Elogio dell’inesemplare. Piccola riflessione su violenza e persona (di Marcello La Matina)
Elogio dell’inesemplare. Piccola riflessione su violenza e persona
di Marcello La Matina1
0. Preludio
La guerra, che molti buoni propositi e alcune azioni concrete avevano tentato di scongiurare, è tornata alle porte dell’Europa. Si è anzi allocata sulla soglia stessa che congiunge l’Europa all’Asia, in quel crogiuolo di storie che più correttamente dovremmo chiamare Eurasia. La cerniera che univa due imperi e due mondi – un tempo paralleli e altro tempo contigui – si è ora rotta, il cursore si è sfilato. Ed emerge senza veli la violenza, reale e simbolica, come una domanda mai doma. Violenza che non è solo l’accidente di una regione, la crisi di un’epoca, ma un accadimento planetario sul quale indugiano ragioni politiche, religiose, mercantili e anche metafisiche. Questa violenza provoca a riflettere. Qual è, per esempio, il punto di insorgenza (Entstehungspunkt), per usare un’espressione cara a Nietzsche, di questa violenza? È quel che vogliamo chiederci in queste pagine, sollecitati anche da una curiosità che nasce dall’investigazione filosofica del legame tra linguaggio e violenza, tra furia tassonomica dei predicati e incertezza dei sostrati. Perché sempre vi è violenza nel linguaggio e nella ragione; e sempre la Ragione, nel venire a capo di sé, deve metter qualcosa da canto, come un resto che non entri nel computo; qualcosa che si urta alla sua esemplarità e che, non foss’altro che per questo, merita una attenzione speciale.
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Una spirale inarrestabile?
Il terzo millennio è iniziato con l’abbattimento delle Torri gemelle; con un evento, perciò, in sé architettonico, tanto precisa ne fu la scansione e ben studiato il progetto. Architettare il crollo non richiede meno scienza che il costruire. Il colpo, quel volo di aerei che parve un volo rapace di falconi, fu architettato come una fortezza volante, perché già nel suo disegno architettonico apparisse visibile un sapiente impetuoso messaggio di violenza:2 un ossimoro, a dirla tutta. Da allora, il reale e il simbolico sono sempre più finemente caratterizzati nella violenza contemporanea, anche in quella di cui normalmente non verremmo a conoscenza. In tal senso, l’escalation di violenza cui assistiamo anche in questi anni recenti potrebbe non significare una maggiore quantità o una maggiore portata degli atti violenti, ma una maggiore pervasività della violenza, una capacità di replicazione e di manifestazione che possiamo presumere siano propri di una ‘società delle immagini’, nel senso che Guy Debord dava a questa espressione. Secondo quest’ultimo, già l’origine dello spettacolo è connessa alla «perdita di unità del mondo»; talché, se è vero che lo spettacolo della violenza riesca ad unire il mondo, è ancor più vero che «lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato».3 Inoltre, questa violenza illustrata è un fenomeno che appare oggi sempre più alienante; e ciò è anche dovuto al fatto che le relazioni sociali globali sono mediate da una quantità e da una qualità (nel senso di definizione o trama ‘pixelare’) prima mai vista di immagini: più lo spettatore della violenza contempla, dice Debord, e meno vivrà e comprenderà la propria esistenza e il proprio desiderio.
1.1
Una così lucida spirale di violenza va certo connessa alla velocizzazione dei processi di conoscenza4 che la globalizzazione dell’informazione cerca di imporre dappertutto. Si trovano in giro molte spiegazioni di questo processo; di solito, però, esse investono gli aspetti pragmatici dei linguaggi, della comunicazione. Senza invalidare questi tentativi, noi percorreremo una diversa strada, cercando di mostrare come la violenza ‘illustrata’ sia legata a un paradigma insieme gnoseologico e ontologico. Giusto per cominciare, muoviamo da alcune semplici considerazioni. Conoscere – ci viene insegnato – significa padroneggiare, possedere la cosa conosciuta.5 È così che i media globali diventano ogni giorno di più strumenti di potenza. Da un lato, essi accrescono i possibili oggetti di conoscenza; dall’altro, implementano la loro architettura vorace proprio offrendosi quali “sistemi di vita”, cioè quali habitat in cui, tuttavia, l’essere si risolve nell’operare.6 Come conseguenza di ciò, conoscere le cose e le persone (cioè conoscere la vita di certi individui di una qualche specie, naturale o no) non significa più passare del tempo con esse, ma equivale a classificarle qui e ora, proprio per non doverle incontrare poi. Talché, il reale di cui parliamo è spesso solo il prodotto di ripetute inferenze induttive, un castello di proiezioni e previsioni, che si regge su un ‘apriori storico’: la attuale scommessa – tipica di ogni proiezione induttiva – sull’uniformità del reale stesso.7
La furia tassonomica di cui è qui questione è gravida di conseguenze per l’ontologia dell’Occidente: tanto per quella, semplice e insieme multifaria, dell’uomo comune, quanto per le sofisticate ontologie (globali o regionali) che i filosofi amano disegnare come fondamento dei loro sistemi. Ebbene, diciamo subito che l’attuale spinta classificatoria in cui è presa l’attività della conoscenza ha come effetto principale e spesso non avvertito la riduzione del singolare alla specie. Nella vita di tutti i giorni, incontrare il tale o la talcosa è divenuta una fortunata infrazione alla regola; di solito, andando di fretta, si incontra il Tipo astratto. Ci si imbatte sempre più spesso in un uomo, una donna, un albero; quasi mai in quel dato individuo, quella tale donna, quel tale albero. E pensare che ci sono ancora oggi popoli che trattano gli alberi come persone,8 che danno nomi alle singolarità non umane: essi mostrano così di avere una nozione di persona molto più ampia di quella del filosofo tradizionale.
