DIbattito sui divorziati risposati: un intervista su ADISTA


IN UN “VINCOLO” CIECO. INTERVISTA AD ANDREA GRILLO
SULLA DOTTRINA DELL’INDISSOLUBILITA’ DEL MATRIMONIO
 
da Adista Notizie 22 del 14 giugno 2014
 
ROMA-ADISTA. L’approssimarsi del Sinodo sulla famiglia rende più vivo il dibattito sul tema dei divorziati risposati e, più in generale, quello sull’indissolubilità del matrimonio. Ad animare ulteriormente la discussione è un libro, appena uscito per i tipi della Cittadella, di Andrea Grillo, liturgista laico che dal 1996 al 2000 ha fatto parte della Commissione Cei incaricata di tradurre e adattare il nuovo rito del sacramento del matrimonio e che è attualmente docente di Teologia Sacramentaria presso la Facoltà Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma e di Teologia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova, nonché dell’Istituto Teologico Marchigiano di Ancona.
Indissolubile? Contributo al dibattito sui divorziati risposati (Cittadella, 2014, pp. 90, euro 9,80) parte dalle intuizioni espresse nella sua ultima intervista dal card. Carlo Maria Martini, quella in cui l’arcivescovo emerito di Milano parlava dei 200 anni di ritardo accumulati dalla Chiesa nel suo rapporto con la modernità, per poi entrare con decisione nel dibattito suscitato dalla relazione del card. Walter Kasper al Concistoro dello scorso febbraio. La proposta del cardinale tedesco di un percorso penitenziale per i divorziati risposati che possa permettere a queste persone di tornare ad accostarsi ai sacramenti viene analizzata da Grillo, che la accoglie per superarla, suggerendo cioè alla Chiesa, oltre alla riammissione dei divorziati dopo un periodo penitenziale, anche il pieno riconoscimento delle seconde nozze. Proposta coraggiosa, anticipata in qualche modo dal titolo stesso del libro, che richiama il celebre testo del teologo Hans Küng, Infallibile?, in cui ad essere contestato era il dogma dell’infallibilità del papa. Anche qui, in una qualche forma, sempre di dogma si tratta. Non tanto della dottrina dell’indissolubilità, che nella sostanza Grillo accetta e non contesta, quanto del modo con cui essa è stata sinora ostinatamente e “dogmaticamente” declinata, in modo da divenire impermeabile a qualsiasi riformulazione. Perché se la sostanza resta la stessa, i modi con cui essa viene comunicata possono, anzi devono cambiare, in sintonia con i tempi e le necessità storiche. E siccome oggi per le coppie cattoliche non è più possibile continuare a proporre-imporre la teoria classica dell’indissolubilità, o si cercano scappatoie come quella dei processi per nullità o la finzione di una seconda unione vissuta in castità perpetua, oppure si affronta la questione con coraggio.
Facendo riferimento alla tradizione stessa della Chiesa antica, Grillo richiama la tesi di un teologo, Basilio Petrà, studioso di ortodossia: «La Chiesa – propone Grillo – potrebbe ammettere, in circostanze determinate e non come una legge generale, che il riconoscimento della nuova unione non avrebbe bisogno di fondarsi sulla “inesistenza originaria” della precedente unione, ma potrebbe constatare la “morte del vincolo” e così dischiudere l’orizzonte di un “nuovo inizio” possibile, vivibile e riconoscibile, anche sul piano della ufficialità ecclesiale. Si tratterebbe, in sostanza, di unire “radicale” e “pudico”. Di lasciare intatto il radicale slancio profetico all’unità, richiesto dal Vangelo, coniugandolo però con un sano e pudico realismo, dovuto alla storia e richiesto anche dal buon senso».
Sugli aspetti più innovativi e controversi del suo testo, Adista ha posto alcune domande all’autore, che vi proponiamo qui di seguito. (valerio gigante)
 
