Discussione e comunione: una risposta a P. Francesco Maceri
Dopo il mio post nel quale mettevo a confronto Mons. Vesco e P. Maceri, quest’ultimo ha risposto sul blog del Regno (http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/03/con-cristo-dalle-periferie-alluscita-in.html). Ora qui replico alla sua risposta.
La parabola dei due fratelli divorziati
Una risposta a padre Francesco Maceri
Caro padre Francesco,
Ma che cosa vuole che conti, nella disputa che oggi è aperta nella Chiesa, il giudizio che ho dato sul suo contributo apparso sul Blog del Regno? Le pare che sia più importante quello che io penso di lei rispetto a quello che lei pensa dei divorziati risposati? Lei si sente offeso per quello che io ho detto per difendere i divorziati risposati dal suo giudizio ingiusto e loro non dovrebbero essere degni di una parola di difesa per la scarsa considerazione in cui lei li tiene? Io mi preoccupo, ormai da tempo, di contrastare apertamente e senza giri di parole le forme autoreferenziali e clericali di pensiero teologico. Esse non offrono chiarimenti e non salvano i fenomeni, cosa che, invece, i teologi dovrebbero sembra cercare come una priorità. È inutile dire, come fa lei, di voler approfondire e far avanzare la riflessione, se ci si blocca su impostazioni infruttuose e meramente apologetiche. La realtà del matrimonio non si lascia addomesticare da un approccio rigido e dogmatico, che produce solo incomprensione e ingiustizia. Lei afferma di voler scavare, indagare, andare in profondità, ma non dice nulla che non sia già stato detto e su cui le perplessità generali non siano da tempo note. Il problema non si risolve restando immobili e sospettando di chiunque faccia un solo passo. Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato ben altro stile e non serve a nulla citare con insistenza i suoi documenti se poi ci si comporta come se quel Concilio non ci fosse mai stato.
Ma questo, vede, non mi impedisce di credere che tra noi vi sia una fondamentale comunione. Lei si sente ferito e pensa che, discutendo, si attenti alla comunione, ma io sento molto più feriti i divorziati risposati dal suo ragionamento astratto, di quanto non sia stato lei dal mio. Non penso affatto che questo impedisca la comunione tra loro, lei e me. Discutendo con lei, anche animatamente, sono convinto che sia possibile creare una comunione maggiore. Lei invece sembra risentito e non nutre speranza che possa esserci comunione con e per i divorziati risposati.
Allora voglio raccontarle una storia, che servirà a chiarire alcune cose.
Un uomo aveva due figli. Il maggiore si sposò, e rimase con la moglie presso il padre. Il secondo si sposò e andò a stare lontano con la sua sposa. Dopo qualche tempo il primo figlio fu abbandonato dalla moglie e restò solo. Ma rimase presso il padre, permanendo fedele alla moglie e mantenendo la parola data, ad ogni costo. Anche il secondo figlio, qualche tempo dopo, entrò in crisi e fu abbandonato dalla moglie. Dopo lungo travaglio, conobbe un’altra donna, si legò a lei e infine la sposò. Quando tornò dal padre, lo trovò ad accoglierlo a braccia aperte.
Rimase stupito e si lasciò accompagnare in casa, a far festa per la nuova sposa, con gli auguri di prosperità. Il fratello maggiore, tuttavia, prese il padre da parte, dicendogli: “anche io sono stato abbandonato, ma tu per me, che resto fedele, non fai nessuna festa. Invece ti rallegri e canti per questo mio fratello, che si è risposato, tradendo la sua parola”.
Il padre prese il figlio per il braccio e gli disse: “Figlio mio, io ammiro molto la tua scelta, che è frutto di sapienza e di rispetto. Ma non posso biasimare tuo fratello: non è bene, infatti, che l’uomo stia solo. Per lui vale una scelta diversa dalla tua. Lui non deve protestare per la tua scelta. Ma tu non protestare per la sua. La comunione è anche questo: una diversa via verso il bene”.
Caro P. Francesco,
io non vorrei mai che lei disperasse della comunione, tra i due fratelli divorziati e tra di noi. A me pare che la sua protesta in difesa dei “divorziati non risposati” e di coloro che “non usano del secondo matrimonio” sia del tutto fuori luogo. Non perché non si tratti di scelte legittime e alte, ma perché esse perdono ogni valore se pretendono di essere “le uniche giuste”.
Se uno digiuna, fa un atto edificante. Ma se mentre digiuna maledice chi mangia, allora digiuna per la propria condanna. Fare i supporters dei fratelli maggiori non è il massimo per i teologi, in nessun caso.
La durezza della mia reazione non è contro di lei, mi creda, ma contro quell’atteggiamento ecclesiale che non è più capace di riconoscere quanto il clericalismo risulti autoreferenziale e violento. Faccio mie le parole di Francesco – che lei cita sempre solo quando è innocuo e fuori contesto – : “ogni volta che incontro un clericale, divento anticlericale”.
Ciò che Mons. Vesco ha detto con profondità e con semplicità è che si sente “offeso” da quel giudizio della Chiesa sui divorziati risposati che lei sembra soltanto capace di lodare. Su questo io mi meraviglio e mi indigno. La sua teoria della indissolubilità mi sembra una forma di quella violenza di cui è capace il giudizio clericale. Combatto con tutta la forza di cui sono capace questo grave errore di approccio e di prospettiva, ma non dispero affatto di essere in comunione con l’errante. Se lei non giudicherà con tanta superficialità i divorziati risposati stia tranquillo che non sentirà più su di sé questa “sentenza”. Ma se continuerà a farlo, non potrà pretendere che gli altri restino zitti ad ascoltarla. Questo accade, ancora una volta, solo in contesti autoreferenziali e clericali, dai quali forse è stato abituato a ricevere un consenso privo di fondamento “in re”. Un sano confronto, al quale io non mi sottraggo mai, aiuta sempre la comunione. O forse mi sbaglio?
Nel suo messaggio di augurio alla Facoltà Teologica della Università Cattolica Argentina, papa Francesco ha scritto qualche giorno fa:
“Insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera, una frontiera nella quale il Vangelo incontra le necessità delle persone alle quali si annuncia, in maniera comprensibile e significativa. Dobbiamo guardarci da una teologia che si limita alla disputa accademica o che contempla l’umanità da un castello di cristallo. Si impara per vivere: teologia e santità sono un binomio inseparabile. Di conseguenza, la teologia che si sviluppa deve esser basata sulla Rivelazione, sulla Tradizione, ma al contempo deve accompagnare i processi culturali e sociali, specialmente le transizioni difficili”
Così mi piace pensare che si debba servire la tradizione, con pazienza e con audacia. Di questo approccio ha bisogno oggi una teologia del matrimonio che si occupi di comporre il dissidio tra famiglie felici e famiglie infelici, senza finzioni troppo umane e senza idealizzazioni disumane.






























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