Dilexi te: «Non è beneficienza, ma Rivelazione». Leone XIV e il magistero dei poveri


Il primo testo importante, con la firma di papa Leone, è un documento incompiuto del suo predecessore, Francesco, che il successore ha recepito e largamente integrato. Potremmo considerare che più della metà del testo è frutto di una nuova stesura.

Il tema è nel sottotitolo: Sull’amore verso i poveri. E così viene giustificato al n. 3 del testo:

«in continuità con l’Enciclica Dilexit nos, Papa Francesco stava preparando, negli ultimi mesi della sua vita, un’Esortazione apostolica sulla cura della Chiesa per i poveri e con i poveri, intitolata Dilexi te, immaginando che Cristo si rivolga ad ognuno di loro dicendo: Hai poca forza, poco potere, ma «io ti ho amato» (Ap 3,9). Avendo ricevuto come in eredità questo progetto, sono felice di farlo mio – aggiungendo alcune riflessioni – e di proporlo ancora all’inizio del mio pontificato, condividendo il desiderio dell’amato Predecessore che tutti i cristiani possano percepire il forte nesso che esiste tra l’amore di Cristo e la sua chiamata a farci vicini ai poveri.» (DT 3)

a) La struttura del testo e le parole chiave

Il testo si articola in 5 capitoli.

1. ALCUNE PAROLE INDISPENSABILI (4-15)

2. DIO SCEGLIE I POVERI (16-34)

3. UNA CHIESA PER I POVERI (35-81)

4. UNA STORIA CHE CONTINUA (82-102)

5. UNA SFIDA PERMANENTE (103-121)

Provo ora a presentare i contenuti più rilevanti del documento.

Anzitutto il ruolo dei poveri nell’annuncio del Vangelo.

«Non siamo nell’orizzonte della beneficenza, ma della Rivelazione: il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale di incontro con il Signore della storia. Nei poveri Egli ha ancora qualcosa da dirci.» (DT 5) 

Anche il nome del papa Francesco, scelto in relazione ai poveri, ci ricorda che quel « giovane Francesco rinacque dall’impatto con la realtà di chi è espulso dalla convivenza» (DT7), cui si può collegare la spiritualità del Concilio Vaticano II, con il padarigma del buon samaritano:

«Sono convinto che la scelta prioritaria per i poveri genera un rinnovamento straordinario sia nella Chiesa che nella società, quando siamo capaci di liberarci dall’autoreferenzialità e riusciamo ad ascoltare il loro grido.» (DT 7)

D’altra parte occorre anche riconoscere che il termine “povertà” si deve dire in molti modi:

«Sul volto ferito dei poveri troviamo impressa la sofferenza degli innocenti e, perciò, la stessa sofferenza del Cristo. Allo stesso tempo, dovremmo parlare forse più correttamente dei numerosi volti dei poveri e della povertà, poiché si tratta di un fenomeno variegato; infatti, esistono molte forme di povertà: quella di chi non ha mezzi di sostentamento materiale, la povertà di chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità, la povertà morale e spirituale, la povertà culturale, quella di chi si trova in una condizione di debolezza o fragilità personale o sociale, la povertà di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà.» (DT 9)

Per questo occorre salutare con favore l’impegno dell’ONU per sconfiggere la povertà come uno degli obiettivi di Millennio (cfr. DT 10). Se i sistemi politici favoriscono i più forti e accrescono il divario tra ricchi e poveri, allo stesso tempo le emozioni di sdegno diventano momentanee e le questioni strutturali vengono lasciate al margine (cfr. DT 11). Per questo «sulla povertà non dobbiamo abbassare la guardia» (DT 12) e occorre dire con tutta la chiarezza necessaria che

«I poveri non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. Eppure, c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà» (DT 14)

Questo non riguarda solo il mondo, ma anche la Chiesa:

