Alla scoperta di Amoris Laetitia (/9): Il profeta Spaemann. La oggettività come “spazio da occupare” e il tempo come “storia da negare”.
Leggendo le recenti “esternazioni scomposte” del prof. R. Spaemann si fa una certa fatica a pensare che chi parla sia un filosofo. Spaemann è talmente accecato dal cambiamento di stile e di approccio che trova in AL, che si ribella, lo chiama rottura, cerca di squalificarlo, di ingiuriarlo, di svergognarlo, pur di non ammetterlo non dico come reale, ma almeno come possibile.
Nel farlo usa i concetti in modo rozzo, greve, sgraziato. Vorrei mostrare dove stanno le sue principali “magagne”. A questo scopo è sufficiente leggere l’inizio dell’articolo su “il Foglio” di ieri, col titolo Spaemann ad alzo zero contro il Papa: “Porta la chiesa allo scisma”:
“Mi è difficile capire cosa il Papa intenda quando dice che nessuno può essere condannato per sempre. Che la chiesa non possa condannare nessuno, neppure eternamente – cosa che, grazie a Dio, non può neanche fare – è qualcosa di chiaro. Però, se si tratta di relazioni sessuali che contraddicono in modo oggettivo l’ordinamento di vita cristiano, vorrei davvero sapere dal Papa dopo quanto tempo e in quali circostanze una condotta oggettivamente peccaminosa diventi gradita a Dio”.
Di fronte a questa frase non ci si dovrebbe meravigliare se a pronunciarla fosse stato un semplice cristiano o un parroco, o anche un Vescovo, magari anche un Cardinale, se non troppo qualificati teologicamente, ma soprattutto non troppo forti sul piano filosofico. Ma un filosofo tanto rinomato e forse anche un poco “gasato” come Spaemann, non si riesce proprio a figurarselo nell’usare in modo tanto ingenuo il concetto di “modo oggettivo” e di “quantità di tempo”. Per Spaemann, che sembra digiuno digiuno della tradizione filosofica non solo dell’ultimo secolo, tra “essere” e “tempo” non vi può essere rapporto. Se la cosa è in un certo modo “oggettivo”, il tempo non può farci nulla. Può solo tenersela così come è.
Qui si sta parlando di “relazioni sessuali” che “contraddicono in modo oggettivo” l’ordinamento di vita cristiano. Il sofisma è presto costruito: se la relazione è oggettivamente peccaminosa, il peccato può cessare solo se cessa la relazione. E allora anche Spaemann, che pure sarebbe uomo di pensiero, preferisce “oggettivare” le vite, le esperienze, le storie, e ridurre al nulla ogni discernimento, ogni accompagnamento, ogni integrazione. Di che cosa parla il papa? Nulla è possibile, e non lo è ontologicamente!
Spaemann resta prigioniero, con il suo piccolo pensiero, di un “non-pensiero”. Il “non-pensiero”, che ha attraversato da un secolo la nostra Chiesa cattolica, si è nascosto di fronte alla realtà che cambiava e si è rifugiato in questa “ontologia statica, senza alcun divenire”. L’essere è, il non essere non è. Applicato alla “famiglia cristiana” questo sofisma funziona così. Se la relazione è oggettivamente peccaminosa, ed è appunto una “nuova e seconda relazione”, le vie possono essere solo due. O questa relazione diventa un “non essere”, perde oggettività, e la persona si salva. E per ottenere questo “non essere” può bastare un “non rapporto nel rapporto”, ossia che nella “seconda unione” ci sia tutto tranne il sesso. Oppure, per salvarsi, il soggetto deve fare in modo che la “prima relazione” perda oggettività. La via principe di questa “ontologia negativa” è, da secoli, la “dichiarazione di nullità del vincolo”. Nel caso in cui la “prima relazione” non sia mai esistita – non sia mai stata un vero “oggetto” – la nuova relazione diventa allora oggettivamente valida perché non è più seconda, ma prima, non più in contraddizione oggettiva con la norma, e i soggetti si salvano.
