Breve storia della devozione nel XX secolo


«La devozione non è tutto…la devozione ha termine»: così diceva il parroco durante la omelia, la mattina della domenica 29 giugno 2025. Parlava dal Santuario di San Pietro, sullo Ionio, e sapeva di essere all’inizio di una lunga giornata di “devozioni”, con triduo di preparazione, banda, processione, e botti finali. Faceva eco, in qualche modo, ad una coscienza nata da circa due secoli. Questo è un aspetto importante per comprendere ciò che Salmeri, Busti, Carra, Del Giudice e Perroni hanno scritto negli ultimi giorni su diversi blog, discutendo sulla canonizzazione di Carlo Acutis.

In effetti, la liturgia, in senso tardo moderno, è nata con una solenne presa di distanza non dalla “devozione”, ma dalla comprensione giuridico-morale della devozione. Tale comprensione ha avuto, evidentemente, una storia. In questa storia possiamo riconoscere due punti-chiave:

  • da un lato la categoria di “devotio” appare subordinata alla categoria di “religio” e la “religio” alla “iustitia”. Devozione è, fondamentalmente, un dovere.

  • dall’altro, nell’ambito di questa categoria di religio, la “devotio” riguarda la interiorità e non la esteriorità, anche se si traduce in devozioni tutte esteriori.

Di fronte a questo sviluppo, che inizia dalla scolastica, e che si struttura come una cultura e una “morale religiosa”, la ripresa della liturgia (come non solo esteriore) è quasi condannata a “contrapporsi” alla devotio. Si contrappone alla categoria storica di “devotio” perché deve infrangere il sistema automatico di opposizioni tra interiorità/esteriorità, ma cerca, in realtà, non di abolirla, ma di riformularla. Potremmo dire che il ML si presenta come il tentativo di riformulare la “conoscenza religiosa”, di recuperare una “devozione simbolica”, riscoprendo la unità di quella scissione, che era stata favorita dalla divisione scolastica tra “atti di culto interiore” e “atti di culto esteriore”.

Le tracce di una evoluzione complessa

La “devotio moderna” è stato un fenomeno spirituale in anticipo sui tempi. Nel XIV secolo inaugura uno stile spirituale – devoto, appunto – che in un certo senso rimane all’interno delle categorie medievali. Potremmo quasi dire che la “devotio moderna” è costituita da un modo di utilizzare diversamente le categorie medievali, che tuttavia non le sottopone a profondo ripensamento. In particolare accentua, in modo profetico, la tendenza che poi dilagherà dal XVI secolo in poi, a contrapporre interiore a esteriore, individuale e comunitario. Questo fenomeno caratterizzerà la “devotio” della modernità, fino al XX secolo e poi fino ad oggi. Per questo la “devotio moderna” non si indentifica affatto con la “devotio della modernità”.

Anche il ML, in un primo momento, ha utilizzato in modo capovolto le categorie medievali, ma ne è rimasto anche vittima. Di fronte alla accezione moderna di devotio, ha contestato la devotio, rifugiandosi “altrove”, nel recupero di testi, di pratiche, di “celebrazioni”. Ma quando ha compreso – anzitutto con Festugière, Guardini e Casel – che cosa era in gioco, ha dovuto predisporre “nuove categorie” per interpretare il rapporto tra azione rituale, sentire religioso e compito del soggetto. A questo aspetto, tuttavia, ha dedicato una attenzione solo iniziale, che poi è rimasta assai marginale.

La “devotio” come lato affettivo della fede

Oggi, a distanza di più di un secolo da quei primi tentativi – teorici e pratici – di ripensamento delle “forme del rapporto tra uomo e Dio”, abbiamo chiaro che, per dar forza al grande slancio che la Chiesa ha trovato nella propria tradizione liturgica, non dobbiamo contrapporre, ma riconciliare. Questa è la “vera pacificazione” di cui la liturgia ha bisogno. Non dei pasticci tra diversi regimi e forme rituali, non delle ipocrisie dei piedi in due scarpe, non delle commistioni tra ordinario e straordinario. Come dice Kierkegaard: “Dio è colui per il quale lo straordinario non esiste”.

Ci chiediamo allora: che cosa vuol fare della “liturgia” il Movimento Liturgico? La domanda è meno scontata di quello che sembra. Il ML sembra nascere da una domanda di “spiritualità”, ossia da una revisione profonda e drammatica, del rapporto tra “forme comuni della vita civile” e “convinzioni della coscienza”.

Siamo sulla soglia del passaggio più delicato e più interessante. La categoria di “devozione” ha subìto una grande trasformazione. Proviamo a seguirne alcuni passaggi.

a) la devotio è il “lato interiore” della religio intesa come virtus?

Non dovremmo oggi essere costretti a negare che la devozione (e la religione) non siano anche una virtù. Anzi, questo è uno dei versanti più sorprendenti della nostra condizione attuale. Il primo punto sistematico che dovremmo rielaborare è il peso che questa “qualità morale” della religio/devotio ha esercitato nella tradizione tardo-moderna. Una buona parte delle “rivolte contro il rubricismo” non sono altro che – trasposte sul piano esteriore – le medesime critiche che diamo per scontate nei confronti del versante interiore della devozione. In effetti, il rubricismo è, all’esterno, ciò che è la devozione, all’interno. Un prendersi cura del rapporto con Dio in forma di “esercizio della volontà”. Un tale approccio ha come effetto, almeno nel mondo tardo-moderno europeo e nord-americano – una problematica marginalizzazione dei sensi e delle emozioni e un irrigidimento del rapporto con la tradizione. Tale irrigidimento, concentrandosi sul versante “disciplinare” perde sia la sporgenza teologica, sia la radicazione emotiva della virtù. Ma questo avviene non perché la teoria fosse in sé carente, ma perché non è più supportata da un “mondo” coerente con la propria lettura. La impostazione medioevale/moderna entra in crisi quando la religio/devotio non può essere compresa solo come una articolazione della “virtù di giustizia”. L’autonomia secolare della “giustizia” – che si sviluppa da fine 1700 in poi – manda in crisi quel modello teorico di comprensione. Ne vediamo gli effetti anche nella penitenza e nelle indulgenze.

