La favola del cavallo morto


«Il cervello di vertebrati e mammiferi ha strutture cerebrali profonde, con al centro un sistema di ricompensa, lo striatum. Da questa struttura nervosa dipendono cinque motivazioni-base tuttora attive in noi: mangiare, riprodursi, acquisire status sociale, minimizzare gli sforzi, avere informazioni. Spinge gli esseri umani a questi comportamenti garanti di sopravvivenza, senza limiti a priori, con il piacere dato dalla molecola dopamina. Gli esseri umani sono arrivati sulla scena evolutiva ereditando queste motivazioni di base» [Sébastian Bohler, neurobiologo, intervistato da Elisabeth Berthou, «Crise environnementale: “Notre matériau neuronal nous fait repousser l’idée de s’autolimiter”», La Revue du Monde, 13/06/22, online]. «Da cui l’aporia: crescere senza fine in un mondo finito. Per fortuna, abbiamo scienza e coscienza di questo limite. Siamo soggetti a due tensioni contraddittorie: l’arcaica che incita a crescere e la parte più evoluta del nostro cervello che ci ingiunge di rispettare i limiti del pianeta. Il nostro avvenire sulla Terra dipenderà dall’esito di questo conflitto» [Thierry Ripoll, ricercatore di psicologia cognitiva, ibid.].
«Deprediamo gli oceani non perché siamo individui affamati di pesce, ma perché la pesca industriale è ampiamente sovvenzionata e i guasti provocati non sono più inclusi nel costo dei suoi prodotti venduti sul mercato. Aspergiamo i campi di prodotti sintetici non perché mancano i cereali, ma per le politiche d’incentivo a produrre surplus di materie prime agricole autorizzando la distruzione della biodiversità. Ricondurre la crisi ambientale ai comportamenti degli individui e questi alle funzioni del cervello non ha a che fare con scienze cognitive o neuroscienze: è travestire ideologie politiche da volgarizzazioni scientifiche. È eliminare dalla scena le conseguenze delle scelte politiche e occultare le responsabilità nostre e delle nostre élite in questa catastrofe». «L’hanno scritto Jean-Baptiste Fressoz e Christophe Bonneuil (L’Evénement anthropocène, Seuil 2013): è appropriata la radice greca anthropos per dare nome all’era geologica di dominio distruttore dell’uomo? Buschmen o Nambikwara, a pieno titolo della nostra specie, non hanno responsabilità alcuna … Non è più corretto parlare, suggerivano i due storici, di capitalocene?». «Anche qui, nessun fato. Il capitalismo finanziarizzato non è l’evoluzione naturale del nostro funzionamento economico e il miglior antidoto all’idea è il libro di David Graeber, antropologo, e David Wengrow, archeologo (Au commencement était… Une nouvelle histoire de l’humanitè, Les Liens qui libèrent, 2021)». «Non vi sono direzioni obbligate né evoluzioni naturali delle organizzazioni sociali e politiche, ma una moltitudine di percorsi che è possibile intraprendere, senza peraltro “tornare alle candele”. Leggetelo, è eccellente per il cervello» [Stéphane Foucart, «Climat: laissez le cerveau en dehors de ça», Le Monde, 26-27/06/22, online].
Per il cervello che sa distinguere tra la realtà e la favola.

La favola del cavallo morto [David S. Landes, tr.it. Donzelli 1994] sarebbe la portata rivoluzionaria della rivoluzione industriale, contestata da economisti quantitativi come «un cavallo morto che non si è rassegnato del tutto a tirare le cuoia» [E.L. Jones, ivi, p. 32]. Ma «nessun storico serio dell’Europa e del mondo sarà in grado di comprendere il nostro tempo senza considerare la Rivoluzione industriale e le sue conseguenze come i progenitori di un nuovo tipo di modernità» [p. 64]. Nella rivoluzione industriale, «l’economia non è localizzabile e le politiche che lo dimenticano sono nocive» [François Perroux, L’economia del XX Secolo, tr.it. Il Saggiatore, 1967, p. 143]. Come vediamo.
«Quello che va sottolineato, però, è la rapidità con cui il mutamento tecnologico si riflettè sui mezzi di sostentamento dei lavoratori e si tradusse in protesta, in molti casi violenta» [Landes, cit., p. 49].