Questa era per la Chiesa cattolica l’unico rimedio “oggettivo”, fino ad AL. Solo un filosofo con la testa tra le nuvole può pensare che questo modo di pensare “oggettivante” abbia qualche rapporto con la realtà. In realtà è un sofisma ontologico, che è entrato nella mentalità di molti giuristi e di non pochi dogmatici e che si è diffuso a macchia d’olio in molti ambiti pastorali, morali, spirituali. Ma essendo una forzatura ontologica della realtà, determina a cascata ipocrisie, finzioni, mistificazioni, retrodatazioni, sparizioni, equivoci. Di per sé l’istituto della “nullità” ha tutta la sua dignità, soprattutto circa le “cose”. Ma nella tradizione cattolica recente, dal Codice del 1917, abbiamo molto incentivato una tendenza a comprendere il matrimonio nella categoria “de rebus”. Solo la “oggettivazione” sembra tranquillizzare, anche in una società ad alta differenziazione, anche nel trionfo dell’amore come “passione”. Ma più che tranquillizzare, narcotizza, addormenta, rimuove, mistifica. Ciò, evidentemente, esercita un fascino anche sui filosofi disposti a non andare troppo per il sottile. E a parlare di “oggettività” senza minimamente problematizzare una delle parole più problematiche degli ultimi 300 anni!
Ma Spaemann ritiene di condurre la propria buona battaglia pensando di contrapporre alla dura oggettività della “irregolarità” la impotenza del tempo. E si chiede, ironicamente: vorrà dirci di grazia sua Santità dopo quanto tempo potremo chiamare bene il male? Quasi come un profeta, Spaemann sferza il Gran Sacerdote e chiede una risposta.
Peccato che i ruoli qui siano semplicemente capovolti. Siamo in un tempo nel quale professori anziani, con amicizie altolocate, si sentono toccati nella loro pretesa sommosacerdotale se un papa esercita profeticamente la sua buona autorità. E’ l’autorità di chi non può più tollerare che un “sistema” di avviti su se stesso e pensi di poter tutto ridurre – ex autoritate – alla propria idea. Oggettivo diventa così spesso sinonimo di autoreferenziale. Ascoltiamo la profezia che risuona in Evangelii Gaudium:
“Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi” (223).
Nel riconoscimento del primato della realtà sulla idea, e nella affermazione del primato del tempo sullo spazio, Francesco si è smarcato definitivamente dal “catenaccio” di questi uomini paurosi, che vendono la loro “razionalità” per il piatto di lenticchie di una società bloccata, chiusa, che non inizia nuovi processi, ma che giustifica i muri. Nella Chiesa e tra gli Stati. Non a caso lo stesso Spaemann, di nuovo con le vesti del profeta – ma sempre e solo di sventura – aveva detto nei mesi scorsi, di fronte ai rifugiati che arrivano in Germania: “Non dobbiamo per forza convivere”: non capisco se mi ricordi più Geremia o Isaia!
E’ sufficiente questo inizio per capire tutto: il resto è solo un disastro. Ma è anzitutto un disastro filosofico. Mancano qui le categorie elementari per entrare in rapporto con la realtà: le famiglie allargate e i rifugiati, se giudicati in contumacia – come fa Spaemann, che li considera adulteri e clandestini – generano solo mostri. Le vere questioni hanno bisogno di ben altre categorie. Una filosofia che fa di tutto per immunizzarsi dalla realtà è una “ancella” che alla “padrona” Teologia risulta inutile, se non dannosa.
 































 Area personale
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Mi scusi Grillo, le sue “impietose” osservazioni su Spaemann – studioso indubbiamente autorevole – dovrebbero trarre spunto da quanto più dettagliatamente pubblicato da Magister, o meglio ancora dal testo originale “dell’intervista” da Lui citata piuttosto che dalla estrapolazione fattane dal Foglio. Non Le pare?
Magari anche senza preconcetti di metodo e di merito … e di “partito”.
Del resto tanti cardinali e vescovi e fior fior di teologi hanno espresso letture molto diverse dell’A. L. in totale contraddizione… tra di loro.
E’ un’ovvietà incontrovertibile che ognuno di noi trovi spesso opinabili le altrui considerazioni.
Cordialità.
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/04/28/spaemann-e-il-caos-eretto-a-principio-con-un-tratto-di-penna/
Io ho citato una frase di Spaemann. Basta e avanza. Un filosofo ha il dono della sintesi. In quella fease sta tutta la sua paura. Continuare sarebbe stato infierire inutilmente.
[…] Pubblicato il 1 maggio 2016 nel blog: Come se non […]
Sì, un filosofo ha il dono della sintesi. Lei è la sintesi vivente che lo scisma è in atto e che la rottura c’è stata. Ed è anche la prova di quanto il Cattoprogressismo sia intriso di presunzione e inconsistenza filosofica. Invece di stare all’ombra dei frati (o di quel che ne resta), provi a cimentarsi con un’università laica e degna di questo nome. Spaemann l’ha fatto per una vita.
