Digiuno e comunione impossibile: alcune sorprese dalla tradizione
Dopo la messa domenicale, parte la processione con il Santissimo: così si è soliti fare il giorno nella festa del Corpus Domini. Come ho già chiarito nei post precedenti (cfr. qui, qui e qui), questo modo di intendere la festa (anzitutto come adorazione e processione) non risulta dal testo istitutivo della festa stessa, la Bolla Transiturus del hoc mundo, di Urbano IV (1264), che si concentra sulla comunione come verità del Corpo e Sangue di Cristo: essa dice: “Dedit igitur se nobis Salvator in pabulum”, il Salvatore si diede a noi come pasto. Per capire meglio la cosa, vorrei soffermarmi su un elemento apparentemente secondario, ma che molto ha inciso sulle prassi ecclesiali e sulla loro comprensione. Mi riferisco al “digiuno eucaristico” e alla sua incidenza sulla pratica ecclesiale. In effetti fino al 1953, con la prima riforma di Pio XII, e poi definitivamente con il 1973, con Paolo VI, la comunione era riservata al primo mattino, dovendo rispettare il digiuno dalla mezzanotte. Una lunga stagione ha pensato la comunione come atto privato (non legato alla celebrazione eucaristica) e normato dalle regole del digiuno. Questo ha determinato una sfasatura profonda tra celebrazione del mistero e comunione col mistero. Gran parte della riflessione sulla eucaristia è nata durante questo tipo di normativa comportamentale. Così non solo la teologia pensava, separatamente, la consacrazione del sacramento dal suo uso come comunione, non solo la pratica ecclesiale separava la comunione del prete (che avveniva nel rito eucaristico) dalla comunione della assemblea (che avveniva eventualmente e autonomamente, prima, durante o dopo la messa), ma le regole del digiuno rendevano ancora più complessa la coerenza tra atto celebrativo e consumazione eucaristica.
Le cose sono cambiate a partire dagli anni 50 e definitivamente dal 1973, su tutti e tre i fronti: si è recuperata faticosamente la unità tra sacramento e comunione, si è riconosciuto il rito di comunione come il luogo per eccellenza per la comunione della assemblea, si è ridotto il digiuno ad un’ora prima della comunione. Questi tre fatti teologici, pastorali ed istituzionali sono stati posti, ma non ancora recepiti, come è inevitabile. Così rimangono prassi che erano giustificate dal regime precedente e non lo sono più nel regime attuale. Un esempio può essere illuminante: l’ultimo giorno dell’anno, la Chiesa si raduna la sera e celebra (oggi ordinariamente) la Ottava del Natale, Solennità di Maria Madre di Dio, con una grande celebrazione eucaristica vigiliare, alla fine della quale tutta la assemblea comunica al Corpo e al Sangue di Cristo. Ma, appena dopo la messa, si procede con la prassi che era giustificata dalla impossibilità di celebrare la messa fino agli anni 70, date le norme sul digiuno vigenti fino ad allora. E’ chiaro che, se è impossibile celebrare l’eucaristia e accedere alla comunione, una benedizione eucaristica in occasione dei Vespri sembra una soluzione ragionevole. Ma se si è appena conclusa la celebrazione eucaristica, e si ricorre al Santissimo per una benedizione eucaristica, si crea un “doppione”, sicuramente minore, che attesta la mancanza di consapevolezza di ciò che è appena accaduto. La stessa cosa, mutatis mutandis, dobbiamo osservare per la festa del Corpus Domini. Appena finita la messa, partire con la processione, con il “pane eucaristico”, sembra una pratica in tensione con alcune evidenze, che non sembrano acquisite:
a) da un lato, la verità del Corpo di Cristo sacramentale, mediante la comunione, viene consumata e tradotta nella verità del Corpo di Cristo ecclesiale. La consumazione non avviene “per finta”: la riserva eucaristica, che è per i malati e per gli assenti, è spezzata, non è “intera”. Ripartire dall’ostia consacrata, come se la messa non ci fosse stata e non fosse stata consumata, assume una accezione di “sacramento” in qualche modo autonoma dalla comunione. Una processione eucaristica ha senso per portare il viatico ad un malato, non lo ha se non ha come fine una comunione. Tanto più se la comunione si è appena celebrata.