«L’unica cosa che fece funzionare l’industrializzazione fu che le società, nell’arco di alcuni decenni, riscrissero completamente il proprio contratto sociale. Chiedete al primo venuto di dirvi quali sono state le grandi innovazioni nella storia umana: la risposta sarà probabilmente una tecnologia come la ruota, l’orologio, il motore a vapore o il microprocessore. Ma altrettanto significative sono state le innovazioni che hanno ristrutturato l’umanità quanto la tecnologia ristrutturava l’economia. Parlo di pensioni di lavoro, istruzione pubblica gratuita e salario minimo, tutto spuntato dal turbinio dell’industrializzazione ottocentesca. Gli operai e i cittadini si mobilitarono affinché i governi e le imprese in grande espansione riscrivessero il contratto sociale in modo che l’industrializzazione non avvantaggiasse soltanto i padroni. Con il passaggio al Ventesimo secolo, continuarono a emergere nuovi pesi e contrappesi, le leggi antitrust, la tassazione dei redditi, la proibizione del lavoro minorile, una rete di protezione e previdenza sociale, parametri ambientali. Queste revisioni del contratto sociale permisero alle società di sfruttare il rapido ritmo delle innovazioni industriali in modo che facesse crescere anche il livello di vita dei cittadini. Dal bailamme della Rivoluzione industriale abbiamo ricavato un equilibrio fondamentale tra governo, popolazione e grandi aziende. Ora le imprese potevano influenzare la nostra vita quotidiana in senso sia positivo sia negativo, mentre lo Stato aveva il potere di tenerle in riga, e la popolazione aveva il potere di scegliere i propri capi. Tuttavia in questo Ventunesimo secolo l’equilibrio si è disassato in gran parte del mondo occidentale, e i danni dilagano anche nelle economie asiatiche e del mondo in via di sviluppo. Negli ultimi decenni è emersa una stordente combinazione di fattori che scuotono il pianeta: la rivoluzione digitale, la globalizzazione, la deregulation, il populismo, l’arrivo di una crisi climatica globale. Tutto ciò ha ristrutturato radicalmente il rapporto tra governo, cittadini e imprese, in ogni nazione del pianeta e nell’arena internazionale. Però troppe nostre società non hanno ancora messo a punto un nuovo contratto sociale che sia all’altezza di questi cambiamenti». «Se il livello di disuguaglianza negli Stati Uniti fosse rimasto costante negli ultimi quarant’anni invece di ampliarsi fino a questa condizione attuale in stile film Mad Max, ai lavoratori con un reddito inferiore al 90° percentile sarebbero andati 50.000 miliardi di dollari. Significa 1100 dollari in più ogni singolo mese per ogni singolo lavoratore». «Il contratto sociale che era stato rivisto e riequilibrato con successo è di nuovo disassato» [ibid]. [Alec Ross, I furiosi Anni Venti. La guerra fra aziende, stati e persone per un nuovo contratto sociale, tr.it. Feltrinelli 2021, pp. 24-25].
Nell’era della rivoluzione industriale, «non ci si può aspettare di cambiare una economia come fosse un regime – come stanno scoprendo le nazioni dell’Europa dell’Est» [Landes, cit., p. 64]. «La Russia di Eltsin cadde senza transizione nel capitalismo selvaggio. Un piano di privatizzazioni rapido e massiccio permise a un piccolo gruppo di individui di appropriarsi delle risorse del paese e ammassare fortune indicibili in condizioni discutibili. Ma alcuni oligarchi commisero l’errore di usare la ricchezza per estendere la loro influenza politica, dando al Cremlino l’alibi ideale per riprendere in mano il sistema. Al periodo di caos post-sovietico seguì sotto Putin una riorganizzazione sistematica dell’apparato dello Stato e dell’economia». «Il messaggio agli oligarchi fu molto chiaro: condividere potere e ricchezza e continuare una vita dorata tra Londra, Saint-Tropez, Gstaad; o rifiutare e rischiare di finire in una cella-dormitorio con altri duecento detenuti in una colonia penitenziaria nelle pianure innevate della Carelia. Non tardarono a scegliere. Il controllo dello Stato passa anzitutto nelle società dei settori strategici di energia (Gazprom, Rosneft), banca (Sberbank, VT Bank) e difesa (Sukhoi). I ministri più importanti sono in consiglio di amministrazione di questi gruppi, spesso rinazionalizzati» [Daniel Pinto, Le Choc des capitalismes, Odile Jacob 2013, pp. 116-7].
Pure se straordinariamente ricca nel sottosuolo, «la Russia ha handicap pesanti. Anzitutto i problemi demografici del paese paiono insormontabili. Gli altri ostacoli al decollo della Russia sono ben noti: un sistema giudiziario sotto controllo politico e soprattutto una endemica corruzione a ogni livello sociale che finisce per minare l’energia creativa del paese. Alcuni think tank attenti a queste questioni hanno stimato che le tangenti distribuite ogni anno in Russia siano sui 300 miliardi di dollari, quasi il 20% del prodotto interno lordo del paese» [p. 121]. Anche dopo la conquista della Crimea nel 2014 la demografia russa è in crisi [Orietta Moscatelli, «Montagne russe», Limes, 03/03/2021, online].