«Anche i cristiani, in tante occasioni, si lasciano contagiare da atteggiamenti segnati da ideologie mondane o da orientamenti politici ed economici che portano a ingiuste generalizzazioni e a conclusioni fuorvianti.» (DT 15)

b) Una storia del magistero dei poveri

Da queste “parole indispensabili” si passa alla delineazione di una “teologia della povertà” nel II capitolo. Si riparte dalla “opzione preferenziale per i poveri” elaborata prima in America Latina e poi assunta dal magistero universale della Chiesa cattolica (Cfr. DT 16). Questo implica una rilettura dell’AT e nel NT sub specie paupertatis. Il testo dice in modo sintetico:

«È in questa condizione che si può riassumere in maniera chiara la povertà di Gesù. Si tratta della stessa esclusione che caratterizza la definizione dei poveri: essi sono gli esclusi dalla società. Gesù è la rivelazione di questo privilegium pauperum. Egli si presenta al mondo non solo come Messia povero, ma anche come Messia dei poveri e per i poveri.» (DT 19).

L’esame dei testi biblici di AT e NT, anzitutto di quelli riferiti a Gesù, mostrano una chiara rilevanza della povertà. Di qui una domanda pressante:

«Tante volte mi domando perché, pur essendoci tale chiarezza nelle Sacre Scritture a proposito dei poveri, molti continuano a pensare di poter escludere i poveri dalle loro attenzioni.» (DT 23)

A ciò seguono altre considerazioni in cui, sulla scia di Francesco, Leone fa proprio lo stupore che di fronte a testi biblici così chiari ci sia talora lo sforzo di attenuarli o relativizzarli (cfr. DT 31). D’altra parte le attestazioni riguardanti la chiesa primitiva sono molto limpide e hanno ispirato larga parte della storia successiva (cfr. DT 34)

Di qui inizia il capitolo terzo, che può essere compreso come una grande storia della povertà nella Chiesa. Da Paolo a Lorenzo, da Ambrogio a Sant’Ignazio di Antiochia, è evidente che:

«La carità verso i bisognosi non era intesa come una semplice virtù morale, ma come espressione concreta della fede nel Verbo incarnato.» (DT 39)

Questo ha anche un riflesso nella comprensione della eucaristia. Citando il Crisostomo, il testo chiede la coerenza tra adorazione del Corpo di Cristo sull’altare e il Corpo di Cristo che soffre il freddo:

«Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurare la sua nudità; non onorarlo qui con vesti di seta, non trascurarlo fuori mentre è consunto dal freddo e dalla nudità […]. [Il corpo di Cristo che sta sull’altare] non ha bisogno di vesti, ma di un’anima pura; quello invece ha bisogno di molta cura.» (Giovanni Crisostomo in DT 41)

Per questo «la carità non è un percorso opzionale, ma il criterio del vero culto» (DT 42) Se per Ambrogio la elemosina è «giustizia ristabilita» (DT 43), per Agostino è purificazione del cuore (DT 46). Di qui Leone conclude con una frase di carattere programmatico:

«si può dire che la teologia patristica era pratica, puntando a una Chiesa povera e per i poveri, ricordando che il Vangelo è annunciato correttamente solo quando spinge a toccare la carne degli ultimi e avvertendo che il rigore dottrinale senza misericordia è un discorso vuoto.» (DT 48)

Allo stesso modo si deve considerare lo sviluppo degli ordini moderni, maschili e femminili, di cura del malato (Fatebenefratelli, Camilliani, Vincenziane, Suore Ospedaliere…) come emergenze di una antica evidenza:

«Quando la Chiesa si inginocchia accanto a un lebbroso, a un bambino denutrito o a un morente anonimo, realizza la sua vocazione più profonda: amare il Signore là dove Egli è più sfigurato.» (DT 52)

Lo stesso si deve dire del monachesimo, come esperienza di povertà. Contro una tendenza, anche molto americana, a riscotruire il monachesimo in modo reazionario, Leone scrive:

«Nel corso del tempo, i monasteri benedettini divennero luoghi che contrastavano la cultura dell’esclusione. I monaci coltivavano la terra, producevano cibo, preparavano medicine e le offrivano, con semplicità, ai più bisognosi. Il loro lavoro silenzioso era il lievito di una nuova civiltà, dove i poveri non erano un problema da risolvere, ma fratelli e sorelle da accogliere.» (DT 56)