Nessuna rottura, ma traduzione ed evoluzione. Qui non ci sono ombre di frati, ma compagnie e competenze di monaci. A Spaemann il confronto con la università laica non sembra aver fatto molto bene. La pazienza del confronto non sembra il suo forte. Ma coraggio.
Una prima osservazione di metodo. Quando qualcuno non la pensa come lei, invece di entrare negli argomenti (“basta una frase!”), lei attacca la persona, dandogli più o meno dell’ignorante (se è un cardinale) o accusandolo di essere un “barone” fuori della realtà (cioè di un sentire diffuso -e tutto da discernere- che lei condivide) nel caso che la prima accusa non sia molto credibile, sicuro di poterlo fare grazie alle sue numerose lauree e pubblicazioni. Se questo è lo stile della Chiesa dialogante/sinodale che lei si augura, che Dio ce ne scampi. E comunque dubito fortemente che renda più convincente quel che lei dice, se mai indispone l’interlocutore e non solo lui: e non necessariamente solo gli “anziani con amicizie altolocate” (ma a lei interessa davvero avere interlocutori che non la pensano come lei?). Quanto alla “realtà”, e a quella della famiglia in particolare, c’è chi, semplice cristiano e professionista, ma credente, la vive dal di dentro e la pensa in modo tutto diverso dal suo, con amore alla Chiesa reale e storica, e non a quella “da immaginare”. Le segnalerei “Lettere a un figlio sull’educazione” di Giovanni Donna d’Oldenico (2015) se non fosse troppo al di sotto dei suoi standard accademici per essere preso in considerazione.
Una seconda: mi pare difficile attribuire ciò che dice Spaemann, a parte lo stile esarcerbato di cui comunque non mi pare abbia l’esclusiva, a un non-pensiero che imperversa da 100 anni nella chiesa cattolica (cioè il neotomismo antimodernista?). Nell’intervista il filosofo fa un richiamo che mi sembra pertinente alla morale gesuitica del XVII secolo, su cui anche un certo Pascal aveva qualcosa da ridire: e prima e dopo di lui avrebbe avuto e ha avuto da ridire tutta la tradizione agostiniana, e non solo agostiniana, e molti santi e dottori (della Chiesa, non Dr. Dr. Dr. H.C. alla tedesca) e Padri, e naturalmente anche il magistero degli ultimi due papi (per tacere dei precedenti).
Una terza: è un dato di fatto che anche per la sua scrittura caotica e il materiale assolutamente disparato che accumula l’Esortazione si presta a letture divergenti e parziali, molto determinate dai personali desiderata in materia, da cosa uno vi cerca dentro. Ma se questo fosse voluto, c’è da rallegrarsene? E se non lo è, forse c’è da continuare a obbedire e da preoccuparsi un po’.
Mi pare evidente che lei deve aver letto un testo diverso da quello qui sopra. Io non parlo della persona, ma del fatto che un filosofo che usa solo argomenti d’autorità ha cambiato mestiere, ha rinnegato se stesso, ma non per prendere la croce, ma per lanciarla, sulle spalle del papa! Non è mia abitudine aggredire le persone, ma analizzare gli argomenti e smascherare quelli falsi, Lei tende a proiettare sui suoi interlocutori le sue inclinazioni. Mi pare che poi lei tenti una difesa d’ufficio del testo inconsistente di Spaemann, ma senza alcun successo. Infine, il giudizio sul “testo caotico” fa parte dei luoghi comuni di chi vuole fuggire la realtà: non si capisce…certo, se lei mantiene la forma mentis rigida, da antimodernista ad oltranza, il papa è confuso e divaga. Se accetta la meravigliosa complicazione delle cose, allora può iniziare ad ascoltare e forse anche ad imparare qualcosa.
Senza argomenti Spaemann accusa pesantemente il papa di “scisma” e io che uso argomenti per smontare l’accusa sarei colpevole di lesa maestà verso Spaemann? Dove ha imparato a ragionare? In un tribunale politico?
Se lei e Spaemann siete privi di argomenti, cercatene di migliori e non fate le vittime delle vostre stesse violenze verbali.
Signor Grillo, è veramente buffo che lei accusi Spaemann di essere un sofista: è difficile immaginare una domanda più diretta e semplice di quella espressa da Spaemann e da lei citata, come è difficile trovare un esempio di “argomentazione” più sprezzante e, appunto, sofistica della sua.
Lei, per illustrare la pretesa incongruità di una domanda che risulta chiara e fondata a tutti noi normali essere pensanti (filosofi inclusi, con sua buona pace), mette in dubbio il principio di non contraddizione che, secondo il suo parere, dovrebbe essere sostituito da più “evoluti” modi di pensare, e più evoluti nel senso che rispetterebbero maggiormente la struttura del reale nel suo rapporto col tempo (suppongo si possa dire così).
