegno e gli studi preparatori di una generale riforma liturgica, decise dapprima di rivedere le rubriche del Breviario Romano, ma poi, dopo aver consultato i Vescovi, mise mano al progetto di revisione complessiva delle rubriche di Breviario e Messale Romano, affidandone lo studio alla Commissione incaricata della riforma generale della liturgia. A ciò Giovanni XXIII aggiunge: “Nos autem,postquam, adspirante Deo, Concilium Oecumenicum coadunandum esse decrevimus, quid circa huiusmodi Predecessoris Nostri inceptum agendum foret, haud semel recogitavimus. Re itaque diu ac mature examinata, in sententiam devenimus, altiora principia, generalem liturgicam instaurationem respicentia, in proximo Concilio Oecumenico patribus esse proponenda; memoratam vero rubricarum Breviarii ac Messalis emendationem diutius non esse protrahendam“. E’ qui evidente come il progetto dell’imminente Concilio crei una tensione tra il limitato disegno di una revisione delle rubriche e il ripensamento degli “altiora principia” che avrebbero portato alla più generale riforma del rito romano. Quella edizione del Messale Romano, che ne sarebbe scaturita due anni dopo, viene dunque pensata come destinata all'”interregno” tra il rito di Pio V e il rito che in seguito alla Riforma Liturgica sarebbe stato promulgato successivamente (da Paolo VI): si trattava, insomma, di una provvisoria, ma non più rinviabile, revisione del precedente sistema rubricale, in vista di un più complessivo ripensamento, del quale si sentiva, già nel 1962, un urgente bisogno, e che tuttavia dal Papa non poteva essere anticipato “motu proprio”, proprio per rispettare l’imminente solenne celebrazione del Concilio.

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