b) La trasformazione della “religio”

In alcuni testi dei primi de 900 troviamo traccia di questo disagio. Nel Dictionnaire de spiritualité, se leggiamo le voci sul tema “religione”, ma anche nella Brevior Synopsis del Tanquerey troviamo attestate le tracce di questa evoluzione del concetto di religio e di devotio. Accanto ad approcci classici (che diventano apologetici a volte contro le proprie intenzioni) si manifestano nuove letture, nuove aperture, nuove comprensioni. La nozione tardo-moderna di religione, risentendo inevitabilmente del dibattito scaturito dal liberalismo protestante e dal modernismo/antimodernismo cattolico, pur con tutte le prese di distanza dalle molteplici possibili derive, acquisisce un dato fondamentale. Religio e devotio non sono soltanto una elaborazione della volontà (come dovere di rapporto e di dedizione a Dio), ma sono “esperienze”, “emozioni”, “passioni” di questo rapporto.

Possiamo notare questa “rielaborazione” se confrontiamo il “trattato delle virtù” della STh di S. Tommaso con la Brevior Synopsis Theologiae Moralis del Tanquerey. In Tommaso la religio è collocata come la prima delle virtù annesse alla giustizia. Al suo interno “devotio” e “oratio” sono il versante interiore della religio. Invece nel Tanquerey la religio acquisisce un primato all’interno delle virtù cardinali. Si colloca dopo le virtù teologali e prima delle virtù cardinali. Si “disloca” per assumere nuova evidenza.

Questa “ridefinizione” a livello sistematico ha le sue buone ragioni. Da un lato emancipa la lettura della “religio/devotio” dalla subordinazione alle logiche “troppo umane” della virtù cardinale della giustizia. Dall’altro, e coerentemente, lascia maggiore spazio ad una lettura “teologale” della religio. Tuttavia, bisogna riconoscerlo, nella rilettura recente, a partire dal XIX secolo, la “religio/devotio” costituisce un accesso generale alla esperienza di “fede/speranza/carità”. Essa esercita tale funzione “propedeutica”, si faccia attenzione, recuperando un livello “più elementare” della esperienza. Rispetto quindi ad una collocazione della “religio/devotio” in una posizione “mediana” (ossia tra le tre teologali e le 4 cardinali, come proposta dal Tanqueray) la nuova posizione – che risulta ad esempio in Sequeri, in Bonaccorso e in altri autori – è di sovraordinare religio/devotio all’intero impianto delle virtù, quasi come una forma di “accesso religioso” alla logica dell’intero impianto teologico e morale.

In questa “mossa sistematica” appare rilevante un duplice guadagno:

  • il recupero di una connessione originaria tra culto spirituale e culto rituale
  • il recupero di una sfera originaria del religioso che è “emozione, passione, senso”, timore e tremore, senso e gusto dell’infinito, archeologia del soggetto.

c) La nuova condizione della “devozione” nel contesto tardo-moderno

Come abbiamo visto, in contesto secolarizzato – e, potremmo dire, “post-tradizionale” – “religio” e “devotio” non possono restare soltanto “virtù”. Hanno bisogno di “espandersi” tanto verso l’alto quanto verso il basso. Lo sviluppo “post-tradizionale” è, quindi, un ampliamento della nozione di “religione/devozione”, ricomprendendo in essa sia il “plusvalore teologico”, sia il “plusvalore antropologico”. Da un lato lo sfondo teologico storico-salvifico, narrativo, simbolico; dall’altro lo sfondo antropologico, involontario, intuitivo, per connaturalitatem, con cui si riunifica il “cognitivo”, l’”attivo” e l’”emotivo”. Una lettura solo “veritativa” o solo “disciplinare” della religio/devotio è del tutto incapace di cogliere la sfida più profonda, cui il ML ha cercato di rispondere. La ricomprensione “unitaria” della esperienza cristiana (Cfr. ad es. ciò che scrive G. Bonaccorso, nel suo Il corpo di Dio, Assisi, 2013) mette alla prova le categorie classiche. Ma non semplicemente per superarle o per rimuoverle, ma per riconsiderarle in un contesto più complesso. Ne deriva quasi un paradosso, sul quale vorrei che ci si soffermasse a riflettere: ho detto che in un contesto secolarizzato la “devotio” non può restare soltanto una virtù. Ma è altrettanto vero che in un contesto secolarizzato, la religio/devotio deve poter restare anche una virtù. Per questo non si può abbandonare ad una pretesa autoevidenza, in qualche modo indiscutibile. In questo io vedo il possibile slittamento della devozione in ideologia. Senza un dialogo profondo con la teologia, la devozione si isola e si contrappone. L’eucaristia, in modo particolare, chiede un rapporto con la devozione mediata dal desiderio desideravi verso la celebrazione pasquale. Questo desiderio non può ridursi ad atto individuale ed isolato, magari pretendendo di sostituire la esperienza del miracolo eucaristico alla dottrina sulla eucaristia. Qui è proprio la devozione a dover essere educata, anzitutto negli adulti.

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