Il romanzo su Gesù, Cristo e Vito. L’ultimo libro di V. Mancuso


Plutarco ha scritto le Vite Parallele. Oggi troviamo un libro di Vito Mancuso (Gesù e Cristo, Garzanti, Milano 2025), di 727 pagine, più 60 di apparato (note, bibliografia e indici) in cui l’autore propone, in modo elegante e con parecchia documentazione, una rappresentazione delle vite parallele di Gesù e di Cristo, come se questo fosse il “dato” da cui partire. Qui è evidente che la prospettiva di Vito muove non da una tesi, ma da quella che vuol presentare come una evidenza: che ci sia da una parte Gesù e dall’altra ci sia Cristo.

Questa storia, ricostruita con un approccio a prima vista molto rigoroso e strutturato, non esita ad entrare nella prospettiva che suggerisce come tesi. Lo fa in modo tale che il primo capitolo (intitolato La tesi) ha come attacco: “Gesù nacque a Nazareth, Cristo a Betlemme”. In un primo tempo, sbagliando, avevo pensato che queste frasi fossero il “lancio pubblicitario” del libro, non la tesi del libro. Ma mi sbagliavo. Anche nel cuore del suo svolgimento più intenso, il libro lavora sempre a partire da questa ipotesi: fin dall’inizio, perciò, appare come un racconto di “vite parallele”. Ci sono due soggetti (Gesù e Cristo), uno diverso dall’altro, che un terzo soggetto (Vito) cerca di identificare al meglio nelle loro differenze, per poi tentare di raccordarli in qualche modo, prima della fine del libro. Qui si deve segnalare che l’intento non è distruttivo, ma costruttivo: non ci si contenta della separazione, ma si cerca il raccordo. La questione è, però, se il tentativo si possa considerare riuscito.

Lo schema di lavoro

La struttura del lavoro è molto complessa. Ci sono IX capitoli, che sono divisi in 215 paragrafi. Solo tre capitoli hanno partizioni intermedie, ossia quelli dedicati al “gesuanesimo” alla “morte in croce” e al “cristianesimo”.

Merita di leggere in sequenza i titoli dei 9 capitoli:

I. La tesi

II. Chiarezza sulla mia posizione

III. Il problema Gesù-Cristo

IV. Gesuanesimo

V. La morte in croce

VI. Cristianesimo

VII Risurrezione

VIII. Nascita in terra e generazione in cielo

IX. Neo-cristianesimo

Di questa struttura vorrei esaminare come si presenta la elaborazione del capitolo III. Esso è l’unico concepito nella forma classica di una serie di 20 tesi. Le prime due pagine presentano in sequenza le brevi tesi, mentre le seguenti 80 pagine affrontano ogni singola tesi, cercando di giustificarne il contenuto. Tutte le 20 tesi si basano sul parallelismo tra Gesù e Cristo, non solo distinguendo, ma spesso opponendo il primo al secondo. Se la costruzione del secondo personaggio, Cristo, si fondasse su una interpretazione arbitraria, attribuita alla tradizione, e fin dall’inizio a Pietro e a Paolo, come sarebbe possibile non cadere nella disperazione di una opposizione di Gesù a Cristo e di Cristo a Gesù? Si notano, in diverse tesi, delle uscite dall’equilibrio, che l’autore cerca di tenere per tutte le 800 pagine. Vito, di fronte ai due personaggi in cerca di definizione (Gesù e Cristo), cerca di essere equanime, di dare a ciascuno il suo. Ma non sempre gli riesce, perché non la cosa non è facile. E’ del tutto legittimo ritenere di voler servire la fede, come dice esplicitamente Vito a p.43. Ma Se Vito, per coltivare la fede, crea una spaccatura drastica tra Gesù e Cristo, facendone due personaggi che in 20 tesi sono radicalmente separati uno dall’altro, e spesso contrapposti uno all’altro, allora è inevitabile che quella “fede personale”, che Vito vuole fondare e giustificare contro ogni “fede ecclesiastica”, si trovi di fronte a due pareti di montagna, che cadono a picco in verticale, che restano da scalare, ma senza appigli, senza chiodi e senza corde. Unica risorsa: la fede personale di Vito, diversa da ogni “fede ecclesiastica”. Una sorta di “riduzione” della fede alla “semplice ragione”.

L’equilibrio e le accelerazioni

Vito prova a controllare con distacco e con serenità il suo stile. Ci riesce molto spesso, con vera dedizione. Ma in alcuni passaggi emerge una sorta di giudizio reciso, una forma di accelerazione poco meditata, che trapela con forza e quasi prende la mano all’autore. Le 20 tesi che si leggono alle pp. 67-69 sono un concentrato di questi pregiudizi con tratti molto duri. Se di Gesù si offre una ricostruzione “storica”, di Cristo si dà una ricostruzione “dottrinale” piuttosto caricaturale: proprio alla fine della 20^ tesi una parentesi è rivelatrice: dopo aver ricordato la proposizione paolina sull’annuncio della morte “nell’attesa della tua venuta” viene aggiunta una parentesi piuttosto velenosa: «(anche se di fatto, ormai, pressoché nessuno attende più tale sua venuta)» (69). Questo sarebbe un “dato storico”? Ma chi lo dice? Chi può dire che nessuno resti “in attesa”, anche oggi e che il tema dell’avvento sia semplicemente un relitto del passato? Non è forse proprio la attesa una delle caratteristiche che uniscono, anche oggi, ogni forma di fede cristiana, al di là delle differenze tra ovest ed est, tra nord e sud? Non è “Signore, vieni” la parola che accomuna ogni fede cristiana?

