Il sacramento e la comunione. Sulle radici impensate di una festa medievale
La festa del Corpus Domini è nata al fine di recuperare la comunione eucaristica pasquale e invece ha generato una attenzione e una adorazione esclusiva per il prodotto della consacrazione. Cerco di chiarire questo percorso con alcune riflessioni storiche e teoriche. Molta parte della nostra sensibilità, delle nostre convinzioni e delle nostre fissazioni viene proprio da questa storia. Tutto comincia con il nipote di Carlo Magno, re Carlo il Calvo, che pose una domanda imbarazzante: “Ciò che riceviamo al momento della comunione è il Corpo di Cristo in verità o in mistero?” Questa domanda, se l’avessero ascoltata Ambrogio o Agostino, non la avrebbero neppure capita. Ma i tempi e le culture erano cambiati. Per rispondere in modo decente a questa domanda del IX secolo abbiamo impiegato almeno 400 anni. E comunque la domanda ha introdotto, per la prima volta nella cultura latina, una tensione che non abbiamo ancora risolto. Ossia la tensione tra verità e mistero, tra realtà e figura, tra contenuto e forma. Rispondere alla domanda del re non era facile. Forse, fin dall’inizio, si sarebbe dovuto più che rispondere alla domanda, contestare la domanda. Avremmo dovuto fare come Gesù, che normalmente non sta nella domanda che gli pongono. In questo caso la domanda, senza averne la intenzione, ha introdotto una alternativa, una separazione, una frattura, che ha profondamente segnato non solo la nostra teologia eucaristica, ma anche e forse soprattutto la nostra pratica.
Nella domanda, tuttavia, possiamo notare due cose: da un lato la alternativa tra verità e mistero; dall’altro il fatto che la domanda riguardi la comunione. Nel domandare Carlo il Calvo ha ancora chiaro che il centro della messa è la comunione. Nel modo con cui i monaci, i pastori e i teologi hanno risposto a questa domanda troviamo la storia del nascere di una teologia eucaristica professionale, assunta poi dal magistero. Di fatto i primi due trattati “sul corpo sul sangue di Cristo” stanno in rapporto a questa domanda e sono stati scritti da Pascasio Radberto e da Ratramno alla metà del IX secolo. Le tappe fondamentali con cui si è trovato un equilibrio tra verità e mistero (senza che un termine neghi l’altro, come avviene da parte di posizioni “eretiche”) si possono identificare in tre momenti principali:
a) la definizione di eucaristia di Innocenzo III, nel 1203, che dice “forma del pane e vino, verità del corpo e sangue, virtù della unità e carità”;
b) il concetto di “transustanziazione” di Tommaso d’Aquino, che dice la realtà sostanziale del Corpo e Sangue, la natura di specie di pane e vino e fa della “unità della Chiesa” il dono di grazia “non contenuto” nel sacramento;
c) I tre avverbi con cui il Concilio di Trento fissa la qualità della presenza “vere, realiter, substantialiter” purtroppo contrapponendoli a “segno, figura, virtù”.
Questo sviluppo, che copre circa 700 anni (più o meno dal 845 al 1547) determina non soltanto “definizioni”, ma anche “pratiche”. Tra le quali, in modo sempre più accentuato, lo spostamento dello sguardo dalla comunione (da cui era partita la domanda di re Carlo) alla consacrazione, rispetto a cui la comunione degrada, nel linguaggio scolastico, a “uso”. Già nella definizione di papa Innocenzo, ancora più nella teoria di Tommaso, il sacramento è soltanto la consacrazione, mentre la comunione diventa “uso del sacramento”. E’ utile notale che la festa del Corpus Domini nasce per contrastare questa tendenza, e rimettere al centro, almeno una volta l’anno, la comunione come verità originaria del sacramento. Questo è un punto che, storicamente, abbiamo trascurato, anche se nel Concilio di Trento ci fu l’idea di recuperare con forza questo momento conviviale come verità dell’eucaristia. Certo, se si legge oggi il testo della Bolla “Transiturus” di Urbano IV, si nota con grande sorpresa che al centro sta un desiderio di “riparare” alla grave ingiustizia per cui, nella settimana santa, il giorno dedicato alla comunione (ossia il giovedì santo) era allora occupato da molte incombenze penitenziali, ma non dalla comunione ecclesiale al pane e al calice.
Eppure, nonostante questo, la forza con cui si era dovuto rispondere alla domanda di Carlo il Calvo aveva segnato a tal punto la vita della Chiesa che anche una festa, nata per riscoprire la comunione, è stata piegata, fin dall’inizio, ad una festa della adorazione. Anche con gli eccessi di attenzione esclusiva alla “consacrazione” che hanno preso la forma dei miracoli eucaristici, nei quali è evidente come lo spostamento di sguardo dalla comunione alla consacrazione diventa non solo una possibilità, ma anche un problema. Per “vedere” o “toccare” qualcosa, bisogna uscire dalla tradizione eucaristica. Ciò che chiamiamo “miracoli eucaristici” ha un rapporto con l’eucaristia molto problematico e tutt’altro che lineare.
Su questo, tuttavia, la tradizione teologica, già nel medioevo, ha avuto parole molto chiare.