1.2
Quale sia il punto di insorgenza – lo Entstehungspunkt nicciano – della violenza simbolica e tassonomica lo dicono bene le numerose aggressioni fisiche o sessuali che in questi anni sempre più spesso culminano nell’uccisione dell’altro. Vittime e altari di questa violenza sono le donne, i più deboli, coloro che non resultino facilmente inquadrabili in una griglia di categorie sociali. In molti casi la violenza viene scaricata sugli anziani, sugli stranieri: su individui che siano visti come «portatori di una diversità non riducibile al possesso di tratti comuni». Il mondo moderno va per le spicce, e identifica i possibili diversi, usando solo i colori primari; mentre il mondo antico – per quanto esprimesse anch’esso una violenza di origine logicista – sapeva coltivare una coraggiosa pietas: per esempio, assegnando agli anziani il ruolo di senatori, trattando gli stranieri come ospiti o circondando di una siepe di riserbo le donne e i portatori di una diversità incolmabile – come erano i sacerdoti, le sacerdotesse, o i portatori di certi morbi, per esempio.9
Gli antichi avevano elaborato regole di rispetto (αἰδώς, ξενία, φιλία per i Greci; pietas, fidesfas, sacer per i Romani) non già per onorare la classe (o la specie) dei vecchi, degli stranieri, quasi volessero affermare il tipo astratto. Al contrario, Greci e Romani riconoscevano in ciascun individuo non specifico (cioè non riducibile alle proprietà genuine di una certa specie) il mistero di ciò che direi una possibile “presenza di persona”.10 Basti per ora un esempio, peraltro molto famoso, tratto dalla letteratura epica latina. Nel poema di Virgilio11 il troiano Enea non abbandona la città distrutta, prima di aver preso su di sé il vecchio padre Anchise e il figlioletto Ascanio; come a significare che non v’è identità nella dimensione presente senza che la linea verticale degli ascendenti e dei discendenti sia visibile. Questa dimensione della diacronia sembra oggi assente nell’Occidente opulento e malato, specie nell’Europa individualista del Nord.12 Oggi si tende a vedere in un vecchio, in uno straniero e perfino in una donna solo i membri di una classe di cui non conosciamo più, né più avvertiamo, la carnalità: siamo ciechi rispetto alla carne vivente che abita in ciascun individuo. Così, abbiamo trasformato gli incontri con le cose singolari in rapporti con gli esemplari (più o meno riusciti, quindi) di una qualche specie o tipo.13 E per tutelarci dalle diversità che non riusciamo più a tollerare, rinchiudiamo gli anziani negli ospizi, gli stranieri nei centri di raccolta, le donne in casa; e i diversi li sistemiamo in luoghi impersonali, spesso mentali e simbolici, che ci tengano al riparo dal confronto con quel che in loro non sappiamo classificare e dominare. Questa dislocazione spaziale è solo una traccia della separatezza ontologica che la violenza del linguaggio intende istituire. Divide et impera, dicevano i latini. Allo stesso modo, potremmo dire, il potere presuppone in qualche modo un sistema di pensiero di tipo platonista,14 poiché quel che lo fa vivere e lo consolida nel suo essere altro non è che un procedimento retorico e dieretico.
1.3
Perché un vecchio, una donna, un malato, uno straniero (e così tutto quello che non è passibile di una classificazione) diventano oggetto di violenza? Che tipo di violenza è questa? La violenza è sempre il trionfo della specie: è un atto tassonomico, un tentativo di classificare, mettendosi sopra o sotto, anzi che semplicemente accanto. Ecco che un carattere della violenza simbolica e classificatoria consiste nella prevalenza dell’individuo che considera sé l’esemplare di una specie (il sano che prevale sul malato, il maschio sulla femmina, l’adulto sull’anziano). Nella logica della classificazione, la supposta debolezza equivale o alla mancanza di tratti culturali accettati, ovvero al possesso di tratti adiafori, cioè non opponibili ai tratti dell’esemplare che considera sé genuino. Si comprende allora in che senso la violenza sia il trionfo della specie: la violenza è il trionfo non di una data specie su un’altra specie o su individui allomorfi. Nella violenza io vedo piuttosto il trionfo del meccanismo che produce l’esemplarità di qualsivoglia specie, consentendo a certi individui di automarcarsi15 quali esemplari-al-quadrato a spese di altri conspecifici che vengono marcati come esemplari-imperfetti ovvero: inesemplari. Il violento non confligge con il diverso da sé, ma con il conspecifico, che avverte come portatore di una pericolosa omonimia all’interno della sua stessa specie. «Inesemplare» non è pertanto il campione non genuino (unfair) e nemmeno il campione vicario: non è il non-campione (che semplicemente nega o non possiede l’esemplarità) ma il campione-di-non, ossia il campione che addita, senza volerla o poterla soddisfare, la propria esemplarità.