Una rilettura del monachesimo equilibrata e senza chiusure permette di affermare:

«La tradizione monastica insegna in questo modo che preghiera e carità, silenzio e servizio, celle e ospedali, formano un unico tessuto spirituale.» (DT 58)

Una considerazione analoga vale per quella povertà che consiste nell’essere prigionieri e nell’essere schiavi. Ordini religiosi sono nati lungo la storia per la “redenzione” dei prigionieri. Questo non vale solo per il medioevo o per l’età moderna, ma anche per l’epoca contemporanea

«La carità cristiana, quando si incarna, diventa liberatrice. E la missione della Chiesa, quando è fedele al suo Signore, è sempre quella di annunciare la liberazione. Ancora oggi, quando «milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù»,1 tale eredità viene portata avanti da questi Ordini e da altre istituzioni e congregazioni che lavorano nelle periferie urbane, nelle zone di conflitto e nei corridoi migratori. Quando la Chiesa si inchina per spezzare le nuove catene che legano i poveri, diventa un segno pasquale.» (DT 61)

Anche la nascita degli ordini mendicanti ha segnato la storia di una nuova lettura della povertà:

«A differenza del modello monastico stabile, i mendicanti adottarono una vita itinerante, senza proprietà personale o comunitaria, interamente affidati alla Provvidenza. Non si limitavano a servire i poveri: si facevano poveri con loro. Vedevano la città come un nuovo deserto e gli emarginati come nuovi maestri spirituali.» (DT 63)

Questo aspetto è legato in modo stretto ad un problema assai vivo nel mondo contemporaneo:

«Gli Ordini mendicanti furono quindi una risposta viva all’esclusione e all’indifferenza. Non proposero espressamente riforme sociali, ma una conversione personale e comunitaria alla logica del Regno. Per loro la povertà non era una conseguenza della scarsità di beni, ma una libera scelta: farsi piccoli per accogliere i piccoli.» (DT 67)

Anche sul tema della educazione, la cui mancanza è una grave forma di povertà, Il sorgere degli ordini dedicati alla istruzione, a partire dagli Scolopi, con grandi sviluppi in ambito maschile e femminile, attesta una evidenza importante:

«L’educazione dei poveri, per la fede cristiana, non è un favore, ma un dovere. I piccoli hanno diritto alla conoscenza, come requisito fondamentale per il riconoscimento della dignità umana.» ( DT 72)

Con le emigrazioni europee del XIX secolo nasce una nuova sensibilità per il fenomeno, come forma di povertà. Gli scalabriniani e Francesco Cabrini attestano il sorgere, già nella Chiesa di allora, di quella attenzione per il Gesù che dice “ero straniero e mi avete accolto”. Perciò

«La Chiesa, come una madre, cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli; dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti. Sa che il suo annuncio del Vangelo è credibile solo quando si traduce in gesti di vicinanza e accoglienza. E sa che in ogni migrante respinto è Cristo stesso che bussa alle porte della comunità.» (DT 75)

La vicinanza, comunque, agli ultimi di Santa Teresa o di Santa Dulce e di tante altre forme di accuratezza verso le periferie esistenziali.

«Ognuno, a modo suo, ha scoperto che i più poveri non sono solo oggetto della nostra compassione, ma maestri del Vangelo. Non si tratta di “portar loro” Dio, ma di incontrarlo presso di loro...La Chiesa, quindi, quando si china a prendersi cura dei poveri, assume la sua postura più elevata » (DT 79)

Ci sono, però, anche movimenti popolari, iniziative laicali, che hanno dovuto spesso essere sospettati e perseguitati per questa vocazione alla cura della povertà (cfr. DT 80-82).

c) Il Povero e Pietro: la teologia della carne di Cristo

Il quarto capitolo si occupa degli ultimi due secoli, con il sorgere della “dottrina sociale” della Chiesa. E inizia con alcune proposizioni in cui i poveri non solo “subiscono”, a “affrontano e pensano” il cambiamento civile:

