Il figlio del Concilio e la lotta contro il clericalismo


L’ultimo numero della Rivista IHU on line (http://www.ihuonline.unisinos.br/index.php?secao=465) ospita questa intervista, di cui offro qui l’originale in italiano.

ihu2015

 

Il figlio del Concilio e la lotta contro il clericalismo

 

– Come si può capire il “fenomeno Francesco”?

Il semplice fatto di chiamare Francesco “fenomeno” indica un dato di grande rilevanza. Da un lato si usa questa espressione come di fronte al “manifestarsi di qualcosa di più grande e di inatteso”. E’ come dire, in italiano,: “Francesco è un fenomeno”, ossia la manifestazione di qualcosa di veramente grande, di toccante, di straordinario. Io direi, è l’improvviso manifestarsi, proprio al vertice della Chiesa cattolica, del Concilio Vaticano II, pienamente attuato, di colpo! Questo è davvero un fenomeno molto particolare. Ma bisogna dire che, contemporaneamente, si parla di “fenomeno Francesco” quasi per prendere le distanze da qualcosa che “si capisce poco”. Se sono Vescovi o Cardinali a parlare così – e ce ne sono – è perché abbiamo vescovi e cardinali analfabeti di Vaticano II, privi delle categorie elementari per “capire” non solo Francesco, ma la Chiesa degli ultimi 50 anni. Per loro il pontefice, uscendo dall’alveo consueto e per loro normativo, parla una lingua quasi sconosciuta. Francesco, con il suo apparire, il 13 marzo, ha messo in evidenza questi due aspetti: c’è una grande parte della Chiesa cattolica che lo ha scoperto subito come un “fenomeno” di cui aveva “presentimento”. Ma c’è un settore della Chiesa, molto meno esteso ma non privo di potere, che lo ha considerato, fin dall’inizio, con “risentimento”. Presentimento popolare e risentimento gerarchico sono “dati” di questo biennio di pontificato, dati che non possono essere messi sullo stesso piano, ma che vanno considerati con attenzione.

– Qual è la proposta di Francesco quando propone il sinodo sulla famiglia? Quali risposte la Chiesa cerca di dare alle nuove configurazioni familiari contemporanee?

Mi pare che una caratteristica fondamentale del pontificato di Francesco sia concentrata in due parole, che trovano nel Sinodo sulla famiglia una loro immediata e imbarazzante verità: sono due modi di chiamare la Chiesa, che la definiscono “non autoreferenziale” e “ospedale da campo”. In queste denominazioni la Chiesa si trova particolarmente “messa alla prova” quando si tratta di impostare un rapporto con la famiglia contemporanea. Proprio su questo argomento, così delicato e decisivo, i limiti di una impostazione autoreferenziale e “settaria” della Chiesa emergono continuamente. Abbiamo elaborato, soprattutto negli ultimi 150 anni, una “dottrina sul matrimonio” che ci rende incapaci non solo di rispondere alle questioni, ma di formulare le domande corrette. La prova di ciò è la contraddittorietà delle proposte sui temi “caldi”, come ad es. la “comunione dei divorziati risposati”. Francesco sa bene che una Chiesa non autoreferenziale deve anzitutto modificare questi punti scandalosi della propria disciplina ufficiale. La “scuola conciliare” dimostra ampiamente che vi è una strada per poter confermare la grande tradizione cattolica, assumendo la responsabilità di una “traduzione” e di un “aggiornamento” della dottrina e della disciplina. Ma, proprio sul matrimonio, sembra che si debbano fare le barricate su dettagli disciplinari secondari…

– Qual è il significato e le caratteristiche della “collegialità” nel pontificato di Francesco?

La collegialità è la forma ordinaria di una Chiesa “non autoreferenziale”, poiché presuppone che anche solo per constatare la realtà occorra una approccio “dialogico”. Collegiale, come logica del “primato” nella Chiesa cattolica – che ha, al suo vertice, non solo il papa, ma anche il Collegio episcopale – è la indicazione di un “metodo per affrontare le questioni”. Direi che è quasi “scontato” che Francesco, venendo da una tradizione apertamente ispirata al Vaticano II, faccia di quella grande esperienza ecclesiale lo “stile” non solo del suo papato, ma del modo con cui la Chiesa affronta le questioni del mondo contemporaneo, alla luce del Vangelo e della esperienza degli uomini, secondo GS 46.