Se è così, allora possiamo dire che nella violenza è sempre la dimensione personale che viene sacrificata. Nel vecchio non vedo la persona che potrei onorare, nella donna non vedo la persona che potrei amare, ma vedo solo le marche culturali che io non sono capace di assorbire o di differenziare. In tal senso, quando parliamo di “violenza personale”, dovremmo intendere l’espressione non nel senso di “violenza compiuta da una persona o su una persona”, ma nel senso di violenza che sacrifica la dimensione della persona alla prevalenza della specie, dell’individuo che meglio rappresenta l’integrità della specie. La violenza per me è fascista e hitlerista in questo senso: non perché, come ha sostenuto Levinas, essa radicalizzi l’Essere,16 inchiodando l’uomo alla «voce misteriosa del sangue», ma, al contrario, perché la violenza ignora la domanda radicale e non estirpabile che proprio l’Essere rivolge all’uomo, quando lo reclama perché si apra alla verità. Proprio l’uomo, infatti, può assumere il compito di trasformare la propria Geworfenheit nella storicità di una esistenza libera (Heidegger, Introduzione alla metafisica, § IV).17 Una vittoria definitiva della violenza sulla inesemplarità non segnerebbe il trionfo dell’individuo o di una specie, ma la fine della storia, perché la storia è precisamente il gesto di chi ogni volta si mostra irriducibile alla sola forma di vita della specie. In questo senso sono particolarmente profetiche le osservazioni di Alexandre Kojève a commento di Hegel.18
1.4
Odio e invidia, alfieri della violenza, diventano più potenti laddove impera il conformismo della specie. Il pensiero del discredito e della condanna della società sembrano non essere più sufficienti a fermare la mano dell’aggressore, perché?Negli anni Sessanta gli antropologi usavano parlare di “civiltà della vergogna”, per indicare quelle culture nelle quali ciò che si teme massimamente è il giudizio di riprovazione del proprio simile: non si fa violenza, perché ci si vergognerebbe davanti agli altri. Diversamente, le “civiltà della colpa” sono quelle che hanno interiorizzato la norma e temono la sanzione divina o di una autorità distale, collocata in uno spazio superiore: Non Uccidere, per esempio, è uno dei deka logoi del Dio di Israele. Queste definizioni antropologiche sembrano non adattarsi più al complesso presente di cui parliamo. Chi commette violenza cerca, e spesso trova, l’approvazione sociale; d’altra parte, chi riconosce di aver commesso violenza, sempre più spesso al giorno d’oggi riconosce apertamente di non provare alcuna colpa, né alcun rimorso.
Trovo ancora sensata una bella definizione di Guy Debord, sebbene io preferisca ritoccarla facendo uso di un concetto di Roland Barthes.19 Io direi che siamo membri di una Società dell’ Immagine-a-colori; salvo che, questa immagine è quella della fotografia digitalizzata. Siamo per questo incapaci di leggere la singolarità irripetibile che la vecchia immagine in bianco e nero poteva rivelare a chi passava sufficiente tempo con essa. Siamo divenuti incapaci di lasciarci “pungere” dalle immagini, siamo insensibili al punctum che l’immagine fotografica in bianco e nero – quella studiata amorevolmente da Roland Barthes – possiede ed esemplifica per il semplice fatto di essere unica e irripetibile. La fotografia in bianco e nero, anche riprodotta più volte, non perde questa sua unicità, perché questa è dovuta ad una azione che la luce esercita sulla pellicola in virtù delle proprietà degli alogenuri di argento. La fotografia in bianco e nero in tal modo ottenuta è innanzi tutto un indice, cioè un indicatore della presenza: il mathema della fotografia non è in tal senso l’esserci, il Da-sein, o l’Il-y-a, ma il C’è stato singolare (il Da-gewesen-sein) unico e irripetibile che accade diversamente in ogni φωτισμός, e di cui la luce si fa garante con l’inamovibilità del suo essere – che si differenzia dall’ente come il la luce dal colore.
Che, pertanto, l’ente che noi sempre siamo (l’Esserci dell’uomo in questo caso) sia diventato ottuso di fronte alla rivelazione ontologica operata dalla fotografia altro non sta a significare che una incapacità di cogliere il mondo come traccia di una possibile fotografia, cioè trascrizione di una “scrittura della luce”. Una traccia, si badi, che non è il denotatum della fotografia, ma che è piuttosto – come oggi potrebbe dire Lacan – il Significante che sempre “significa un soggetto per un altro significante”.20 Dovremmo chiederci quanto costi questa cecità all’uomo, cioè a quell’ente per il quale – in quanto già sempre esposto alla scrittura della luce – «nel suo essere, ne va di questo essere stesso» (Heidegger, Essere e tempo, § 4)
1.5
La violenza che appare da questa lettura non è per niente un fenomeno sociale, ma un evento (forse, come scrisse René Girard, l’Arci-evento fondatore) della metafisica. È legittimo chiedersi quanto la cultura possa fare per contrastare la riproduzione e la diffusione della violenza: per dirla con Kant: si può concepire una rivoluzione o una inversione nello sviluppo della Ragione? Ho ricordato in precedenza l’eroe troiano Enea, che il poeta Virgilio scelse come padre della civiltà cui apparteneva. Enea ci ricorda che non vi è una fondazione che possa lasciare inoperoso il passato dalle cui membra usciamo. Qualsiasi rivoluzione culturale equivale alla fondazione di una città, alla ricerca di una città che sia il luogo per il futuro della comunità, e contemporaneamente il luogo dove il passato che conta possa rivivere (antiquam exquirite matrem, “cercate l’antica madre”: così il padre Anchise ammoniva il figlio e i Troiani tutti).21 Vorrei trarre spunto da un episodio dell’Eneide, per dare forma al mio pensiero. Nel terzo libro del poema si racconta dell’approdo di Enea in una terra straniera alla ricerca di legna e fogliame adatti alla celebrazione di un sacrificio. Enea si avvicina a un cespuglio di rovi e strappa un rametto. E subito (horrendum et dictu video mirabile monstrum – abbrividisce Enea) vede sgorgare del sangue da quegli sterpi: i quali subito si fanno voce: la voce di Polidoro, figlio di Priamo, che racconta come sia stato ucciso a tradimento e poi trasformato in questa pianta senza nome. Virgilio ci mostra Enea mentre ritrova nella sterpaglia una presenza di persona. Egli è l’eroe che trasforma una confusa pluralità dell’ambiente naturale in un vincolo personale e identitario, che storicizza la natura e le conferisce un senso comunitario. Enea possiede e manifesta quella Stimmung che a mio avviso servirebbe per neutralizzare il mito della Ragione, della specie. La violenza specista, infatti, presuppone sempre una autoctonia che manca ad Enea. Egli è per antonomasia l’eroe profugo, destinato al βίοςξενικός, all’erranza che deve fare a meno dell’ontologia consueta. Ricostruire a mezzo della memoria e della storia la “persona ambientale”, facendo uscire le cose della mera materialità della specie e del genere, per conferir loro lo statuto simbolico che possa consegnarle alla memoria e al rispetto. Se, come s’è detto, la violenza è sempre la vittoria della specie e dell’individuo-esemplare a scapito della persona, allora fare una persona del moderno “sciame digitale”, leggere la personalità latente nelle cose, può rivelarsi una strada promettente.