«I movimenti dei lavoratori, delle donne, dei giovani, così come la lotta contro le discriminazioni razziali hanno comportato una nuova coscienza della dignità di chi è ai margini. Anche il contributo della Dottrina Sociale della Chiesa ha in sé questa radice popolare da non dimenticare: sarebbe inimmaginabile la sua rilettura della Rivelazione cristiana entro le moderne circostanze sociali, lavorative, economiche e culturali senza i laici cristiani alle prese con le sfide del loro tempo» (DT 82)

Se i poveri sono “soggetti di una specifica intelligenza” e se la realtà “si vede meglio dai margini”, ecco che lo sviluppo di una dottrina sociale, a partire da Leone XIII, trova nel Concilio Vaticano II un passaggio decisivo:

«Si prospettava così la necessità di una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria, coinvolgente l’intero popolo di Dio e la sua figura storica. Una Chiesa più simile al suo Signore che alle potenze mondane, tesa a stimolare in tutta l’umanità un impegno concreto per la soluzione del grande problema della povertà nel mondo.» (DT 84)

In questo passaggio epocale, papa Leone sottolinea una audace immagine con cui Paolo VI delinea una analogia tra il Povero e Pietro:

«Nell’Udienza generale dell’11 novembre 1964 egli sottolineò che «il Povero è rappresentante di Cristo» e, accostando l’immagine del Signore negli ultimi a quella che si manifesta nel Papa, affermò: «La rappresentanza di Cristo nel Povero è universale, ogni Povero rispecchia Cristo; quella del Papa è personale. […] Il Povero e Pietro possono coincidere, possono essere la stessa persona, rivestita d’una duplice rappresentanza, della Povertà e dell’Autorità».2 In tal modo, il legame intrinseco tra Chiesa e poveri veniva espresso simbolicamente con inedita chiarezza.» (DT 85)

Così da Paolo VI fino a Francesco, si registrano ripetuti interventi del magistero universale e di quello locale sulla opzione preferenziale per i poveri.

«Sebbene non manchino diverse teorie che tentano di giustificare lo stato attuale delle cose, o di spiegare che la razionalità economica esige da noi di aspettare che le forze invisibili del mercato risolvano tutto, la dignità di ogni persona umana dev’essere rispettata adesso, non domani, e la situazione di miseria di tante persone a cui viene negata questa dignità dev’essere un richiamo costante per la nostra coscienza.» (DT 92)

Perciò occorre sollevare alcune domande decisive:

«La domanda che ritorna è sempre la stessa: i meno dotati non sono persone umane? I deboli non hanno la stessa nostra dignità? Quelli che sono nati con meno possibilità valgono meno come esseri umani, devono solo limitarsi a sopravvivere? Dalla risposta che diamo a queste domande dipende il valore delle nostre società e da essa dipende pure il nostro futuro. O riconquistiamo la nostra dignità morale e spirituale o cadiamo come in un pozzo di sporcizia» (DT 95)

Questa coscienza chiama il popolo di Dio a denunciare, a esporsi, a costo di essere chiamati “stupidi”:

«Pertanto, è compito di tutti i membri del Popolo di Dio far sentire, pur in modi diversi, una voce che svegli, che denunci, che si esponga anche a costo di sembrare degli “stupidi”. Le strutture d’ingiustizia vanno riconosciute e distrutte con la forza del bene, attraverso il cambiamento delle mentalità ma anche, con l’aiuto delle scienze e della tecnica, attraverso lo sviluppo di politiche efficaci nella trasformazione della società. » (DT 97)

Una attenzione particolare, anche per la esperienza diretta che ne ha fatto papa Leone nel suo lungo periodo di ministero sudamericano, è diretta alla elaborazione della Conferenza di Aparecida. In particolare si dice che il documento