– Come il Papa Francesco affronta la questione delle nuove configurazioni familiari?In vista della riconfigurazione della famiglia, come Francesco vede l’unione/rapporto di persone dello stesso sesso? E come le questioni di genere appaiono nel suo pontificato?

Mi pare che a questa domanda non si debba rispondere secondo una logica di “valori”. Qui io ravviso la vera novità di Francesco rispetto ai papi che lo hanno immediatamente preceduto. Anzitutto per il fatto di non accettare una impostazione apologetica del papato. Per questo Francesco ha scritto che “la realtà è superiore alla idea”: questo significa che la famiglia, l’amore, l’intimità, la generazione non sono “idee chiare e distinte” che gli uomini e le donne debbono semplicemente “applicare”, ma sono grandi realtà, complesse, in evoluzione, dalle quali traspare e attraverso cui si realizza l’amore di Dio. Non si tratta, anzitutto, di demonizzare un nemico, anche quando vi sono prassi problematiche. Si tratta di annunciare anzitutto la misericordia e la benedizione di Dio. In questo, Francesco, è proprio il primo papa “figlio del Vaticano II”. Questo non è un suo merito, ma è la forza della tradizione cattolica, che ha saputo generare un papa con queste caratteristiche, dovute alla sua formazione, alla sua pastorale, al suo linguaggio, alle sue letture, scaturite dai testi e dai gesti conciliari.

– Qual è il significato del sinodo nel pontificato di Francesco? In quale senso è diverso da altri pontificati?

Come ho già accennato, il Sinodo è la prima grande realizzazione di uno stile ecclesiale e di un metodo di lavoro. Il quale appare segnato, almeno nelle intenzioni che lo hanno progettato, da una caratteristica: la assenza di clericalismo. Spesso su questo punto si è creato un certo un certo equivoco: vi è qualcuno, anche nella curia romana, che confonde il clericalismo con il cattolicesimo. E che quindi, sulla base di questo abbaglio, può arrivare a dire che ci sono elementi “anticattolici” nel magistero di Francesco. In realtà ci sono molti elementi dichiaratamente anticlericali, che giungono in modo salutare a rinnovare la tradizione papale ed episcopale. Soprattutto nella curia romana, ma talora anche nelle periferie ecclesiali, vi è una certa confusione. Si è tentati di pensare che per difendere la Chiesa cattolica bisogna difendere a tutti i costi la sua impostazione clericale. E questo atteggiamento distorto, si noti bene, non riguarda solo i “chierici”, ma contagia purtroppo anche i “laici”.

– Qual è la sua valutazione della prima fase del sinodo nello scorso anno? Com’è stata l’accoglienza tra i vescovi e come immagina che sarà la conclusione di questa seconda fase?

La valutazione della prima fase del Sinodo è positiva, piena di aperture, anche se manifesta le difficoltà di “capire il linguaggio e lo stile” che papa Francesco ha voluto riprendere, 50 anni dopo, direttamente dalla esperienza conciliare. Diciamo la verità: per non pochi è stata una “doccia fredda”. Anche il semplice fatto che il Papa, fin dall’inizio, abbia chiesto a tutti “parresia”, questo ha profondamente turbato tutti i campioni di clericalismo formale, per il quale, tuttto è possibile, meno che essere sinceri! L’aspetto cortigiano del Sinodo dei Vescovi, che gli ultimi decenni hanno visto crescere esponenzialmente, ha subito un profondo scacco e ha cercato di reagire, di vendicarsi, di fare barricate, di scrivere libri preventivi, di agitare le masse e la “rete”. In queste reazioni, purtroppo, si sono distinti anche “teologi”, abituati a fare i capoclac e ora improvvisamente trasformati i “defensores fidei”… Sono casi nei quali a mio avviso non è in gioco tanto la competenza teologica, quanto la maturità umana. E mi chiedo: come si fa ad annunciare davvero la “misericordia” se si diventa complici di una Chiesa che alimenta, in materia familiare, finzioni e ipocrisie? Aggiungo, inoltre, una notizia che mi ha letteralmente scandalizzato. Ho saputo che uno dei massimi responsabili del Sinodo Straordinario, quando è tornato nella sua Diocesi, ha ritenuto che il questionario in vista del Sinodo del prossimo ottobre dovesse essere compilato…solo da lui. E’ un segno del clericalismo secolare, duro a morire…