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Individui genuini ed esemplarità imperfetta
Vorrei provare a sviluppare in una direzione semio-filosofica questa piccola teoria della violenza come scaturente dal conflitto tra individui diversamente qualificati rispetto alla specie. La violenza sarebbe causata da qualche individuo che ritiene minacciata la propria rappresentatività (= esemplarità) di campione genuino o esemplare (nel senso di Nelson Goodman) di una specie.22 Questa esemplarità, comincio col dire, non si possiede sempre. In base all’uso comune, le cose, le persone, si “deteriorano”, vanno incontro ad una perdita delle loro marche. Ciò accade in qualche caso come una pura accidentalità: è allora una consunzione che accade nel tempo o nello spazio. Altre volte, invece, la perdita di esemplarità può, in altro senso, essere una condizione durevole: in questi casi è il sistema che de-figura quegli individui che non riesce a classificare senza entrare in crisi. In ambo i casi, secondo la mia teoria, la violenza scaturisce come conseguenza di una difficoltà classificatoria.
Va da sé che gli individui che vengono considerati deteriori non lo sono in senso assoluto, ma soltanto agli occhi di altri individui che li ritengono debolmente esemplari. In molte culture, ad esempio, agli individui Donna, sono bensì ritenuti partecipi della specie Uomo; e tuttavia vengono considerati alla stregua di esseri inferiori ai maschi. Parimenti, avviene in molti contesti cosali che i portatori di uno stigma sociale vengano ritenuti degli esemplari-imperfetti da coloro che io qui chiamerei gli esemplari-al-quadrato. Va detto che tanto l’imperfetta quanto la piena esemplarità sono ovviamente frutto di supposizioni e contrapposizioni sociali. Questa premessa ci aiuta a rispondere alla domanda di partenza sulla violenza. La violenza è quel dispositivo ontico-ontologico che fa sì che un individuo che si ritiene massimamente esemplare prevarichi su ogni altro individuo che può considerare imperfetto o degradato (occasionalmente o no). Talché, l’esercizio della violenza ha come condizione necessaria, ancorché non sufficiente, quei contesti “amebeici”23 in cui qualche individuo supposé-esemplare si trovi a interagire significativamente con un dato individuo supposé-degradato. Non è qui questione di contrapposizione tra classi o specie, ma di “intensità” o gradualità all’interno di una stessa specie. In altre parole, quel che appare scatenare la violenza non è la differenza specifica, ma l’indifferenza co-specifica, ossia data tra individui in qualche modo membri di una e sola specie. Se ciò è plausibile, occorre chiedersi ora: posto che il primo esemplifica la specie (ossia, pretende di essere un fair sample di questa), che cosa esemplificherà (di cosa sarà sample) il secondo? Cosa esemplifica “il vecchio”, “la donna”, “il malato” agli occhi di un uomo che si suppone massimamente esemplare di Uomo?
2.1
Secondo la nota definizione di “esemplare” (sample) data da Nelson Goodman, un campione, un sample è tale, se e solo se è un esempio genuino (fair sample) delle proprietà che possiede (letteralmente o no). Esemplificare (sampling) implica quindi il possesso di certi tratti e la possibilità per altri individui di fare riferimento a questi tratti nell’uso di un qualche linguaggio.24 Conseguentemente, si dirà che il campione (sample) possiede una data proprietà, se ne è un esempio genuino agli occhi di chiunque usi un linguaggio per fare riferimento ad esso. Ciò chiarito, una risposta ragionevole al quesito: “cosa è esemplificato da una dato malato, da una data donna, da un dato vecchio?” può essere la seguente: ognuno di questi individui è supposto non possedere ciò che al tempo t0 esemplifica: il vecchio non è ritenuto un uomo pieno e la donna neppure: quest’ultima ontologicamente, il vecchio onticamente. Sicché, l’individuo che esercita violenza contro il vecchio o la donna o il malato esercita la sua pressione in nome e per conto della specie che crede di rappresentare (e “difendere” dalla indifferenziazione). Ora, su cosa viene esercitata la violenza del primo? Rispondo così: L’individuo che esercita violenza sulla donna o sul vecchio o sul malato lo fa in quanto ritiene ciascuno di essi un esemplare affetto da faiblesse, un campione debole, che non può e, perciò non deve – a giudizio del violento – esemplificare le proprietà che non possiede. La violenza pare sanzionare l’inesemplarità.