b) in secondo luogo, questo corrisponde ad un modo di gestire il “rito di comunione” che ha lo stesso difetto. Non solo è possibile, alla fine della messa, ripartire dal pane consacrato (e non spezzato!), ma anche al momento del rito di comunione non è raro che arrivi all’altare, dal tabernacolo, una pisside di particole che non sono il frutto della celebrazione, ma di previe celebrazioni. Questa è la inerzia della lunga tradizione che sfasava la comunione del prete (che si nutriva del pane sull’altare) dalla comunione del popolo, che veniva nutrito solo dal tabernacolo. Allora avveniva in tempi differenziati, ora in contemporanea, ma con la stessa logica inadeguata.
c) d’altra parte, si deve riconoscere che anche per la teologia medievale, la “veritò del Corpo e Sangue sotto le specie del pane e del vino” restava solo “effetto intermedio”, non effetto pieno, della eucaristia. L’effetto di grazia, per usare la terminologia tecnica, era la unità e la comunione della Chiesa, che si realizza mediante la comunione. Il punto delicato, di questa teoria, consiste nella affermazione per cui mentre l’effetto intermedio è contenuto nel sacramento, l’effetto di grazia (ossia la res) non è contenuto, ma solo significato. Questa è una deduzione non evidente e non necessaria.
Questa differenza tra ciò che è contenuto e ciò che non è contenuto nel sacramento segna la distanza e la discontinuità della teologia medievale e moderna sia dai Padri della Chiesa, sia dalla teologia contemporanea. Una grande riconciliazione è stata ritenuta necessaria dal Concilio Vaticano II per recuperare il passaggio, necessario, dal Corpo di Cristo sacramentale al Corpo di Cristo ecclesiale. Quando una celebrazione si conclude con la comunione eucaristica, la assemblea si riconosce come Corpo di Cristo: la sua esistenza porta il risorto in mezzo alle case, avendo in sé la res del sacramento. La Chiesa ha un tabernacolo in cui custodisce a riserva eucaristica. Ma il tabernacolo è uno strumento della comunione, non un sostitutivo di essa. Le forme della adorazione eucaristica, che sono ragionevoli in contesti in cui non c’è o non può esserci celebrazione della comunione, restano necessariamente al servizio dell’azione rituale di preghiera eucaristica e di rito di comunione. Se, appena finita la celebrazione con la comunione, ripartiamo dall’ostia consacrata, è come se smentissimo il rito appena celebrato, come se restassimo ancora in un regime del passato: allora quel regime era giustificato sia sul piano teologico, sia sul piano pastorale, sia sul piano della normativa del digiuno. Oggi la teologia, la pastorale e le norme sul digiuno dicono (o dovrebbero dire) ben altro. Per chi si scandalizza, potrebbe essere utile rileggere la Lettera 54 di S. Agostino, nella quale egli confessa a S. Ambrogio l’imbarazzo di sua madre Monica, per il fatto che a Milano il sabato non si digiunava, mentre per a lei sembrava una cosa necessaria. La risposta di Ambrogio è fulminante e dice una sapienza di cui oggi sembriamo incapaci. Egli risposte: «Quando vado a Roma, digiuno il sabato; ma quando sono qui, non digiuno.»
Il passaggio da un regime ad un altro non deve essere di scandalo per nessuno. Le nuove evidenze dicono non meno devozione, ma diversa devozione. La interferenza tra comprensioni teologiche, pratiche pastorali e normative sul digiuno oggi possono permettere un ritorno al “fare comunione” come verità della celebrazione eucaristica e del sacramento, in una forma davvero sorprendente. Purché ognuno non si leghi a tradizioni che contraddicono la verità dei segni parziali, sbandierati però come definitivi ed esclusivi. Il cattolicesimo, proprio in virtù della sua universalità, dovrebbe essere la meno rigida delle tradizioni, proprio in virtù della sua antichità. Se un tempo la festa del Corpus Domini si era trasformata in processione e adorazione, ciò non aveva impedito le infiorate, le forme di relazione con la cultura, le belle testimonianze di fede. Se ritorniamo oggi al vero senso con cui la festa è stata istituita, riconosciamo al suo centro la possibilità di vivere la comunione eucaristica come “corpo di Cristo ecclesiale”, presenza del Risorto in mezzo ai suoi: a questo mistero prestiamo la nostra devozione. Come i discepoli di Emmaus, se riconosciamo il Risorto, non abbiamo più bisogno di vederlo. Per questo motivo “vedere il mistero eucaristico” ha in sé una contraddizione insuperabile e resta perciò in profonda tensione con il senso con cui le Scritture, la tradizione liturgica e la più antica coscienza ecclesiale ci parlano della frazione del pane e della cena del Signore.