Ma il mix pubblico-privato «è spaventosamente efficace. Se i Cinesi hanno favorito la creazione di campioni nazionali in pratica in ogni settore, la Russia ha preferito focalizzarsi su alcuni settori-chiave. Ma in questi settori lo Stato mobilita tutta la forza finanziaria e influenza politica per sostenere i campioni ufficiali o ufficiosi». «A fronte di queste potenze stato-imprese, sarà impossibile vincere la battaglia economica se si resta nell’illusione che le sole forze del mercato basteranno ai nostri grandi gruppi per prevalere» [Pinto, cit., p. 121]. Eppure, «mito maggiore dei due ultimi decenni in Occidente è che il sistema capitalista moderno deve tutto il successo all’iniziativa imprenditoriale e alla ritirata dello Stato». «Si scorda che l’Occidente ha costruito non sul liberalismo senza briglie ma sul triangolo imprenditore-Stato-mercato in cui l’imprenditore ha un ruolo centrale, ma missione dello Stato è incoraggiare l’iniziativa e sostenere l’attività economica» [ivi, p. 147]. «Si sarebbe tentati di pensare che l’industria informatica sia nata nel garage di qualche illuminato californiano, ma è una immagine popolare che non corrisponde ai fatti. I primi supercomputer furono realizzati per l’esercito, poi utilizzati dalla Sicurezza Sociale. Il governo americano ebbe un ruolo chiave nello sviluppo della industria dei pc creando negli anni ’70 l’Advanced Research Project Agency (ARPA) con università quali Stanford, Carnegie Mellon, MIT». «L’idea stessa di Internet nacque in istituti di ricerca pubblici in risposta al bisogno delle forze armate di comunicare senza interferenze del nemico sovietico». E «l’industria delle biotecnologie negli USA non sarebbe quella che è, se lo Stato federale non l’avesse finanziata a colpi di miliardi di dollari di sovvenzioni» [ivi, pp. 148-9].
La rivoluzione industriale non si ferma e oggi impone un contratto sociale globale, inconcepibile per i capi-tribù, sperimentati nel laboratorio Italia (Berlusconi, avatar-Salvini, Grillo …) e in questi primi furiosi anni Venti del Duemila a caccia di bottino ovunque a tutti i costi con ogni mezzo (Putin, Trump, Musk …). Ma in Italia già «il bisnonno protettivo di ogni economista italiano, Luigi Einaudi scriveva nel 1956 che “Tutti, salvo gli imprevidenti e gli innocenti, fanno piani” e di piani avremmo molto bisogno, dai problemi dell’ambiente a quelli della povertà e delle disuguaglianze». «È indispensabile allora un vero “concerto politico” sovranazionale per la pianificazione. L’immagine del concerto porta a un esempio: immaginiamo di ascoltare il Bolero di Ravel, con la sua cellula melodica che via via si arricchisce di strumenti. Una metafora della società sempre più complessa. Chi esegue quel pezzo ha la volontà di giungere al grande risultato del “tutti”. Usiamolo come metafora di ciò che vogliamo» [Pietro Terna, «Punture di Spillo: “Pianificazione morta e sepolta?”. Forse no», La Porta di Vetro, 07/07/2022, online].
L’UE, per dire, non a caso al centro dell’attuale crisi (ambientale, pandemica, bellica) globale.
Se l’aggredita Ucraina vuole aderirvi, «la Polonia pensa invece al rafforzamento della NATO (e perciò dell’America), garante della sicurezza dei confini europei. L’hanno detto il presidente polacco, Andrzej Duda, e il suo primo ministro, Mateusz Morawiecki». «Un governo più saggio avrebbe usato la sua nuova centralità per divenire un attore più influente in UE, non solo un gigante locale». «Ma nel curriculum del governo PiS c’è lite, non cooperazione» [«Poland is being given an opportunity to matter in Europe», The Economist Today, 05/07/2022, online]. E in Ungheria «nel suo copione anti-occidentale Orban sembra recitare soprattutto la politica dei veti a soddisfare un elettorato nettamente più filorusso dopo il 2010, spinto dalla propaganda oltranzista dei media agli ordini di Orban. Per questo, pronto a rinunciare ai suoi sogni di grandezza europea a fronte del rigetto da lui provocato ormai in pressoché tutto il Vecchio Continente» [Jean-Baptiste Chastand e Virginia Malingre, «Isolè, Viktor Orban joue la politique du veto», Le Monde, 13/07/22, online].
L’UE è la punta di diamante dell’indispensabile patto sociale globale nella rivoluzione industriale più viva che mai. Libera nos a Malo, diciamo con Luigi Meneghello [1969], che nel 1964 annotava: «Andrea: “Dà fastidio che la forza trionfi nelle faccende del mondo, ma è lei che trionfa. Giustizia, onestà, buone intenzioni, sono belle cose, ma quando incappano nella forza restano sempre perdenti”. Suona bene, ma non del tutto: come anticamente le colombine d’argento da cinque lire, un suono sottile, vagamente irreale» [Le Carte, vol. I, Rizzoli 1999, pp. 71-2]. «Tutto ciò che siamo e che abbiamo non è cascato dal cielo: è stato fatto qui. Questo si poteva dire con un certo orgoglio al mio paese, esagerando un po’: oggi si può ripetere per l’intero globo abitato con un senso di inquietante verità letterale. Come dire, colpa nostra» [ivi, p. 101]. Come dire, responsabilità nostra.
Qui e ora al nostro paese, l’Europa, proiettata verso l’Africa e le sue enormi potenzialità di crescita culturale, demografica, civile, politica, economica, nella perdurante rivoluzione industriale portatrice di un patto sociale globale e, anzitutto, tra i vicini di sempre nel Mediterraneo, non più per escludersi ma per lavorare insieme. Quanto a noi, sulla via tracciata da Mattei e Moro. E Draghi.

Share