2.2
Tuttavia, che tipo di individuo è il campione inesemplare? Potrei rispondere così: in primo luogo, lo direi un individuo non in grado di esemplificare le proprietà della specie cui appartiene: il vecchio sta all’uomo come la donna sta all’uomo; ontico e ontologico appaiono al violento dei casi di degrado. (In un altro senso, si potrebbe dire che il campione debole sia l’individuo supposto sacrificabile. Può, in tal senso, la violenza essere considerata una forma degradata di sacertà? Questa domanda richiede una analisi apposita, che qui non faremo). In secondo luogo, il malato, il vecchio, la donna non li posso ascrivere a un genere o una specie. La donna non può essere inclusa in una specie a parte, perché essa è membro della specie Uomo senza essere un uomo (la donna è già sempre umana, senza dover essere un uomo; questo spiega la difficoltà per la filosofia di spiegare la differenza sessuale); il vecchio è anch’egli umano, membro della specie Uomo: ma per gli Antichi restava, se pur debole, un uomo.
Nella età postmoderna, il vecchio, ciascun vecchio, è ritenuto spesso un umano sacrificabile, perché non possiede quel che dovrebbe esemplificare. Egli non ha per così dire il diritto di rivendicare le proprietà di Uomo. E, se lo fa, se le esemplifica, si tratterà di un camouflage: la genuinità del campione è difesa allora contro il campione non genuino. Si comprende in questa luce la “somatolatria” che vediamo nelle vite di molti anziani, costretti dal paradigma specista a sembrare perennemente giovani. Una cartina di tornasole per questo procedimento è la pubblicità contemporanea, sempre ansiosa di presentare campioni (samples) enfatici, quasi caricaturali. E, poiché il campione pubblicitario non è la “cosa stessa” ma le assomiglia soltanto, questa credibilità può esser considerata un effetto retorico della veridizione prodotta dal discorso pubblicitario; un discorso spesso costruito grazie all’uso di testimonial – questi sì genuini – che vantino una credibilità indipendente. Comprendiamo così perché accada, ad esempio, che la pubblicità e i media sempre più spesso esibiscano fino all’ostentazione nell’uomo anziano i caratteri plastici dell’uomo greco policleteo, quell’uomo senza età che ancora diciamo “classico”: esso viene assunto come un modello senza tempo, equidistante così dal momento della nascita come da quello della morte. Il Doriforo di Policleto può così rivivere come riferimento occulto nel trash delle moderne pubblicità di farmaci per la prostata.
2.3
Tutto il mondo antico conobbe spirali di violenza sulle quali non possiamo qui soffermarci. diciamo solo che l’antropologia moderna è ancora troppo astiosa per riconoscere il debito profondo che la civiltà ha accumulato nei confronti del pensiero giudaico-cristiano in materia di rivelazione dei meccanismi occulti della violenza. Il lavoro di un antropologo come René Girard è disgraziatamente troppo poco apprezzato e isolato. Comunque sia, molti studiosi sono concordi nel ritenere che il Cristianesimo, l’annuncio di Gesù Cristo e, insieme, la travagliata storia del popolo di Israele costituiscano una singolare virtuosa eccezione allo specismo generatore di violenza che era largamente diffuso nell’Antichità classica e nelle società basate sulla logica sacrificale. Il giudeo-cristianesimo, in un modo davvero imprevedibile, ha introdotto nelle culture umane il sentore secondo cui un individuo debole è bensì incapace di comunicare alla propria specie, ma proprio per questo esso può essere “guardato” nella sua haecceitas, nella individualità (non della specie, ma) della persona.
Il Samaritano della parabola evangelica coglie il sentore di questa inesemplarità, mentre il sacerdote e il levita colgono solo la mancanza di esemplarità dell’individuo-Uomo ridotto dai briganti ‘mezzo morto’ (ἡμιθανής). Inoltre, occorre presupporre che l’individuo personale – quello cioè che nasce dalla disaffiliazione del singolo dalla classe, cioè dell’individuo faible dalla specie – possa non essere soltanto umano. Un certo albero, un certo gatto, un dato fiore possono schiudere la persona dalla propria individualità, soprattutto nella rivelazione della loro faiblesse. Il fatto che non si sia spesso in grado di differenziare una quercia dall’altra o un elefante dal suo vicino non è un argomento contro il riconoscimento della loro personalità. Al contrario, quasi sempre una difficoltà nel classificare offre lo spunto per ripensare la dimensione personale del vivente uomo alla luce della οἰκειώτης che il Creato possiede in quanto tale.
Se questo è plausibile, la riflessione sulla violenza ci avvicina a una diversa spiegazione della debolezza. Contrariamente a quanto sovente si crede, la debolezza non è la causa, ma la conseguenza della perdita di marche specifiche. Non si diventa deboli perché ci si ammala, ma si viene etichettati “malati” quando certi individui si ritengono minacciati dalla esemplarità imperfetta del sofferente che cercano di espellere dalla classe-Uomo. Parimenti, non si è deboli perché donne, o perché vecchi: si viene etichettati dispregiativamente “vecchi” o “donne” solo quando l’individuo supposto esemplare si sente minacciato dalla coesistenza di individui che considera esemplari imperfetti della sua specie. Inoltre, se le cose stanno così, se la debolezza è il frutto di una opzione classificatoria interna a una specie, allora possiamo scorgere il carattere squilibrante della malattia, che può essere imputata non solo a chi è ritenuto perdere esemplarità, ma anche a chi ne acquisisce in eccesso. Lo dice molto bene Massimo il Confessore, quando scrive che «la malattia è chiaramente una carenza della salute, e un eccesso materialità: una condizione priva di misura e di ordine»: 25 si tratta di una inesemplarità che può assumere indifferentemente le forme della mancanza o quelle della sovrabbondanza di tratti caratterizzanti.
