Il Sinodo come il Concilio: tradurre la tradizione


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Il Sinodo come il Concilio: tradurre la tradizione

di Andrea Grillo*

È stato il primo papa “figlio del Vaticano II” a interpretare il sinodo dei vescovi secondo una logica, al tempo stesso, nuova e antica. La fiducia nella possibilità di una necessaria “traduzione” dell’“antica dottrina” – ossia la certezza di un’evoluzione progressiva dell’esperienza ecclesiale – attraversa la storia della Chiesa recente, ma lo fa in modo non lineare, talvolta con andamento “carsico”.

Vediamo di che cosa si tratta e in che modo questo compito di traduzione riguarda in profondità la “scelta pastorale” inaugurata dal concilio Vaticano II e ripresa dalla preparazione del duplice appuntamento del sinodo dei vescovi sotto il pontificato di Francesco.

Continuità e novità.

Il principio di una “continuità della tradizione” può e dev’essere coniugato con l’esigenza di una continua trasformazione e adeguamento del contenuto della dottrina cristiana in forme sempre nuove. È la “natura della dottrina” a essere in gioco.

Infatti, se una tradizione è forte, sa sempre tradursi in forme nuove. Se, invece, è debole, si irrigidisce in una forma statica che, gradualmente, perde il rapporto con l’uomo e soprattutto con Dio. La dottrina, preoccupata da ogni mutamento storico e sociale, assume una forma immutabile e senza rapporto con il reale.

La fragilità di questa soluzione consiste nel perdere l’equilibrio tra identità e rilevanza. Una dottrina cristiana che si riduca ad una difesa dell’identità, perde riferimento al reale e diventa “autoreferenziale”. Essere autoreferenziale è, per una dottrina, una delle forme di crisi peggiori. La crisi è molto insidiosa perché non si presenta come negazione della tradizione, ma come una sua affermazione completamente distorta. La distorsione consiste precisamente nel perdere il riferimento alla realtà della storia e del mondo, chiudendosi nel puro riferimento a se stessa. Autoreferenziale è una dottrina in cui la Chiesa non parla più né di Dio né dell’uomo, né a Dio né all’uomo, ma solo di e a se stessa.

L’esempio della tradizione/traduzione liturgica.

Nella tradizione recente, ancora prima del concilio Vaticano II, si è posta la medesima questione che oggi affrontiamo intorno al “matrimonio”, a proposito della “lingua liturgica”. La domanda che veniva sollevata, in modo nuovo, era, allora per la prima volta: è legittimo tradurre la tradizione liturgica? Il valore “sacramentale” dell’eucaristia permane se le parole della preghiera eucaristica e della “consacrazione” sono pronunciate non in latino, ma in francese o in inglese o in italiano?

A distanza di più di mezzo secolo, quelle discussioni appaiono certamente datate, oggi quasi incomprensibili. Ma, dietro di esse, si nasconde la medesima questione che oggi affrontiamo circa il matrimonio. È legittimo “tradurre” la tradizione? Le forme di comprensione “autoreferenziale” della dottrina preferiscono non correre il rischio della traduzione, illudendosi che la tradizione comunichi “di per sé”. In tal modo essa cade nell’afasia, nella presunzione, ed è tentata di “scomunicare” tutti coloro che la fraintendono.

L’ultimo ventennio e il “pro multis”.

Proprio su questo stesso tema della “tradizione/traduzione liturgica”, abbiamo assistito, negli ultimi anni, ad una regressione assai pericolosa della riflessione teologica e dell’esperienza pastorale. Il documento che ha segnato questa fase è la 5ª Istruzione sull’attuazione della riforma liturgica, Liturgiam authenticam (2001).

In questo documento viene teorizzato, in modo ingenuo e semplicistico, un ideale di “traduzione” meramente letterale, che dispensa dall’interpretazione. L’ultima propaggine di questa involuzione è venuta alla luce nella pretesa di tradurre letteralmente l’espressione pro multis, nelle parole eucaristiche sul calice, assumendo le lingue moderne come meri “strumenti” per rendere un’esperienza che sarebbe piena e vera solo in “lingua latina”.

L’accettazione delle “lingue vernacole” deve liberarsi dalla pretesa che la tradizione si dia esclusivamente in una forma linguistica “statica”. Se accettiamo la mediazione culturale come un elemento intrinseco alla Rivelazione, dobbiamo salutare la “traduzione” come un’esperienza di arricchimento della tradizione, e non solo come un rischio di impoverimento. La pretesa di tradurre letteralmente (ma in modo non comprensibile) per poi spiegare in un secondo momento il “vero significato” della parola tradotta è una forma di evidente autoreferenzialità comunicativa.

La tradizione/traduzione dell’esperienza coniugale.

Ciò che oggi appare dalle questioni che vengono sollevate nel lavoro di riflessione tra i due sinodi sulla famiglia riguarda esattamente la medesima questione. È legittimo tradurre la dottrina cattolica sul matrimonio dalle categorie medioevali alle categorie moderne? Questo oggi non riguarda semplicemente i “casi critici” delle cosiddette “famiglie irregolari” (o, meglio, delle “famiglie ferite” o delle “famiglie allargate”), ma, anzitutto, il modo di comprendere la famiglia in quanto tale, nella sua fisiologia di comunione, di amore, di generazione, di fedeltà.

Sarebbe molto bello che, sollecitati a comprendere meglio l’esperienza familiare, iniziassimo ad elaborare categorie più adeguate, che potremmo applicare anche all’esperienza liturgica. Sarebbe, invece, del tutto errato e fuorviante, se dovessimo pretendere di applicare anche al matrimonio quelle soluzioni autoreferenziali e miopi con cui, fino a qualche anno fa, avremmo preteso di “chiudere nella lingua latina” la grande tradizione celebrativa della Chiesa cattolica.

Forse proprio in una nuova esperienza di parresia ecclesiale potremo scoprire che il coraggio con cui abbiamo tradotto dal latino la liturgia partecipata del postconcilio deve oggi trasferirsi anche in ambito matrimoniale. Rinunciare alle soluzioni autoreferenziali non sarà semplice. L’illusione che una Rota Romana che parla solo latino possa costituire una soluzione alle questioni di bruciante attualità è solo l’ultima di queste illusioni autoreferenziali.

Ma è chiaro che solo una vera traduzione della tradizione potrà dare alla Chiesa un linguaggio con cui fare esperienze adeguate di comunione familiare e con cui esprimere, in modo nuovo ma fedele, il grande mistero del Vangelo del matrimonio: che non tramonta solo se è capace di accogliere con lungimiranza le novità di vita, di parole e di opere degli uomini e delle donne “non più medioevali”.

*questo articolo apparirà su Settimana n. 14/2015 nella rubrica “Si/si-No/no-Do: questioni intersinodali / 5”.

fonte: http://www.ilregno-blog.blogspot.it/2015/04/il-sinodo-come-il-concilio-tradurre-la.html
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