Fratelli e nemici: la contingenza del mistero e le Chiese
Una fraternità invisibile ci dà speranza. Quella di un figlio che muore, per mano di uomini, e che in questo rende tutti gli uomini fratelli e sorelle. La solitudine con cui inizia l’avvicinamento alla Pasqua, il deserto di relazioni e di cose, dove più alta si fa la parola che tenta – che tenta con la fame, col miracolo e col potere -, è la riconsiderazione di che cosa significa essere fratelli. La fratellanza visibile, con le sue dolcezze, è conflitto, lotta, difesa di un atteso riconoscimento, diffidenza per il riconoscimento altrui. Queste storie di difficile fratellanza attraversano le parabole e le vicende della Scrittura, la Storia delle nazioni e delle genti, la coscienza delle città e le fatiche delle famiglie, le relazioni pubbliche e le case private. La fratellanza visibile non si salva da sé. Può salvarsi se si apre ad una verità più profonda e più ardua, in una comunione che è tanto forte da affidarsi alle mani e alle menti di ogni singolo umano. Portiamo la immagine e la somiglianza di Dio nelle nostre mani e nelle nostre parole: così diventiamo fratelli e sorelle, affidando a Dio e al prossimo la pace delle nostre vite.
Ricordo oggi con particolare emozione una lezione di J-L. Nancy per un Convegno della FTIS di Milano (che qui metto in collegamento e che consiglio di ascoltare, quasi come conferenza di inizio quaresima), dove il compianto filosofo, in una delle sue ultime lezioni dal titolo “Dopo tutto, chi sono i fratelli?”, ha gettato luce trasversale e singolarmente limpida sul concetto di fraternità e sul suo valore “centrale” per la comprensione dell’umanità dell’uomo. Il termine fraternità è risultato molto importante all’inizio dell’età tardo-moderna, ma ha subito anche una serie di “fraintendimenti” dovuti alle associazioni che ha suggerito. Parlare di “fraternità” sembra sottolineare una dipendenza da un “familismo”, da un “maschilismo” e da un “sentimentalismo” che la tradizione tardo-moderna ha provveduto a mettere sono giudizio e ha coperto di un fitto sospetto. Nancy ha buon gioco nel mostrare che questo genere di diffidenza riposa su una incomprensione dei termini “analoghi” a cui ci si riferisce. Per questo egli sostiene che la nozione di “fraternità” – per essere davvero compresa – dovrebbe mettere in moto un profondo ripensamento del ruolo di termini come “famiglia”, come “relazione di genere” e come “affettività/sentimento”. Un capovolgimento profetico viene proposto da Nancy: una lettura radicale della “famiglia”, fuori da una ipotesi fondativa e patriarcale, non come “affermazione di un arché”, ma come “comunità di vita”, permette di scoprire che la fraternità/sororità è lo spazio aperto dal duplice principio di sangue/seme maschile (e femminile) e allattamento/nutrizione femminile (e maschile). Perché si dia fraternità non è sufficiente una “generazione immediata e paterna comune”, ma occorre anche “gestazione, parto, allattamento ed educazione materna”, non immediata e discontinua, contingente e ripetuta. Questa “duplice condizione” della fraternità – una immediatezza continua quasi-assente e una mediazione discontinua iper-presente – si realizzano della “dispersione-emancipazione-maturazione”. La questione da porre è la pretesa di “purificare” la fraternità dal legame.
La fraternità resta anche sempre come un “al di fuori” della legge, mantiene perciò una esteriorità rispetto al diritto di libertà e di eguaglianza. Qui possiamo dire che la triade rivoluzionaria indica due diritti (alla libertà e alla eguaglianza), di cui il primo potrebbe essere inteso “absolute”, il secondo può essere solo “relative”. Si può credere di avere il diritto di essere assolutamente liberi, infatti, ma è difficile concepire un diritto alla eguaglianza senza un termine di paragone. Se si è uguali, occorre chiedersi: rispetto a che cosa? Con la fratellanza, tuttavia, è proprio difficile poterla concepire come un diritto, se non mediante una riduzione quasi completa della esperienza. E’ piuttosto, anzitutto, un “dovere”. O, ancor più, è insieme un fatto e un dono: la fraternità ha la contingenza dei fatti donati e dei doni presupposti. Quel che è certo è che la fratellanza fatica ad essere ricondotta semplicemente a se stessa. Ha una esteriorità invadente e imbarazzante – esteriorità del fratello/sorella, ma ancor prima esteriorità paterna e materna – che la insidia proprio mentre la pone. Per il soggetto tardo-moderno già è problematico riconoscere di essere “genito”, ossia generato, relazionato strutturalmente ad una origine; per certi versi ancora più problematico è accettare di essere “con-genito”, ossia di avere in comune con altri/altre non solo la generazione, ma la nutrizione, la educazione, la formazione. È vero che siamo “posti” e “supposti” – sia pure in modo astratto – come liberi e come uguali. Ma come fratelli siamo “congeniti”, “condivisi”, “accuditi”, “accompagnati”, “educati”.
Qui sta – secondo Nancy – la radice del “sospetto” tardo moderno sulla eteronomia della fraternità, ma anche la forza di un concetto che apre ad una comunione non fondata da uno “status”, ma da un “actus”. Chi sono, dunque, i fratelli? Coloro che riconoscono, non astrattamente in uno status genetico, ma in un atto di genealogia paterna e materna, la comunione di vita – di nutrimento, di bisogno e di desiderio – come ciò che sta al di qua e al di là della legge. La fraternità esige la legge, per svolgersi, ma non è da essa fondata. In questo paradosso sta la differenza della fraternità rispetto alla coppia libertà-uguaglianza: libertà ed eguaglianza possono essere ridotti ad “inizi”, mentre la fraternità è sempre contingenza iniziata.
Le diverse “contingenze fraterne” mostrano la forza della fraternità visibile, ma anche il suo limite non necessario e violento. La fraternità universale è la più contingente e la più fragile, ma la più decisiva. Si nutre di fede, di speranza e di carità. E’ ricevuta come un dono. Se proviamo a tradurla semplicemente in diritti e doveri, possiamo perderla o confonderla con le forme visibili, ma violente, dell’essere fratelli “maggiori” o “minori”. Essere fratelli e sorelle tutti uguali e tutti diversi è nello stesso tempo la più alta utopia e il mistero più delicato. Povero e inerme come ogni vero mistero.
Il farsi visibile del mistero della fraternità universale in Cristo e nella Chiesa che segue il suo Signore rende le chiese responsabili di questa universalità “non etnica”, “non familiare”, “non nazionale”. Difficile compito “cattolico” di ogni chiesa. Alimentare le forme storiche dell’essere fratelli e sorelle, senza cadere nella violenza dei “fratelli russi”, dei “fratelli ucraini” e dei “fratelli d’Italia”. Il mistero della fraternità chiede deserto e chiede festa. La Chiesa introduce in questa “vita fraterna” uomini e donne lavati, profumati e nutriti, nella contingenza di gesti elementari e primari. I gesti familiari, trasfigurati nella morte e risurrezione, portano nello Spirito alla pace e alla comunione. La differenza tra fraternità visibile e fraternità invisibile attraversa i gesti della prima fraternità per accedere, per dono e per compito, alla seconda. Se le Chiese non tengono ben ferma questa relazione delicata tra forme visibili e grazia invisibile, o scivolano nella etnia violenta, o decadono nel formalismo indifferente.






























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