«insiste sulla necessità di considerare le comunità emarginate quali soggetti capaci di creare una propria cultura, più che come oggetti di beneficenza. Ciò implica che tali comunità hanno il diritto di vivere il Vangelo e celebrare e comunicare la fede secondo i valori presenti nelle loro culture.» (DT 100)

Di qui scaturisce il riferimento ad un vero “magistero dei poveri”:

«Cresciuti nell’estrema precarietà, imparando a sopravvivere nelle condizioni più avverse, fidandosi di Dio con la certezza che nessun altro li prenda sul serio, aiutandosi a vicenda nei momenti più bui, i poveri hanno imparato tante cose che conservano nel mistero del loro cuore. Quelli fra noi che non hanno avuto esperienze simili, di vita vissuta al limite, certamente hanno molto da ricevere da quella fonte di saggezza che è l’esperienza dei poveri. Solo mettendo in relazione le nostre lamentele con le loro sofferenze e privazioni è possibile ricevere un rimprovero che ci invita a semplificare la nostra vita.» (DT 102)

Si arriva così al quinto ed ultimo capitolo, sulla “sfida permanente”. Se «l’amore per i poveri è un elemento essenziale della storia di Dio con noi» (DT 103) allora essi sono per noi cristiani “questione famigliare” (DT 104). Qui il versante più autenticamente teologico dl documento, dicendo:

«i poveri per i cristiani non sono una categoria sociologica, ma la stessa carne di Cristo. Infatti, non è sufficiente limitarsi a enunciare in modo generale la dottrina dell’incarnazione di Dio; per entrare davvero in questo mistero, invece, bisogna specificare che il Signore si fa carne che ha fame, che ha sete, che è malata, carcerata» (DT 110)

d) Le giustificazioni dello scarto e la vocazione cristiana

Le pietre scartate che sono i poveri sono la vera pietra angolare. Invece succede di assistere a posizioni contraddittorie rispetto a questa evidenza teologica. Infatti

«tale attenzione spirituale ai poveri viene messa in discussione da certi pregiudizi, anche da parte di cristiani, perché ci sentiamo più a nostro agio senza i poveri. C’è chi continua a dire: “Il nostro compito è di pregare e di insegnare la vera dottrina”. Ma, svincolando questo aspetto religioso dalla promozione integrale, aggiungono che solo il governo dovrebbe prendersi cura di loro, oppure che sarebbe meglio lasciarli nella miseria, insegnando loro piuttosto a lavorare. A volte, invece, si assumono criteri pseudoscientifici per dire che la libertà del mercato porterà spontaneamente alla soluzione del problema della povertà. Oppure, persino, si opta per una pastorale delle cosiddette élite, sostenendo che, al posto di perdere tempo con i poveri, è meglio prendersi cura dei ricchi, dei potenti e dei professionisti, cosicché, attraverso di loro, si potranno raggiungere soluzioni più efficaci. È facile cogliere la mondanità che si cela dietro queste opinioni: esse ci portano a guardare la realtà con criteri superficiali e privi di qualsiasi luce soprannaturale, privilegiando frequentazioni che ci rassicurano e ricercando privilegi che ci accomodano.» (DT 114)

Infine, anche la correlazione tra intenzioni e gesti deve però essere curata: l’elemosina è appunto non un’alibi, ma una pratica di non indifferenza:

«L’amore e le convinzioni più profonde vanno alimentate, e lo si fa con gesti. Rimanere nel mondo delle idee e delle discussioni, senza gesti personali, frequenti e sentiti, sarà la rovina dei nostri sogni più preziosi. Per questa semplice ragione come cristiani non rinunciamo all’elemosina. Un gesto che si può fare in diverse maniere, e che possiamo tentare di fare nel modo più efficace, ma dobbiamo farlo. E sempre sarà meglio fare qualcosa che non fare niente. In ogni caso ci toccherà il cuore.» (DT 119)

Per certi versi Leone, riprendendo alcuni elementi fondamentali del magistero di Francesco, li acutizza e li conduce verso un vero e proprio “magisterium pauperum”, di carattere ecclesiale e spirituale, teologico e morale.

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