– Qual è il significato del Giubileo della Misericordia nel pontificato di Francesco? E quali sono le basi del concetto di misericordia Francesco? Perché quest’appare come uno dei concetti centrali del suo pontificato

Il tema della misericordia, che ora ha assunto anche la rilevanza di un “tema giubilare” costituisce una sorta di “filo rosso” del pontificato. Esso costituisce, in larga misura, una ereditò del Concilio Vaticano II, come attesta bene la duplice citazione che troviamo all’inizio della Bolla “Misericordiae Vultus”, dove vengono citati i due discorsi “estremi” del Concilio, ossia il discorso di apertura, di Giovanni XXIII, e il discorso di chiusura, di Paolo VI, dove entrambi i pontefici fanno della misericordia la “cifra” della novità conciliare, contrapponendo l’ “usare la medicina della misericordia” all’ “imbracciare le armi del rigore”.

Di certo, la misericordia di cui parla Francesco non può essere compresa nella linea della devozione polacca alla “divina misericordia”, che perde questo orizzonte comunitario e conciliare e scivola verso una deriva devozionale e privata.

– È possibile trovare un filo conduttore nelle omelie di Francesco? Come le linee di base del suo pontificato appaiono nelle omelie?

Il filo conduttore da trovare nelle omelie di Francesco non è tanto a livello di contenuto – che pure spesso è assolutamente rilevante – ma è anzitutto a livello di “forma” e di “stile”. Il fatto stesso che un papa ogni giorno, la mattina alle sette, nella messa che concelebra, tenga regolarmente una omelia, questo rappresenta obiettivamente un fatto che spiazza il resto della Chiesa. Ma anche qui, la chiave di lettura è il Concilio Vaticano II, di cui Francesco è figlio legittimo e insieme naturale! Rispetto ai predecessori, Francesco ha un vantaggio senza pari: essendo figlio del Concilio, non ne sente la responsabilità. Proprio quella responsabilità ha tanto pesato sui predecessori – si pensi al travaglio di Paolo VI, alle esitazioni di Giovanni Paolo II e alle retromarce di Benedetto XVI – i quali erano tutti direttamente “padri” del Concilio. Loro vedevano il Concilio come loro “figlio”, un figlio di cui si preoccupavano, mentre in questo caso è il papa a considerare il Concilio come padre. E così, quotidianamente, egli celebra comunitariamente, concelebra e tiene l’omelia. Quanta distanza da papi abituati a celebrare privatamente, senza concelebrazione e senza omelia! Quanto incide sulla sua pastorale questa “buona abitudine”, appresa dal Concilio come dal latte materno!

– Che cosa significa “se una tradizione è forte, sa tradursi in nuove forme”, come Lei ha indicato in un recente articolo? Come la tradizione si traduce in nuove forme nel pontificato di Francesco

La tradizione, se vuole restare viva, deve tradursi. Anzi, potremmo dire che l’elemento più tipico di una tradizione è proprio quello di “tramandare” non se stessa, ma il mistero di Dio. In questa sua funzione essa ha bisogno di non diventare mai un “monolite”, da piazzare in un museo, come una statua di marmo. La forza di una tradizione sta nella sua capacità di tradursi in forme sempre nuove, sempre più adeguate. La tradizione non è una dottrina da imparare o una norma cui obbedire, ma una storia di cui far parte, secondo la libertà con cui lo Spirito la muove e la ispira. Nel pontificato di Francesco la traduzione è anzitutto questione di “linguaggio” e di “stile”. La parola di Francesco è solo apparentemente “semplice”. Diciamo piuttosto che è diretta, è immediata, ma è anche curata, cesellata, finemente pensata. E’ superficiale – o risentito – chi non vede quanto accurata è la “presa di parola” che Francesco ripete continuamente, con tatto, con tono, con timbro squisito. Linguaggio e stile sono di un papa americano. E due tra i massimi esperti del Concilio Vaticano II – Routhier e O’Malley, entrambi americani – riconoscono che la novità fondamentale di quel Concilio sta in un nuovo linguaggio e in un nuovo stile!

– Quale dovrebbe essere il ruolo della Congregazione Dottrina della Fede nel pontificato di Francesco? Quali sono le possibilità della Congregazione di svolgere un ruolo quasi centrale nel pontificato di Francesco, dalla critica di che Francesco ha “poca struttura teologica”?