Nel suo testo lei cita una frase del card. Martini: «La domanda se i divorziati possano fare la comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?». Crede davvero che siano maturi i tempi di un ripensamento della disciplina ecclesiastica sull’indissolubilità e di quella sui divorziati risposati? C’è da aspettarsi qualche sorpresa dal prossimo Sinodo?Da un certo punto di vista, la Chiesa potrebbe continuare ad “allargare le braccia” e a non attribuirsi alcun potere in questo ambito. Ma dovrebbe far pensare molto, anche i cardinali e i teologi, il modo con cui ci si è mossi, nell’ultimo secolo, in materia di “nullità matrimoniale”. Estendere a fattispecie sempre più ampie i “capi di nullità” classici mi sembra il segnale allarmante di un disagio crescente. In certo modo dobbiamo riconoscere che la Chiesa, se non facesse nulla, si dimostrerebbe inadempiente rispetto al proprio compito. Che non è di salvaguardare un “principio” separato dalle vite dei soggetti, ma di parlare alle vite dei soggetti in ragione del principio di unità e di fedeltà.  L’unica sorpresa che il prossimo Sinodo potrebbe riservarci sarebbe quella di confermare semplicemente la disciplina classica. Mentre io sono convinto che il Sinodo si farà carico di rispondere in modo nuovo alle nuove dinamiche di crisi della vita familiare. Sarà un approfondimento della “fisiologia matrimoniale” che aiuterà ad intervenire meglio sulla “patologia”. La soluzione classica, invece, si rifiuta di fare i conti con la patologia. Sembra riaffermare continuamente un dato: se la coppia esiste, non può che essere sana. Ma se è malata, allora non è mai esistita. Gli ultimi due secoli ci hanno detto che la coppia si può ammalare e può anche morire. Di questo bisogna prendere atto, non ostinandosi a pensare la famiglia su modelli pre-moderni. Mentre il massimalismo disciplinare – che pensa che il vincolo o vive o non c’è mai stato – da qualche decennio ha cominciato a fare danni, non solo alle coppie, ma alla stessa Chiesa.
 
Nel suo libro si parla di “svolta pastorale” che lasci intatta la dottrina, ma che modifichi la disciplina. Insomma, secondo lei quella condotta sinora dalla gerarchia ecclesiastica sarebbe non una difesa ad oltranza della “verità”, quanto piuttosto l’ostinata conservazione di una sua formulazione non più adeguata ai tempi. Cosa intende, soprattutto in relazione ai concetti di “indissolubilità”, “unità” e “indisponibilità” che usa nel suo testo?Mi ha molto colpito che nella Evangelii Gaudium papa Francesco si sia riferito, esplicitamente, al n. 41, a questa differenza fondamentale tra “sostanza dottrinale” e “formulazione disciplinare”, che per la prima volta era apparsa nel discorso inaugurale del Concilio Vaticano II, il giorno 11 ottobre 1962, sulla bocca di papa Giovanni. Sono del parere che la richiesta di rivedere il rapporto con i “divorziati risposati” risponda precisamente a questo compito di riformulazione. La categoria di “indissolubilità” è stata oggetto di una interpretazione metafisica e giuridica. Questa interpretazione, oggettivando il vincolo, prescinde totalmente dalla storia dei soggetti “successiva al consenso/consumazione”. In tal modo si preclude ogni comprensione del “soggetto moderno”, come ha messo bene in luce lo stesso card. Kasper, nel suo discorso al Concistoro del febbraio scorso. Il vantaggio della categoria di “indisponibilità” è di non essere immediatamente catturata da una prospettiva oggettivante, ma di restare su un piano di “intersoggettività”, la quale, pur sottraendo il vincolo matrimoniale alla disponibilità dei coniugi – e quindi salvaguardando la sua differenza rispetto al ripudio/divorzio civile – lascia la possibilità di costatare la morte del vincolo stesso. Un vincolo che, pur restando indisponibile, può morire. Questa mi pare una interpretazione che evita i due massimalismi oggi più pericolosi,  ossia il massimalismo oggettivista e il massimalismo soggettivista.