Che si tratti di una violenza sempre frutto di una opzione classificatoria e non di una conseguenza necessaria è facile capirlo da pochi esempi. La ‘debolezza’ di un vecchio può rivelare saggezza, quella di una donna può dischiudere una diversa visione della vita, e quella di un ‘malato’ può conferire senso alla relazione. Una rivelazione di questo senso è dischiusa nel Vangelo, dove si dice che il Figlio di Dio è venuto come medico per i malati, non per i sani. Ora, non esiste in senso logico una “classe dei malati”. Il malato – ogni potenziale individuo malato – è tale in quanto si discosta dalla sanità della specie e non già perché costituisce un’altra specie. In senso logico, non esiste neppure una classe dei “medici”: solo la relazione terapeutica istituisce e articola qualcosa come una malattia e qualcosa come una relazione terapeutica. Non sarà mai sottolineato abbastanza che la violenza scaturisce dalla paura del simile e non, come spesso si crede, dalla paura del diverso. La donna è “simile all’uomo” nel mistero della differenza sessuale: diremo che essa – proprio perché sempre umana senza dover essere uomo – mette in crisi la nozione stessa di Uomo come specie. Ed è per questo motivo che la differenza sessuale può difficilmente essere spiegata in termini di genere e specie e differenza. Da parte sua, Vecchio non è una classe diversa da Uomo, ma i suoi individui sono piuttosto segmenti temporali della classe Uomo, dal momento che non posseggono né esemplificano alcuna proprietà che non sia già di per sé una Merkmal posseduta ed esemplificata da altri individui della specie Uomo: il vecchio è tale per la sua temporanea imperfezione nell’esemplificare la pienezza di Uomo. Queste imperfezioni esistono soltanto nella ideologia degli individui che ritengono sé stessi degli esemplari-al-quadrato e non accettano che altri esemplari (che stessi ritengono esemplari imperfetti) siano etichettabili in modo omonimo.
2.4
Si fa, pertanto, strada l’idea che i campioni (i samples, gli esemplari) possano essere suddivisi non solo – come ho fatto nei miei lavori precedenti26 – in campioni genuini e campioni vicari (ad esempio, l’Icona bizantina non è la sostanza, la οὐσία del dio, ma è quel πρόσωπον che pone in esistenza una relazione vicariante tra il dio e l’orante), ma anche in campioni imperfetti o inesemplari. Fra i due estremi del campione genuino e del campione vicario va quindi posto il caso della esemplarità imperfetta, ossia la condizione che rende un individuo simile, in parte o meno, a un campione (sample) che altri individui ritengono non possegga esemplarmente (massimamente) le proprietà che dovrebbe esemplificare. Questa supposta imperfezione del campione, questa sua “inesemplarità” – ripeto – è sempre data agli occhi di qualcuno e può essere ontica, se concerne gli accidenti, o ontologica, se affetta invece differenze che sono Merkmale, cioè tratti, direbbe Wittgenstein, grammaticali della specie.
Ciò che fa nascere curiosità è il soggiacente meccanismo di individuazione: sembrerebbe infatti che il campione inesemplare sia fatto bersaglio della violenza non in quanto portatore di tratti specifici che si oppongano ad altri tratti, bensì perché sprovvisto di tratti individuativi specifici: cosa che lo colloca pertanto in una zona antropica adiafora o “nemica”. La violenza – questa la nostra ipotesi – viene perciò esercitata non verso qualcuno che possiede (e in quanto possiede) certi tratti, ma verso colui che esemplifica – in un dato linguaggio e in una data circostanza che sono comuni al violento e alla vittima – quei tratti che non possiede o che possiede in modo supposto inesemplare. In altre parole, i tratti – se così ci tocca ragionare – ci sono, sia nell’esemplare-al-quadrato sia nell’individuo inesemplare: il conflitto violento non è però una contrapposizione di tratti, ma una contrapposizione tra supposti doppi, un conflitto tra individui non differenziabili che a mezzo di una presa di posizione violenta.
Infine, chi fa violenza a qualcuno non agisce per differenza di tratti ma perché i tratti non fanno differenza ai suoi occhi. Il violento agisce nella indistinzione dei tratti e fa sempre violenza a un certo qualcuno, poiché cerca di distruggere la sua esistenza qui e ora. Non ciò che è comune è qui preso di mira, bensì il non potersi accomunare o diversificare le singolarità adiafore. Chiediamoci allora in quale relazione possono stare l’individualità e la specificità nella condizione che per solito si dà quando qualcuno attiva il meccanismo della violenza. Cosa fa violenza a cosa? Quale ontologia può sussumere la relazione violenta?
2.5
Alcuni filosofi contemporanei27 sostengono una teoria – già, peraltro, evidente nel pensiero di Simondon o Deleuze – secondo la quale una ontologia filosofica potrebbe fare a meno degli individui senza cadere nel platonismo: secondo questa corrente di pensiero, non c’è posto per individui unici e irripetibili. Tutto si spiegherebbe postulando l’esistenza di “tratti”, suscettibili di concretizzarsi come tali: tratti singolari, e però comuni e ripetibili. Se pur bene argomentata, io trovo inaccettabile questa proposta, così come mi pare da respingere ogni tentativo di ricondurre la metafisica a un unico principio (o il solo l’individuo, o i soli universali, o i Qualia, i Quanta): l’errore è in tutti questi casi un atto di eccessiva fiducia nella Ragione, un atto di ὕβρις, che sacrifica la molteplicità della vita alla tassonomia della scienza o della filosofia. Insieme a Nelson Goodman, ritengo che fare a meno degli Individui – come concrezioni uniche e irripetibili – richieda il sacrificio non indifferente del senso comune e del buon senso. Oltretutto, questa metafisica senza individui si scontra con una intuizione che personalmente, e come uomo e come studioso, ritengo insopprimibile: il sentore che l’individuo, soprattutto quando de-figurato dal pregiudizio ideologico, sia sempre unico e irripetibile.