Se c’è una cosa chiara, che nessuno può mettere in discussione, è che il ruolo della Congregazione per la Dottrina della fede – ex S. Ufficio – non è mai stato e sicuramente non potrà mai essere quello di “dare struttura teologica” ai pontificati. Se qualcuno pensasse – a qualsiasi livello gerarchico – di poter “ristrutturare” il magistero di Francesco, o di Giovanni XXIII o di Giovanni Paolo I, sarebbe totalmente fuori dalla tradizione e ne proporrebbe una traduzione completamente scorretta e assai pericolosa. La Congregazione non ha il papa al suo servizio, ma è essa a porsi al servizio del Papa. Si tratta di un servizio qualificato, con margini anche di riserva critica, ma non si tratta in nessun caso di sostituzione o di normalizzazione. Piuttosto, a me pare che la questione debba essere capovolta: come potrà Francesco dare “struttura teologica conciliare” al servizio offerto dalla Congregazione? Come si potrà, in altri termini, evitare che nella Chiesa cattolica il consenso sul “sapere comune e vincolante” sia garantito da procedure e da organi di concezione premoderna? La Congregazione, infatti, risponde ancora a logiche che il teologo Huenermann, alcuni anni fa, commentando la Notifica a Jon Sobrino, definì a buon diritto come esercizio del controllo della dottrina secondo le logiche dell’Ufficio inquisitorio del XVI secolo. Tutti gli stati moderni hanno superato questa impostazione pre-moderna, che resiste invece nella Chiesa. Come pensare il “consenso sulla dottrina” in forma non premoderna? Questo è il vero tema della discussione, su cui papa Francesco ha già iniziato a lavorare, suggerendo, ad es., che alcuni temi dottrinali siano delegati alla Conferenze Episcopali. Proprio su questo punto, non a caso, i difensori di una impostazione premoderna si sono sollevati, arrivando a definire “anticattolica” una tale ipotesi. Su questo occorre aprire un ampio dibattito, occorre “uscire” da stili e linguaggi vecchi e inadeguati e entrare in logiche nuove e vive.

– Che lettura Francesco fa del Concilio Vaticano II?

Como ho già anticipato, con Francesco, che è il “primo papa figlio del Concilio”, il Vaticano II passa dalla funzione di “lessico” alla funzione di “canone”. Possiamo dire che, per molti aspetti, fino ad ora il Vaticano II era entrato nella vita della Chiesa soprattutto come un “lessico nuovo”, un modo di parlare e di definire, che lasciava spesso inalterato il canone tridentino. Con Francesco noi vediamo l’effetto di questo “passaggio da lessico a canone”. Questo significa che nelle “strutture portanti della vita ecclesiale” inizia ad affermarsi una “logica nuova”: la collegialità sinodale, il primato della misericordia, la critica del clericalismo e la priorità di una chiesa povera sono solo alcuni dei segnali di questo passaggio, che ora inizia davvero. Sono passati 50 anni dal Concilio. Solo dopo due generazioni potevamo avere, come papa, un uomo che si è formato, ha pensato, ha pregato, ha celebrato, ha dialogato soltanto nella logica del Vaticano II. La irreversibilità del Vaticano II è, per Francesco, questione di biografia.

– Come funzionano l’aggiornamento e la traduzione della tradizione della Chiesa attraverso la “teologia di Francesco”?

Possiamo dire così: ciò che distingue Francesco dai predecessori è una questione sottile, ma decisiva: per Francesco, la traduzione della tradizione non è più una possibilità, ma una necessità. Fino a Benedetto XVI, i papi hanno potuto pensare che la “tradizione” bastasse a se stessa e che ogni intervento su di essa potesse comprometterla. Con Francesco si è manifestata, di colpo, una coscienza lucidissima del fatto che la tradizione vive solo di traduzioni. E’ ovvio che traducendo si può tradire. Ma alla traduzione non c’è alternativa. Qui sta la novità. Fino a Francesco si era potuto pensare di poter semplicemente “conservare”. Con Francesco è divenuto chiaro – 50 anno dopo la intuizione felice di Giovanni XXIII – che la Chiesa non è un museo da custodire, ma un giardino da coltivare.

– Riguardo alla liturgia, che cosa è cambiato a proposito del pontificato di Benedetto XVI e nel pontificato di Francesco? Monsignor Marini, che fu il maestro di cerimonie di Benedetto XVI rimane il maestro di cerimonie di Francesco. Che cosa significa questo?