La presenza eucaristica, infatti, non è una presenza locale, ma sostanziale. Questo significa che non si dà né luogo né modo di percepire questa presenza. Può essere solo creduta e pensata. Poi la teologia ci dice una cosa ancora più importante. Questa presenza vera reale e sostanziale, ma non locale e non percepibile, è pane e vino, dal punto di vista delle specie. È una presenza che è cibo e bevanda. È una presenza creduta, pensata, mangiata e bevuta. La adorazione più alta consiste nel mangiare e nel bere, facendo corpo con Cristo. Così il corpo di Cristo sacramentale diventa corpo di Cristo ecclesiale. Questa è la grande immagine che fino a Carlo il Calvo ha dominato le parole della tradizione, in Ambrogio come in Agostino. Solo nel rispondere al re abbiamo iniziato prima a distinguere e poi a separare non solo consacrazione da comunione, ma “verità” da “virtù”, ossia il Corpo di Cristo sacramentale dal Corpo di Cristo ecclesiale. Molto grave è il fatto che Tommaso d’Aquino abbia affermato che il dono di grazia della unità, ossia il significato più pieno della eucaristia, non è contenuto nel sacramento, ma solo significato. Questa affermazione ha pesato come un macigno non solo sul modo di intendere l’eucaristia come sacramento, ma anche sul modo di pensare e di vivere la Chiesa. Basti pensare al fatto che è questa distinzione drastica ad aver segnato anche la teoria sul ministero nella Chiesa, che si è divisa i “corpi”: sul “corpo di Cristo sacramentale” aveva potere il presbitero-sacerdote, mentre sul “corpo di Cristo ecclesiale” aveva potere il vescovo. Così abbiamo pensato, in modo coerente ma unilaterale, sia l’eucaristia sia il ministero, fino al Concilio Vaticano II.
Eppure al centro della festa del Corpus Domini stava la comunione. Tutto il popolo diventava Corpo di Cristo. In un certo senso è come se, nel cuore del Medioevo, S. Agostino continuasse a dire ciò che aveva affermato in una famosa omelia di Pentecoste:
ESTOTE QUOD VIDETIS, ACCIPITE QUOD ESTIS
SIATE QUEL CHE VEDETE, RICEVETE QUEL CHE SIETE.
In coerenza con questa tradizione dovremmo essere in grado di identificare il vero rito della eucaristia: dopo la preghiera (di cui fa parte la memoria delle parole del Signore nell’ultima cena) il rito è la comunione, che Ambrogio chiamava “consecratio”. Quella che chiamiamo consacrazione è preghiera, mentre la comunione è consacrazione, passaggio dal corpo sacramentale al corpo ecclesiale.
Così ritorniamo all’inizio del nostro percorso: ciò che Carlo il Calvo, con la sua domanda, aveva iniziato a distinguere e poi a dividere (ossia la verità e il mistero) oggi può tornare a riunificarsi. Gli elementi che ci permettono di farlo sono molti e vale la pena di elencarli qui, come occasione per dare nuova evidenza non tanto alla Festa del Corpus Domini, quanto alla sua istanza storica, che resta della massima urgenza:
– il giovedì santo, grazie alle riforme prima di Pio XII e poi di Paolo VI, è tornato ad essere primo giorno del triduo e la Messa in Coena Domini ha ritrovato la forza di essere “pasqua rituale” nella comunione che apre il triduo pasquale. Non c’è più bisogno di una festa di riparazione…
– la comunione, grazie a Pio X, sebbene in una visione più privata che ecclesiale, è tornata ad essere “frequente” e non solo “semel in anno”. Questo permette di fare esperienza della unità della celebrazione eucaristica, senza più separare sacramento da uso;
– la riforma dell’Ordo Missae non prevede più né messe senza comunione del popolo, né distribuzione della comunione autonoma rispetto alla celebrazione (sia nel senso temporale, sia nel senso fattuale, ossia di una distribuzione “dal tabernacolo” in parallelo alla messa), anche se continuiamo a farlo come se nulla fosse;
– la messa è costituita dalla unità di tutte le sequenze rituali (dal raduno al congedo) e supera tutte le opposizioni interne tra parola e sacramento, tra preparazione e sacrificio, tra sacramento e uso.
Questi elementi, considerati nel loro insieme, permettono di accedere alla pienezza della esperienza eucaristica, che non si può comprendere integralmente soltanto con una teora della transustanziazione, che genera, inevitabilmente, una fissazione esclusiva sulla “consacrazione”, pensata con una sospetta autonomia sia verso la liturgia della parola, sia verso tutto il resto della preghiera eucaristica, sia verso i riti di comunione. Forse il sigillo sensoriale più sospetto è duplice e riguarda da un lato l’udito, dall’altro la vista e il tatto: sentire suonare il campanello solo prima e dopo la consacrazione e vedere deposta tra le mani la particola “di forma tonda” sono due segnali di grande fatica ecclesiale: un cattolicesimo veramente fedele alla sua tradizione più profonda inizia a rinunciare al campanello – che non ha alcuna giustificazione se non in un rito pensato come “estraneo” alla assemblea – e a produrre particole vere, spezzando il pane in particole senza forma, come lo sono tutti i frammenti. Dall’unico pane spezzato, tante particole. L’unità della Chiesa non consiste nel custodire le fissazioni unilaterali di epoche passate, ma si produce nel dare pienamente la parola a tutti i linguaggi della esperienza rituale, che la tradizione continua ad attestare. A questo fine anche a festa del Corpus Domini, se rettamente intesa, può dare un contributo non secondario.
Gracias, Prof. Grillo.