Con quali parole dire oggi la ‘realtà’ dei luoghi che abitiamo?


Chi non possiede oggi, e con soddisfazione, una piccola macchina fotografica, isolata o addirittura incorporata al mobilephone? Con essa è possibile un personale rapporto d’istantanea registrazione e memorizzazione di dati reali; è in effetti uno strumento molto utile, semplice nell’uso, che sostanzialmente si ritiene neutrale.
Il suo processo tecnico però, la fotografia – termine che etimologicamente significa ‘scrittura con la luce’ – è, non solo moderna conquista caratterizzata da innumerevoli interferenze con le più rilevanti trasformazioni del mondo abitato e della nostra mentalità, ma anche espressione carica di soggettive interpretazioni; è, anzi, divenuta persino occasione d’arte nelle mani di fotografi ormai celebri, passando attraverso collettivi mutamenti di gusto.
Il percorso della sua legittimazione artistica e culturale ha avuto una tappa fondamentale nel campo dell’architettura, segnalano gli storici, nella rappresentazione dell’inedito tipo architettonico del grattacielo e in scatti che hanno reso il secolo XX eminentemente americano e la città New York il suo l’emblema urbano, meritevole ovunque di imitazione fino ad oggi.
Il vasto museo dell’immaginario, che la fotografia ha messo a disposizione di tutti nel corso di ormai quasi due secoli, con specifica utilità per architetti, ingegneri e storici d’architettura, risponde tuttora, in duttile convergenza con la parola, a esigenze di ricerca, invenzione, documentazione, comunicazione. Sono acquisti consolidati, inoltre, sia una ormai lunga storia della fotografia per l’architettura, sia il potenziale valore di bene culturale del singolo scatto fotografico, sia l’importanza di archivi privati e pubblici, che ne custodiscono raccolte, per temi o produttori, ai fini dell’incremento delle conoscenze, anche di quelle delle nuove generazioni. La fotografia è in effetti una delle più importanti invenzioni del XIX secolo, divenuta rapidamente strumento primario di comunicazione. L’affinamento delle tecniche fotografiche, tradizionali e digitali, l’hanno resa possibilità per tutti e componente fondamentale di quella che chiamiamo civiltà dell’immagine, caratterizzata da propri metodi di indagine, produzione, comunicazione, mercato.
In Italia l’interesse per l’universo fotografico è molto sviluppato, sia tra artisti fotografi sia tra cultori specializzati nei diversi contesti d’arte e d’architettura sia nelle istituzioni pubbliche attente anche a tutela e restauro. Basti qui il rapido richiamo alla gloriosa e notissima produzione Alinari, ai molti fotografi italiani ormai celebri come Ghirri, Basilico, Colombo, Chiaramonte, e molti altri, all’attività dell’Archivio della fotografia storica, gestito nell’ambito dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) e alle molte iniziative di associazioni e centri privati.
L’Italia è ricca anche di archivi privati di architetti, che conservano fondi di fotografie relativi a progetti, a studi su aree geografiche di loro interesse; molti sono anche gli quelli privati di fotografi con fondi prodotti da loro per architetti di fama. É nazione ricca anche di archivi pubblici con importanti fondi fotografici che, pur non portando firme autorevoli, per qualità intrinseche o per ragioni storiche risultano di grande valore documentario, fonti quindi preziose per studi storici.
Ho di recente, col collega Ferdinando Zanzottera, curato il libro Fotografia per l’architettura del XX secolo in Italia. Costruzione della storia, progetto, cantiere, esito di un convegno internazionale organizzato dal Politecnico di Milano e da Regione Lombardia, nel quale 61 autori in 54 saggi concentrano l’attenzione su scatti fotografici degli edifici e dei loro cantieri, nel patrimonio italiano custodito in raccolte e archivi pubblici, soprattutto milanesi e lombardi.
Vi emerge, nitido e multiforme in casi e momenti esemplari, il profilo del dinamico dialogo, tra realtà e immagine e tra immagine e parola, che inquieta la contemporaneità che Walter Benjamin ha chiamato ‘epoca della riproducibilità tecnica’ (Kleine Geschichte der Photographie, 1931; L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936), come momento della storia umana caratterizzato dall’invenzione di mezzi tecnici che consentono rapida, perfetta e veloce perché industrializzata, moltiplicazione di oggetti e di immagini, di ‘cose’ materiali e immateriali.

Chi oggi progetta architettura o partecipa al governo della città, orientandone le trasformazioni fisiche, si trova davvero imbrigliato nella tensione tra immagine e parola da una parte, e realtà di fatto e sue immagini dall’altra, quasi fosse difficile se non impossibile catturare la concretezza di un vissuto, di un abitare da parte di cittadini ‘in carne ed ossa’, da incrementare positivamente valorizzandolo.
Si tratta di una tensione non solo sua, ma di ognuno di noi abitanti in un luogo particolare, protetti da un’architettura che è la nostra dimora. Ne avvertiamo la durezza, siamo talvolta tentati di chiuderci in un isolamento che ci difende dai rapporti di vicinato, purtroppo però rendendoci anche più aridi.
Questa drammaticità s’inscrive, da una parte, in quel gioco tra parola e immagine, che è sostrato culturale previo alla costituzione di ogni possibile contesto comunitario, dall’altra in quella divaricazione tra unicità di esperienza, di vita vissuta in un luogo particolare, e rapida moltiplicazione delle immagini, che rendono fantasmagorica ogni realtà, anche quella del luogo in cui viviamo.

Appare oggi problematica una linearità di rapporto tra realtà di luoghi, da una parte, e parole e immagini che tendono a catturarli, dall’altra. Mentre abbiamo a disposizione strumenti di facile riproduzione delle nostre immagini e percezioni del contesto in cui viviamo, e mentre abitiamo luoghi che incidono profondamente nella nostra vita, le nostre parole per collegare le prime ai secondi appaiono incerte, persino deboli. Emerge una strana specie di afasia, di impossibilità a comunicare.

Da dove viene questa difficoltà nello stabilire un ponte tra vita e immaginario? Cosa ci sta accadendo? Di cosa siamo alla ricerca? Dove trovare le coordinate per pensare alla vita comune, a quella sintesi di urbs e civitas che è radice del nostro Occidente e della sua varia e multiforme energia progettuale?

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