Se adesso chiamiamo ‘persona’ (πρόσωπον) questa unicità irripetibile data nel faccia-a-faccia, allora possiamo ammettere che l’Altro, ogni altro che non sia sempre esemplarmente l’individuo di una data specie, è per l’individuo il fenomeno molare che permette di cogliere la trascendenza come rivelazione, non di qualcosa ma di qualcuno. L’imperfetta esemplarità che cogliamo in una data persona rende possibile per l’individuo autotrascendersi e trascendere così i limiti della sua specie. Per questa via viene infatti scoperta la differenza assoluta tra me, individuo, e quel dato individuo che è insieme a me, qui e ora, la persona, il πρόσωπον, letteralmente: colui-che-mi-sta-faccia-a-faccia. Il πρόσωπον non è un campione imperfetto della specie, ma il limite stesso della mia pretesa vis tassonomica. Colui che mi sta ora faccia-a-faccia è colui che mi fa assumere la mia condizione di soggetto come fosse una positio debilis. In questo si dà una evidente inversione di ruoli: la debolezza supposta di “colui che mi sta ora faccia-a-faccia” rivela la reale debolezza della mia pretesa di sciogliere mediante il calcolo induttivo o deduttivo la questione cruciale di ogni grammatica: la ratio che lega il tipo alle sue repliche, il type ai tokens, gli individui ad una specie.
3. Postludio
Occorre resistere alla tentazione di innalzare teoreticamente l’esemplare al suo presunto tipo. L’imperfezione del token smette di esistere non appena io rinuncio a riferirlo a un type. Facile, a questo punto, parafrasare la pensosità di Ludwig Wittgenstein, per tentare una conclusione più nostra. Io direi che la supposta debolezza di un campione nell’esemplificare la sua specie significa la debolezza e i limiti della mia grammatica e, così, dello stesso mio mondo. È solo quando abbiamo sentore di una presenza inamovibile e insupponibile (quella del πρόσωπον) che possiamo esser-ci davanti ad Altri come ci-siamo davanti al mistero, all’eros, alla morte – che diventa così ‘sorella’ morte. Il riconoscimento della persona (questa ἀναγνώρισις che non presuppone la riduzione del Qui e dell’Ora ad un luogo o evento passato o ad una precognizione spaziotemporale data) è riconoscimento del carattere cronosensitivo della conoscenza, che è sempre genuinamente erotica. La disposizione cronosensitiva annuncia l’ingresso dell’Altro nell’orizzonte cognitivo del soggetto mentre ne dissolve la grammatica. Nella sensitività all’altro che ad-viene può sciogliersi il perverso legame che lega le ragioni del linguaggio alle loro conseguenze violente. Liberati dall’ansia di classificare ogni nuova istanza, possiamo sottrarci alla cogenza dei predicati familiari e ascoltare, finalmente, quel che si rende manifesto nell’incertezza dei sostrati. E può accadere allora, nell’amore, come nella vita teoretica, che la potenza si riveli debolezza, e la stoltezza si riveli cosparsa – come voleva Benjamin – di schegge del tempo messianico.
1 Chi volesse, può scrivere all’autore a questo indirizzo: marcello.lamatina@unimc.it.Dipartimento di Studi umanistici, Università di Macerata, via Illuminati 4. 62100 – Macerata (Italia). Questo articolo, inedito, sviluppa e argomenta alcune tesi esposte nell’intervista concessa alla dottoressa Benedetta Lombo e apparsa nel quotidiano digitale “Centro Pagina-edizione di Macerata” il 23 settembre 2020.
2 Cfr. Sul rapporto tra internet, informazione e violenza, specialmente nel mondo islamico e con riferimento al ruolo delle immagini, si veda il saggio di Roberto Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano 2020.
3 Cfr. Guy Debord, La société du spectacle, Buchet/Chastel, Paris 1967. Cito dalla ed. ital., p. 62
4 Cfr. Luciano Floridi, Infosfera. Filosofia e Etica dell’informazione, Giappichelli, Torino, 2009.
5 L’idea che nel mito della Ragione verrebbe in chiaro la volontà di potenza dell’Occidente è presente nel dibattito attuale in molti autori e in differenti ambiti. Un testo rigoroso e originale, dedicato alla Grecia antica ma utile al confronto dei nostri tempi è Andrea Cozzo, Tra comunità e violenza. Conoscenza, logos e razionalità nella Grecia antica, Carocci, Roma 2001. Una critica del modello conoscitivo espresso in termini di Soggetto/Oggetto è tematizzato nell’articolo di chi scrive On Subjects, Objects and Icons. A Semiotic Inquiry for a New Paradigm in Human Studies (di prossima pubblicazione; attualmente sotto peer review).
6 L’ecologia dei media può essere considerata il campo nato dalle indagini del sociologo Marshall McLuhan. È oggi un ambito piuttosto trafficato. Una introduzione è in: Lance Strate, Media Ecology: An Approach to Understanding the Human Condition, Peter Lang, Berlin – Wien 2017.
7 Una critica al conformismo dell’induzione è in Giorgio Agamben Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Neri Pozza, Vicenza 2016.
8 Cfr la lectio di Emanuele Coccia, L’io nella foresta, Festival della Filosofia, Modena – Carpi – Sassuolo 2019 (https://www.festivalfilosofia.it/index.php?mod=c_video&id=850); consultato il 28 febbraio 2022.
9 Sulla diversità presso gli Antichi greci cfr. l’ormai classico volume di François Hartog, Le Miroir d’Hérodote. Essai sur la représentation de l’autre, Collection Bibliothèque des Histoires, Gallimard, Paris 1980.