Non vorrei che noi fossimo ridotti a giudicare Francesco soltanto per le “nomine” che opera o non opera. Francesco, in molto meno di due anni, ha saputo eliminare dalla liturgia papale – e in gran parte anche dal discorso sulla liturgia – tutta quella “patina retrò” che aveva caratterizzato il pontificato precedente. E anche chi aveva cavalcato quella moda, più o meno opportunisticamente, ora si limita a fare il suo servizio, secondo le logiche naturalmente conciliari di Francesco. Questo a me pare un segno di buon senso. Non dobbiamo aspettarci oggi che il papa faccia qualcosa di eclatante in liturgia. Era ieri che avremmo dovuto restare allibiti e sconcertati dalle forme eclatanti e anticonciliari che godevano di credito e di protezione dall’alto. Forse non tutta la Curia romana ha capito che cosa è in gioco nella liturgia. Non sono mancati interventi, anche durante questo ultimo biennio, di autorità liturgiche, che meritano di essere subito dimenticati. Forse su questo Francesco dovrà provvedere, non sul maestro delle cerimonie, nella misura in cui è tornato a fare solo quello che deve, lasciando perdere saggiamente le teorie sulla “riforma della riforma”, che non sono – e non avrebbero mai dovute essere – di sua competenza.

– In quali aspetti pensi che la Sacrosanctum Concilium debba essere rinnovata?

Concordo con l’uso del verbo “rinnovata”: certamente anche SC, dopo 50 anni, ha bisogno di essere “rinnovata”, purché non si parli, invece, di “riformare”. Riformare la riforma è stato uno slogan con cui si è cercato di “dimenticare e rimuovere il Vaticano II”. Credo che il “rinnovamento” non debba riguardare il testo di SC, ma il modo di recepirlo e di farlo entrare nella vita delle comunità. SC propone alla Chiesa un nuovo paradigma di partecipazione ai “riti e preghiere” e in vista di questa partecipazione progetta una grande Riforma dei riti. Ma la Riforma non è il fine, è solo il mezzo. Rinnovare SC significa, oggi, riportare in primo piano non la Riforma, ma il fine della Riforma: ossia la iniziazione alla vita cristiana mediante riti e preghiere.

– Il pontificato di Francesco ha un programma? Dove immagina che stia portando la Chiesa?

Verso quell’obiettivo che Giovanni XXIII e Paolo VI avevano espresso – nel loro linguaggio – in termini simili al discorso che oggi Francesco propone alla Chiesa, 50 anni dopo. Da un lato valorizzando la “pastorale”, come traduzione del linguaggio e dello stile della Chiesa. Ma dall’altro anche come “migliore intelligenza della tradizione”, scoprendo il “filo rosso” della misericordia come chiave di lettura della esperienza ecclesiale.

– Vuole aggiungere qualcosa?

Tutto ciò di cui ho parlato, fin qui, è avvenuto all’interno dell’anniversario conciliare. Questo primo biennio di papato sta tra il 2013 e il 2015, ossia negli anni anniversari dei 50 anni del Concilio. E proprio alla conclusione del Concilio il papa ha previsto un “rilancio”, con il Giubileo della misericordia. Questo ha un valore simbolico alto e irreversibile: con il papato di Francesco, il Concilio entra nella fase della “normalità ecclesiale”: d’ora in poi sarà normale pensare alla vita cristiana dei cattolici con un Concilio che passa da “lessico” a “canone”. Con Francesco questo inizia solennemente, oltre tutte le esitazioni e le contorsioni che i suoi predecessori hanno sentito e provocato. Vorrei ripeterlo: la irreversibilità del Concilio è questione anche “biografica”. Francesco non deve annoverare tra i suoi meriti il fatto di essere nato proprio nel 1938, di essersi formato in Argentina proprio negli anni conciliari e di aver assorbito, fin da giovane, lo stile, il linguaggio e la visione ecclesiale radicata nel Vaticano II. Francesco, da questo punti di vista, è la più chiara espressione della svolta che il Vaticano II ha impresso alla tradizione cattolica: il seme fu lanciato 50 anni fa, la maturazione è avvenuta durante questo cinquantennio di “elaborazione ecclesiale” e il frutto maturo è apparso, improvvisamente, ma non senza buoni motivi, il 13 marzo 2013.

 

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