Le lacune filosofiche e una teologia vecchia

Una fede personale, che decide non solo dei contenuti, ma che può arrivare a sindacare che cosa pensano coloro che professano la “fede dottrinale”, mi pare il segnale di una grave incomprensione del fenomeno fede, che minaccia l’intera impresa di Vito. Lo direi con le parole con cui M. Blondel, già 130 anni fa, giudicava lo “storicismo” e l’”estrinsecismo” della esegesi e della teologia del suo tempo. Si tratta spesso di “lacune filosofiche” (ossia di modi sbagliati di considerare non solo il dogma, ma anzitutto la storia) che non si possono più ripetere come se fossero evidenze: la ricostruzione che Vito propone, mettendo in parallelo Gesù e Cristo, si fonda, al suo centro, su una contrapposizione tra mondo e “fuori da mondo”, tra reale e ideale, che egli prende da L. Wittgenstein e dal suo Tractatus. Questa tesi, forzata da Mancuso, può fargli confondere la storia reale con gli schemi storici con cui descriviamo i fenomeni. Così, utilizzando da un lato una storia appiattita sui fatti e dall’altro un dogma che prescinde dalla storia, non si può che arrivare alle “vite parallele” di Gesù e di Cristo. Di fronte alle quali Vito, come un “terzo”, che sta fuori di loro, e li giudica quasi in contumacia, deve scegliere tra le opzioni e pur facendolo secondo scienza e coscienza, resta piantato sulla sua doppia rappresentazione del “fatto-Gesù” e dell’”idea-Cristo”. Questa opposizione di principio è ciò che la tradizione contesta e che la buona teologia degli ultimi 200 anni cerca di affrontare con una forza nuova e sorprendente. Noi non incontriamo mai un Gesù senza le forme del Cristo e non incontriamo un Cristo senza l’esperienza di Gesù: così almeno si dice a partire da Schleiermacher, Labertonnière, Harnack, Rahner, Von Balthasar, Pannenberg, Juengel (per fare solo alcuni nomi) cercando di pensare in dialogo con il pensiero contemporaneo: esiste un liberalismo credente e una dottrina cattolica sana, come esiste anche una teologia post-liberale e una teologia post-tridentina. Di tutto ciò ne verbum quidem. Unico interlocutore sembra sempre il catechismo. Come è possibile che Vito resti indietro di 200 anni nel modo di impostare la questione e la elabori, da teologo, in modo così semplificato e così forzato?

Un altro Wittgenstein e la tradizione cristiana

Forse, pur volendo seguire a tutti i costi Wittgenstein, restando fuori dalla tradizione teologica, se Vito non avesse fissato lo sguardo soltanto su una proposizione del Tractatus, ma avesse proceduto oltre nell’opera dello stesso Wittgenstein, avrebbe visto che la revisione del concetto di “rappresentazione”, tipica della prima fase del suo pensiero, fa scoprire al secondo Wittgenstein i “giochi inguistici” e le “forme di vita”, riconoscendo che il significato dipende dall’uso: non fuori dal mondo, ma mediato dal mondo (nella prassi e nella teoria). Questa scoperta, se integrata nel grande lavoro di Vito, avrebbe permesso all’autore di uscire da quel parallelismo tra “fatti” e “dogmi”, tra Storia e Ideale (un parallelo molto positivistico e troppo astratto) su cui è costruito non solo il libro, ma l’intento della intera operazione. Il risultato è che Gesù e Cristo restano inevitabilmente (direi metodologicamente) due opposti, che possono essere riconciliati non dai fatti o dagli ideali, ma dalla “fede personale” di Vito. Qui, a mio avviso, sta la lacuna filosofica, prima che teologica, che impedisce di trovare, alla fine del lungo percorso testuale, qualcosa di diverso da ciò che è scritto nella prima riga del libro. Se una professione di fede (Gesù è Cristo) viene ridotta alla associazione di due fenomeni uno estraneo all’altro (Gesù e Cristo) l’ermeneutica della tradizione risulta talmente lacerata da questa opzione iniziale, che alla fine resta solo un auspicio, un desiderio, un sentimento, un barlume di orientamento soggettivo dell’autore. Aver fede nel Signore Gesù non è una forma di inautenticità della tradizione, di confusione di livelli, di infrazione tra mondo e “fuori dal mondo”, di forzatura arbitraria delle cose, ma un modo originario di essere uomini e donne. E’ la sporgenza di una autorità sulla libertà, che rende la libertà autentica: Kant resta un caposaldo, ma la incondizionatezza si dà alle condizioni della tradizione. Un incontro “puro” con Gesù e con Cristo è un “sogno da visionari”, assumendo la prospettiva (astratta) che tra fatti e dogmi possa esserci una relazione vera soltanto attraverso la opzione assoluta e incondizionata di una coscienza originariamente autonoma, puramente interiore, puramente individuale. Ho di fronte Gesù e Cristo e mi devo decidere per uno o per l’altro. Questa è la trama di un romanzo. E’ il romanzo di Vito che ha tre personaggi: Gesù, Cristo e Vito. Ma, alla fine, parla solo di Vito e della sua concezione della salvezza. Non per cattiva volontà, ma per difetto di metodo.

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