10 Questa tesi sembra avvalorata dalla diffusione della xenìa, la quale è sempre in Grecia una relazione interpersonale, e mai un vuoto ossequio alla “classe” o al “genere”. Cfr. Andrea Cozzo, Stranieri. Figure dell’altro nella Grecia antica, Di Girolamo, Trapani 2014.
11 Certo ricorda il lettore le concitate fasi dell’incendio di Troia la toccante preghiera di Anchise, che solo dinanzi a un prodigio divino si persuade a partire con il figlio e gli altri suoi: «Hic vero victus genitor se tollere ad auras / Adfaturque deos et sanctum sidus adorat: / Iam nulla mora est: sequor, et qua ducitis, adsum. / Di patrii, servate domum, servate nepotem». Verg. Aeneis, II, 699-702.
12 Il riferimento più pertinente, e a suo modo, sconcertante, è un film documentario girato in Svezia da un regista italiano: Erik Gandini, La teoria svedese dell’amore [The Swedish Theory of Love], Fasad AB, Stockholm, 2015 (tra i personaggi merita ricordare il filosofo Zygmunt Bauman, che interpreta sé stesso).
13 Il discorso sottende una questione logica e semantica, legata alla dialettica tra individuo e classe. Per una critica dei sistemi filosofici platonisti, si veda Nelson Goodman, The Structure of Appearance, Springer (= Boston Studies in the Philosophy of Science), Dordrecht 1977.
14 Su platonismo e potere, è ancora utile leggere Karl R. Popper, The Open Society and its Enemies. Vol. 1 – The Spell of Plato, Routledge, London 1945.
15 Del problema dell’automarcatura degli individui in un contesto socio-semiotico mi ero occupato nel volume, Cronosensitività. Una teoria per lo studio filosofico dei linguaggi, Carocci, Roma 2004.
16 Si veda in proposito il denso scritto di Emmanuel Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, con una Introduzione di Giorgio Agamben e un saggio di Miguel Abensour; traduzioni di Andrea Cavalletti e Stefano Chiodi. Quodlibet, Macerata 1996.
17 Sulle filosofie dell’essere e la violenza, vedi la discussa interpretazione di Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”, Torino, Bollati Boringhieri, 2014.
18 Ci riferiamo a Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel. Lezioni sulla «Fenomenologia dello Spirito» tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études raccolte e pubblicate da Raymond Queneau, Adelphi, Milano 1996.
19 Cfr. Roland Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, Gallimard, Paris 1980.
20 Cfr., per questa definizione, Jacques Lacan, Séminaire XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Seuil, Paris 1973.
21 Verg. Aeneis, vv.
22 Cfr specialmente le teorie di Nelson Goodman in Facts, Fiction, and Forecast, Harvard Univ. Press, Cambridge (Ma) and London, UK 1954. Per una riflessione su questo ambito, vedi il mio contributo Esemplificazione, Riferimento e Verità in Marcello La Matina e Elio Franzini (a cura di), Nelson Goodman filosofo dei linguaggi, Quodlibet, Macerata 2009.
23 Ho chiamato “amebeico” ogni contesto di interazione sensitiva, umana od etologicamente significante, così come può essere trattata nel quadro della teoria esposta in Cronosensitività, cit. cap. 6.
24 Cfr. Nelson Goodman, Languages of Art. An Approach to a Theory of Symbols, Bobbs-Merrill, Indianapolis (Ma) 1968.
25 «Ἡ νόσος, εὔδηλον, ὡς ἔλλειψίς ἐστιν ὑγιείας, καί ὑπερβολή σωµάτων ἐνύλων, οὔτε µέτρον, οὔτε τάξιν ἐχοµένη» (Max. Conf. Ἐκ τοῦ ἁγίου Ἱεροθέου).
26 Mi permetto di citare il mio L’accadere del suono (Mimesis, Milano 2017), dove assumo come la relazione stessa con il suono da noi prodotto abbia una origine indessicale che non può essere eradicata; questa origine, questo grambo del suono, è la sua matrice e la sua madre, e lo custodisce sempre come un individuo unico e irripetibile.
27 Alcuni di questi pensatori sono tra i miei preferiti, sia per rigore metodologico sia per originalità. Tuttavia, come a volte accade, non posso condividere le conclusioni cui essi pervengono. E sono quasi dispiaciuto che tra questi autori e me si debba dare un tale disaccordo. Per parte mia, ritengo irrinunciabile la nozione di individuo e quella, prossima ad essa, di πρόσωπον. Anzi, è forse perché non si dà scienza delle cose individuali (individuum est ineffabile) che la filosofia deve pensare oltre il limite della metafisica e della classificazione degli enti. Scriveva Vladimir Lossky che la “persona” non è definibile se non come «l’irriducibilità stessa dell’individuo alla propria natura». Un recente lutto mi ha privato di mia mamma. E sono certo di non aver con lei perduto solo dei features o dei qualia, ma una individualità (un concretum) irripetibile.
Se ho ben compreso sono d’accordissimo. Si passa dagli schemi alla persona, dalla ragione astratta al discernimento dal vivo. Certo che la ragione astratta è violenta. Infatti razionalisti conservatori e progressisti confliggono concordi nel razionalismo, idelogismi che li rendono, consapevolmente o meno, strumenti del potere, del pensiero unico, al quale il bianco e nero fa gioco mentre teme la ricchezza delle sfumature.
Qui evidenzio in tale direzione una questione molto sentita dalla gente. Spesso portatrice, nel suo complesso, di quel sano buonsenso che tende naturalmente a riportare verso l’umano. https://gpcentofanti.altervista.org/una-nuova-presenza-negli-ospedali/