Il teologo Giovanni Cereti, in un suo libro, parlava delle “specie” del sacramento del matrimonio, che sono i coniugi stessi. Perché il sacramento sussista, è necessario che perduri la materia che lo ha costituito: nel caso dell’eucarestia, le specie del pane e del vino. Secondo la teologia, se le specie dell’eucarestia si degradano, cessa anche la presenza reale di Gesù in esse. Tanto più questo dovrebbe avvenire se i coniugi non sono più legati da vincoli affettivi. Mi pare un approccio analogo a quello che lei svolge nel libro quando parla della “morte morale” del vincolo matrimoniale.In qualche maniera, la sapienza sacramentale medioevale aveva potuto elaborare teorie adeguate per leggere il reale e per renderlo comprensibile. Il nostro approccio al matrimonio, invece, si è irrigidito proprio dalla fine del 1800 e poi, in particolare, con il Codice di Diritto Canonico. Dal 1917, anche nella Chiesa, l’idea che il “principio di indissolubilità” debba essere trattato come una “legge generale e astratta” ha reso molto più difficile l’ascolto delle “storie di vita” che si celano e si rivelano nelle “famiglie infelici”. Se a questo uniamo la tendenza/tentazione a leggere le “famiglie allargate” con le categorie di “adulterio”, allora possiamo comprendere bene quanto sia necessario elaborare un diverso rapporto tra dottrina e disciplina. Questa elaborazione deve tenere conto delle forme di vita degli uomini e delle donne dell’ultimo secolo. Ogni scorciatoia giuridico-casuistica, che proceda attraverso “finzioni”, finisce per peggiorare il problema più che risolverlo.

 
Le faccio la stessa domanda che lei pone ad un certo punto del suo libro, ma a cui non dà risposta. A suo tempo, la scoperta del nuovo continente americano non cambiò la soteriologia, lo studio della salvezza, ma le diede nuovi linguaggi, nuovi orizzonti e una coscienza più fine. Allo stesso modo, più recentemente, la “scoperta” della relazione profonda tra i coniugi e il principio della loro parità ha iniziato a cambiare il linguaggio della teologia del matrimonio. Perché è così difficile continuare a pensare in questa direzione anche su temi spinosi come quello della “indissolubilità”?Con la scoperta dell’America è cambiata la soteriologia, ma con la scoperta della libertà di coscienza è cambiato il modo di pensare la comunione. Non solo la comunione matrimoniale, ma anche la comunione ecclesiale, quella eucaristica, quella monastica, quella presbiterale… Ho però parlato della intuizione di un “americano” non a caso. Dobbiamo infatti ricordare che la “libertà di coscienza” è entrata nel Concilio, in particolare nella Dignitatis Humanae, grazie ai vescovi e teologi americani. E questo non arbitrarimente. Infatti la loro storia, la storia del continente che entra nella “nostra storia” solo poco più di 500 anni fa, concepisce la libertà come un elemento originario del soggetto, molto più di quanto non possa fare un europeo, che ha cominciato dagli imperi, dalle monarchie, dai principati, e ha scoperto la libertà anzitutto “contro” qualcuno. Dico tutto ciò perché a me sembra che il mutamento della “teologia del matrimonio” risenta oggi di questa grande sfida. Da un lato abbiamo una lettura istituzionale e canonica del matrimonio, che viene dalla vecchia Europa. Dall’altro abbiamo una lettura esperienziale e personale, che è cresciuta insieme alla democrazia, alla parità di genere, alle battaglie per i diritti del soggetto individuale. Mediare tra queste grandi culture è il compito del nostro tempo. Non è un caso che sia stato un “papa americano” a porre la questione. Come avvenne con la fine dell’Impero romano, quando si dovette per secoli mediare tra la interpretazione in termini di consenso, di eredità romana, e quella in termini di consumazione, portata dai “barbari”, oggi dobbiamo trovare un nuovo equilibrio tra le interpretazioni che leggono il matrimonio “indipendentemente dal sentimento d’amore” e quelle che lo leggono in uno stretto legame con esso. Lo sviluppo è iniziato dalla fine del XIX secolo, quando il modello classico è entrato in crisi. Oggi siamo a un passaggio importante, che leggiamo anzitutto in termini di “rimedio ad una patologia”, ma che ha bisogno di una più adeguata rilettura della “fisiologia matrimoniale”, in seno alla Chiesa e al mondo del XXI secolo, senza alcuna possibilità di trovare piena risposta in teorie classiche, che parlano di un altro uomo/donna e di un altro matrimonio. Nella storia, se Dio vuole, nascono domande nuove. Alle quali all’inizio proviamo a rispondere con risposte vecchie. Ma prima o poi siamo costretti ad elaborare risposte con nuove parole e con nuovi concetti, che mediano la tradizione in un mondo diverso. Siamo oggi direttamente implicati in un caso simile. Per il quale sarebbe auspicabile che si sviluppasse un ampio dibattito, ecclesiale e culturale. (Valerio Gigante)




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