Sfortunamente, che la sua ontologia sia più aderente al reale di quella classica resta una sua affermazione a cui nessuno è tenuto a sottomettersi, se non chi si lascia impressionare dalle pretese di superiore modernità (!) che lei avanza.
Nè, spiace dirlo, la sua “argomentazione” risulta cogente in alcun modo, se non retorico. In particolare, lei non ha risposto – guarda un po’! – alla domanda di Spaemann: nella sua “ontologia non statica” come succede che quello che è adulterio diventa un’unione legittima? Basta passare nel nuvolone indistinto dei “processi” e delle “complessità”, per trasformare il bianco in nero? Oppure non era adulterio? Oppure la volontà di Dio deve coincidere con la scelta dell’individuo, santificato dal percorso storico compiuto? Forse che, diluito nel tempo, il peccato non ha mai modo di concretizzarsi veramente, perchè subito assorbito nel processo (hegeliano) della sua reinterpretazione in chiave di misericordia che muta il bene in male, ma su un piano superiore? Oppure ancora, “la vita va avanti”, come direbbe la mia portinaia?
Posso applicare questa logica agli altri comandamenti?
“Ho rubato, mi spiace, ma è così duro resituire il maltolto – rischio anche di danneggiare il legittimo benessere della mia famiglia, introducendo un nuovo peccato! Giammai! Fra un po’, nel corso del meraviglioso e complesso processo temporale, quanto possiedo illegitimamente (anzi, scusate, “in modo irregolare”), diverrrà ‘la via che il Signore ha scelto per me’, magari! Magari, ma nel foro della mia coscienza… chissà! Ma poi ho usato bene quanto ricavato! Dio è misericordioso! E se rubo ancora?… le vie del Signore sono infinite e chi siamo noi per giudicare…”
Passando oltre, le faccio notare che è tranquillamente falso quanto lei afferma nel passo che parrebbe voler essere argomentativo del suo articolo: “Spaemann, …, preferisce “oggettivare” le vite, le esperienze, le storie, e ridurre al nulla (!) ogni (!) discernimento, ogni (!) accompagnamento, ogni (!) integrazione.” Secondo lei fino ad ora – in questi 2000 anni di duro oscurantismo staticista – non è esistito discernimento, accompagnamento, e integrazione? Strano, mi sembra invece che la storia della Chiesa sia costituita essenzialmnte da questo discernimento, accompagnamento e integrazione; solo che tutto ciò mira, nella pazienza per la fatica e per le cadute e nelle grandi amicizie nate in questo “processo”, a un cambiamento effettivo nella propria vita (si chiama: conversione), prendendo sul serio la verità del peccato e della misericordia che da esso ci libera; questo oggi alcuni non vogliono più fare, anzi: non vogliono che sia più fatto.
Spiace affliggerla con la mia arretratezza, ma francamente a leggere il Vangelo (per non parlare dell’insegnamento della Chiesa in proposito) quanto detto da Gesù Cristo sul matrimonio è molto chiaro e non va certo nel senso della logica né soprattutto delle conclusioni da lei preferite; né per altro nel senso di un ideale proposto come orizzonte dei nostri “processi” – cosa che, per altro, Gesù avrebbe potuto facilmente esprimere usando parole e toni diversi: forse lo Spirito Santo era distratto il giorno che sono stati scritte quelle pagine di Vangelo? Per inciso, come mai le parole di Gesù Cristo non vengono mai citate nell’esortazione, secondo lei? Dimenticanza?
Tutto il suo discorso risulta più una serie di mosse fuorvianti, nelle cui spire lei si diletta di avvolgersi, per poi dimenticarsi lungo la via della sostanza del discorso; ma il tutto risulta francamente disperato, perchè non riesce realmente a trovare una risposta chiara ad una domanda chiara, se non cambiando il significato dei termini del discorso. Appunto, l’essenza della sofistica: “cambi il mondo, io non devo aver torto”!
Mi auguro di non essere censurato, grazie.
I miei saluti
Un sofisma per difendere una posizione indifendibile, come quella di Spaemann. La ringrazio per aver confermato la mia confutazione. Comunque apprezzo i tentativi di argomentare, anche quando non ne condivido né presupposti né conclusioni. Se lei chiama “nuvolone indistinto” la vita, non ha alcuna possibilità di comprendere la realtà. Si associa a Spaemann in un irrigidimento cieco. Ma non dispero che anche per lei la realtà. prima o poi, bussi alla porta.